Donald Trump ha parlato e agito parecchio da quando si è insediato alla Casa Bianca, dieci giorni fa. Paradossalmente, però, si è occupato davvero poco della Cina, che pure resta l’argomento numero uno per gli Stati Uniti.

Il presidente ha parlato al telefono con Xi Jinping, ha salvato il social network cinese TikTok e, soprattutto, ha ricevuto la pessima sorpresa di DeepSeek, l’intelligenza artificiale cinese che ha sbaragliato il modello americano, spingendo il presidente a parlare di “wake up call”, campanello d’allarme. Ma tutto questo non costituisce ancora un politica che possa riservare sorprese.

Pechino è in attesa di sviluppi. In precedenza Trump aveva lasciato intendere che dal primo febbraio gli Stati Uniti avrebbero applicato dazi doganali supplementari del 10 per cento per i prodotti cinesi, ma la misura non è stata ancora promulgata. Sarebbe il primo colpo di cannone di una guerra commerciale che tutto il mondo teme di veder scoppiare, ma che almeno per ora non è ancora garantita.

L’obiettivo di Trump rispetto alla Cina è duplice e contraddittorio. Il presidente vuole frenare le sue ambizioni da superpotenza e farle pagare i presunti torti inflitti agli Stati Uniti. È deciso a punire Pechino e nel suo entourage ha incluso avversari feroci del regime comunista, ma resta comunque un imprenditore e sa bene che è possibile fare affari con il paese. Di sicuro questo è quello che gli suggerisce il suo amico Elon Musk, grande investitore in Cina con Tesla e ospite gradito di Pechino, dove è accolto ogni volta come un capo di stato.

I cinesi non sanno se aspettarsi un’ostilità feroce da parte di un presidente perfettamente incline a questo comportamento, o un’ offerta di “deal” comunque tipica del suo carattere. Al momento non è escluso che Trump scelga la strada del deal.

Uno dei principali ostacoli verso un’intesa sino-statunitense è Taiwan, l’isola rivendicata da Pechino e posta sotto la protezione ufficiosa di Washington. Oggi, però, esistono segnali profondamente inquietanti per Taipei.

Prima di tutto c’è la questione della Groenlandia, territorio legato alla Danimarca che Trump vuole annettere a tutti i costi. E se la Casa Bianca può mettere le mani su un territorio sovrano, minacciando addirittura di usare le forza, allora qual è la differenza con le ambizioni cinesi su Taiwan? A Taipei come a Pechino, l’analogia non sfugge a nessuno.

Trump minaccia inoltre di imporre dazi del 100 per cento sui semiconduttori fabbricati a Taiwan, accusando l’isola di aver “rubato” questa industria agli Stati Uniti. È una pretesa assurda.

Taiwan, infatti, ha sviluppato un modello industriale così efficace da convincere le aziende americane ad affidare la produzione dei loro chip al gigante taiwanese Tsmc, che tra l’altro costruisce stabilimenti in Arizona nonostante le tante difficoltà.

Ma soprattutto c’è il paradosso di voler penalizzare un paese che in teoria gli statunitensi si sono impegnati a proteggere dagli appetiti cinesi. A questo punto è naturale interrogarsi sulle intenzioni di Trump e temere che Taiwan possa fare parte di un eventuale deal sino-americano.

All’inizio del nuovo anno del Serpente, i taiwanesi non si sentono affatto sicuri e sono sempre più preoccupati per l’imprevedibilità del presidente statunitense.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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