‏”Bel casino lì da voi”, mi dicono. Ma la situazione in Israele non è mai normale, quindi anche ora è normale. Poi mi chiedono notizie della mia famiglia che si trova sotto il continuo lancio di missili: mi chiedono se stanno bene e soprattutto perché non vengono qui al sicuro. Cerco di capire se è una specie di critica non esplicita nei confronti di chi non condivide con la propria famiglia e gli amici d’infanzia la stessa situazione e vive nel lusso della tranquillità.

‏Ma loro non criticano, pongono una semplice domanda, lecita per chi non conosce quel fortissimo senso di appartenenza che alcuni chiamano patriottismo, quella forza che ti immobilizza e ti paralizza davanti agli schermi luminosi dei tablet, degli smartphone e delle tv, in un mare incontrollabile di notizie; una specie di bulimia informativa che non fa altro che alimentare la confusione, testando in continuazione il livello di sopportazione emotiva.

‏E come spieghi tutto questo ai tuoi figli? Loro fanno domande ed è li che mi trovo all’improvviso senza risposta. Io che conosco le ragioni geopolitiche di entrambi i contendenti, che mi so porre le domande e so fornire le risposte adeguate, davanti a queste domande resto in silenzio, non so cosa dire, non so cosa raccontare.

‏Mi chiedono: come si spiega la guerra ai bambini da voi? Di nuovo non rispondo immediatamente. A me non l’hanno mai spiegata. Era sempre lì, a volte più vicina altre volte più lontana. In alcuni momenti condizionava la vita, in altri era solo un rumore di fondo che volendo si poteva anche evitare. Me l’hanno fatta vivere fin da quando sono nata, così non c’è mai stato bisogno di spiegarmela.

In Israele chiunque abbia a che fare con dei bambini piccoli, in questi giorni, si è posto più o meno la stessa domanda. Nelle scuole materne alcune maestre con particolare senso di iniziativa hanno insegnato ai bambini una canzoncina inventata da loro per rendere i momenti delle sirene meno traumatici. In un’altra scuola, sempre le maestre hanno raccontato che con il suono delle sirene tutti i bambini diventano dei pompieri in missione e quindi devono essere particolarmente attenti e molto concentrati. Alcune mamme dicono che funziona, ma solo parzialmente. Di notte la maggior parte di questi bambini non dorme più, hanno sempre gli incubi. Ogni piccolo rumore viene scambiato per un allarme. Hanno paura di dormire, di stare svegli, hanno paura di tutto.

Un paese intero trattiene il respiro, cerca di non mollare. Anche per loro è difficile comprendere cosa sia la guerra, sanno solo che non la vogliono e desiderano vivere una vita normale.

L’altra sera nel mezzo della quotidiana conversazione via Skype tra i miei figli e i miei genitori in Israele, è suonata la sirena. I nonni avevano poco più di sessanta secondi per entrare nel rifugio, ci hanno salutato velocemente; di nuovo non c’era tempo per spiegare. ‏La mattina dopo mio figlio ha aperto il mio iPad che per sbaglio era collegato a Twitter, che ormai è diventato, insieme a Facebook, pieno di immagini forti che andrebbero censurate. ‏Ha solo sei anni, voleva giocare, e l’ho trovato pietrificato di fronte all’immagine di un bambino palestinese morto.

‏I mezzi d’informazione parlano soprattutto dei morti, ma in questa realtà distorta sono i vivi-morti a cui bisognerebbe pensare. Bambini a cui non ci sarà bisogno di spiegare cos’è la guerra, come non c’è bisogno di spiegare cos’è l’aria che respirano. Bambini per cui la guerra è un’unica e continua realtà. Come si fa a spiegare ai bambini ciò che non abbiamo mai capito realmente neanche noi?

‏A loro non interessano le ragioni geopolitiche, le colpe, le responsabilità. Sono bambini, e quando chiedono “perché?” non vogliono sentirsi dire “perché sì”. Vogliono capire, anche l’inspiegabile.

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