21 maggio 2010 17:43

Perché la teologia si presenta di nuovo come un punto di riferimento per la politica radicale? Lo fa non per fornirci un “grande altro” di natura divina, che assicuri il successo ai nostri sforzi, ma, al contrario, come pegno della nostra libertà radicale, senza nessun grande altro su cui contare. Feodor Dostoevskij sapeva che Dio ci dà libertà e responsabilità, non come un maestro benevolo che ci guida verso la salvezza, ma come colui che ci ricorda che siamo completamente soli con noi stessi.

Questo Dio ricorda quello della vecchia barzelletta bolscevica su un agitatore comunista che si ritrova all’inferno e convince subito le guardie a lasciarlo andare in paradiso. Quando il diavolo si accorge della sua assenza, va da Dio per chiedergli di restituire all’inferno ciò che è di Satana. Ma appena si rivolge a Dio chiamandolo “mio signore”, Dio lo interrompe: “Primo, io non sono un signore, ma un compagno. Secondo, sei pazzo a tirare fuori certe fantasie? Io non esisto! E terzo, sbrigati, taglia corto, altrimenti faccio tardi alla riunione della mia cellula di partito”.

Dio e uomo

Questo è il Dio di cui ha bisogno una vera sinistra: un Dio che “si è fatto uomo” fino in fondo, un nostro compagno, crocifisso insieme a due emarginati. E che non solo non esiste, ma ne è perfettamente consapevole e accetta la propria eliminazione, dissolvendosi completamente nell’amore che unisce i membri dello spirito santo (il partito, il collettivo emancipatore). Il cattolicesimo è spesso definito un compromesso tra il cristianesimo “puro” e il paganesimo.

Ma cos’è allora il cristianesimo sul piano concettuale? Protestantesimo? Qui bisognerebbe fare un ulteriore passo avanti: l’unico cristianesimo all’altezza della sua idea e che trae tutte le conseguenze dal suo evento centrale – la morte di Dio – è l’ateismo. L’anarchico spagnolo Buenaventura Durruti disse: “L’unica chiesa che illumina è una chiesa in fiamme”. Aveva ragione, anche se non nel senso anticlericale che voleva avere. La religione arriva alla sua verità soltanto attraverso l’autocancellazione.

Bertolt Brecht afferma: “Una bestia è qualcosa di forte, terribile, devastante. La parola emette un suono barbaro”. E a sorpresa aggiunge: “La questione centrale, di fatto, è questa: come possiamo diventare bestie, bestie in un modo tale che i fascisti abbiano paura per il loro dominio?”. È chiaro che, per Brecht, questa domanda indica un compito positivo, non il solito lamento su come i tedeschi – un popolo così profondamente colto – avessero potuto trasformarsi nelle bestie naziste. “Dobbiamo capire che la bontà deve essere anche capace di ferire. Ferire la barbarie”.

È solo in questo quadro che possiamo spiegare la distanza che separa la saggezza orientale dalla logica emancipatrice cristiana. La logica orientale accetta il vuoto o il caos primordiale come la realtà ultima e, paradossalmente, proprio per questa ragione preferisce un ordine sociale organico in cui ogni elemento è al suo posto. Al cuore del cristianesimo, invece, c’è un progetto molto diverso: quello di una negatività distruttrice che non finisce in un vuoto caotico, ma si ribalta (e si riorganizza) in un nuovo ordine, imponendolo alla realtà.

Contro il buonsenso

Per questo il cristianesimo è il contrario del buonsenso: la saggezza ci dice che i nostri sforzi sono vani, che tutto finisce nel caos, mentre il cristianesimo insiste follemente sull’impossibile. L’amore, soprattutto quello cristiano, non è assolutamente saggio. Per questo san Paolo diceva: “Distruggerò la saggezza del saggio” (Sapientiam sapientum perdam, come è generalmente nota questa espressione in latino). Qui dovremmo prendere alla lettera il termine “saggezza”: Paolo vuole sfidare la saggezza (nel senso di accettazione “realistica” di come va il mondo), non la conoscenza.

Per quanto riguarda l’ordine sociale, questo significa che l’autentica tradizione cristiana rifiuta il buonsenso comune, quello secondo cui l’ordine gerarchico è il nostro destino e i tentativi di mandarlo all’aria e crea­re un altro ordine egualitario sono destinati a finire in un orrore distruttivo. In politica, significa che l’amore incondizionato ed egualitario per il proprio vicino può essere il fondamento di un nuovo ordine.

La forma in cui si manifesta questo amore è ciò che potremmo anche chiamare l’idea di comunismo: la spinta a realizzare un ordine sociale egualitario di solidarietà. L’amore è la forza di questo legame universale che, in un collettivo emancipatore, unisce le persone direttamente, nella loro individualità, scavalcando le loro posizioni in una gerarchia sociale. Dostoevskij aveva veramente ragione quando scriveva: “Un socialista cristiano va temuto più di un socialista ateo”. Temuto, sì, temuto dai suoi nemici.

È stato san Paolo a offrire una definizione straordinariamente calzante della lotta di emancipazione: “La nostra battaglia non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i principati e le potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra (kosmokratoras), contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” (Lettera agli Efesini 6:12). Cioè, traducendo nella lingua di oggi: “La nostra lotta non è contro concreti individui corrotti, ma contro chi ha il potere in generale, contro la loro autorità, contro l’ordine globale e la mistificazione ideologica che lo sostiene”.

Bisognerebbe rifiutare con fermezza l’ideologia liberalvittimistica che riduce la politica a evitare guai, a rinunciare a tutti i progetti positivi e perseguire il meno peggio. Come osservava con amarezza Arthur Feldmann, uno scrittore viennese ebreo, il prezzo che di solito paghiamo per sopravvivere è la nostra vita.

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