14 marzo 2020 18:52

L’epidemia di coronavirus ha fatto emergere due tipologie di persone che in questo momento si contrappongono: quelle che sono esauste perché lavorano troppo (medici, personale ospedaliero…) e quelle che non hanno niente da fare perché sono forzatamente o volontariamente confinate a casa. Dato che personalmente appartengo alla seconda categoria, mi sento obbligato ad approfittare di questa situazione per proporvi una breve riflessione sui diversi modi in cui possiamo essere stanchi. Ho deciso di ignorare l’ovvio paradosso della stanchezza dovuta all’inattività forzata, quindi permettetemi di partire dal filosofo Byung-Chul Han, che ci offre un’analisi sistematica di come e perché viviamo in una “società della stanchezza”. Quello che segue è un breve riassunto del capolavoro di Byung-Chul Han La società della stanchezza (Nottetempo 2012), spudoratamente copiato da Wikipedia.

Spinti dalla richiesta sociale di persistere nella ricerca del successo, oltre che dall’ambizione dell’efficienza, diventiamo al tempo stesso mandanti e sacrificatori ed entriamo in una spirale di autolimitazione, autosfruttamento e collasso. ‘Quando la produzione è immateriale, tutti ne possiedono i mezzi. Il sistema neoliberista non è più un sistema classista nel vero senso della parola. Non è più costituito da classi in conflitto tra loro. Questo ne garantisce la stabilità. Han sostiene che tutti sono diventati sfruttatori di se stessi. ‘Oggi ognuno è un lavoratore autonomo che si autosfrutta. Ognuno è al tempo stesso schiavo e padrone. Perfino la lotta di classe si è trasformata in una ‘lotta contro se stessi’. Gli individui sono diventati quello che Han chiama ‘soggetti orientati all’obiettivo’; non pensano di essere ‘soggetti’ soggiogati ma piuttosto ‘progetti’ che si modificano e si reinventano continuamente, il che diventa una forma di compulsione e costrizione, quindi un tipo più efficiente di soggetivazione e sottomissione. Essendo un progetto che si ritiene libero da limitazioni esterne, adesso l’Io si sottomette a limitazioni interne e costrizioni autoimposte, che stanno assumendo la forma di una ricerca compulsiva del successo tramite l’ottimizzazione”.

Anche se Han ci offre alcune interessanti riflessioni sulla nuova modalità di percezione di se stesso da parte di un soggetto, dalle quali possiamo imparare molto (quella che individua è la nuova forma di Super-io) penso comunque che sia possibile rivolgergli un paio di critiche. In primo luogo, i limiti e le costrizioni non sono solo interni: si stanno affermando nuove rigide regole di comportamento, soprattutto tra gli appartenenti alla nuova classe di “intellettuali” – pensate solo a quelle che impone la correttezza politica – che costituiscono un aspetto particolare della “lotta contro se stessi”, contro la tentazione di essere “scorretti”. Oppure considerate il seguente esempio di limitazione esterna.

Un paio di anni fa, il regista e scrittore israelo-americano Udi Aloni organizzò una performance a New York del gruppo palestinese Jenin freedom theatre, e sul New York Times apparve un articolo su questa visita che rischiò di non essere mai pubblicato. Il giornale aveva chiesto ad Aloni il titolo della sua ultima pubblicazione per poterlo citare nell’articolo e lui aveva fatto il nome di un volume che aveva curato. Il problema era che il sottotitolo del libro conteneva l’espressione “stato binazionale” e, temendo di irritare gli israeliani, la direzione aveva chiesto che fosse eliminata, altrimenti il pezzo non sarebbe uscito.

Il lavoro alla catena di montaggio è debilitante per la sua ripetitività, ci si stanca da morire a montare iPhone

Un esempio simile ma più recente è quello della scrittrice anglo-pachistana Kamila Shamsie. Il suo libro Io sono il nemico (Ponte alle Grazie 2017), una versione modernizzata dell’Antigone di grande successo, ha ricevuto diversi premi, tra cui il premio Nelly Sachs della città di Dortmund. Ma quando si è venuto a sapere che era una sostenitrice del movimento Bds (Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni), le sono stati retroattivamente revocati tutti i premi, con la giustificazione che, quando avevano deciso di attribuirglieli, “i membri della giuria non erano a conoscenza del fatto che l’autrice aveva partecipato ad azioni di boicottaggio contro il governo israeliano per le politiche adottate nei confronti dei palestinesi dal 2014”. Questa è la situazione oggi. Handke ha ottenuto il Nobel nonostante fosse un sostenitore delle operazioni militari serbe in Bosnia, mentre partecipare a una protesta pacifica contro la politica di Israele nei confronti della Striscia di Gaza non consente di ricevere premi.

In secondo luogo, la nuova forma di soggettività descritta da Han è condizionata dalla più recente fase del capitalismo globale, che rimane un sistema classista con sempre maggiori disuguaglianze, in cui le lotte e i conflitti non sono in nessun modo riducibili alla “lotta contro se stessi”. Nei paesi in via di sviluppo ci sono ancora milioni di lavoratori manuali, e ci sono enormi differenze tra i diversi tipi di lavoratori immateriali (basti pensare al crescente settore dei “servizi umani” come l’assistenza agli anziani). C’è un grande divario tra il manager che dirige o possiede un’azienda e il lavoratore precario che passa le giornate a casa da solo davanti a un computer, non sono entrambi padroni e schiavi di se stessi nello stesso senso.

Una nuova divisione del lavoro
Si parla molto del fatto che alla vecchia modalità della catena di montaggio fordista si stia sostituendo un nuovo tipo di lavoro collaborativo che lascia molto più spazio alla creatività individuale. Ma quella che si sta effettivamente verificando non è tanto una sostituzione quanto un’esternalizzazione: alla Microsoft e alla Apple il lavoro sarà anche organizzato in modo più collaborativo, ma il prodotto finale poi viene assemblato in Cina o in Indonesia, in un modo molto fordista. La catena di montaggio è stata semplicemente esternalizzata. Quindi abbiamo una nuova divisione del lavoro: nell’occidente sviluppato ci sono i lavoratori autonomi che si autosfruttano (come quelli descritti da Han), nei paesi in via di sviluppo quelli che fanno lavori debilitanti alla catena di montaggio, a cui si aggiunge il sempre maggior numero di individui che lavorano nel settore dei servizi (badanti, camerieri…) dove lo sfruttamento abbonda. Solo quelli del primo gruppo (i lavori autonomi spesso precari) corrispondono alla descrizione di Han.

Ognuno di questi tre gruppi ha un modo specifico di stancarsi. Il lavoro alla catena di montaggio è debilitante per la sua ripetitività, ci si stanca da morire a montare iPhone uno dietro l’altro nella fabbrica Foxconn alla periferia di Shanghai. Per altri versi, quello che rende così faticoso il lavoro di assistenza è il fatto di essere pagati (anche) per fingere di farlo con vera partecipazione, di tenere veramente ai propri “assistiti”: una maestra d’asilo è pagata anche per mostrare sincero affetto nei confronti dei bambini, e la stessa cosa vale per chi bada agli anziani. Riuscite a immaginare lo stress che comporta essere sempre “affettuosi”? In contrasto con i due casi precedenti, nei quali è possibile almeno mantenere una certa distanza nei confronti di quello che si sta facendo (anche se ci viene richiesto di essere affettuosi con un bambino, possiamo sempre fingere di esserlo), il terzo caso richiede qualcosa che è molto più stancante. Immaginate che io venga assunto per pubblicizzare un prodotto in modo tale da convincere la gente a comprarlo, anche se il prodotto non mi interessa o addirittura lo odio, devo sfruttare al massimo la mia creatività, cercando di trovare soluzioni originali, e quello sforzo può stancarmi molto di più del noioso lavoro ripetitivo alla catena di montaggio. Questa è la specifica stanchezza di cui parla Han.

Ma non sono solo i precari che lavorano al pc da casa che si stancano perché si autosfruttano. Esiste anche un altro tipo di attività per la quale di solito si usa il termine ingannevole di “lavoro creativo di squadra”: in questo caso ci si aspetta che le persone assumano funzioni imprenditoriali, al posto dei manager o dei proprietari, e si occupino “in modo creativo” dell’organizzazione sociale della produzione e della distribuzione. Il ruolo di questo gruppo è ambiguo: da una parte “appropriandosi delle funzioni imprenditoriali, vedono il carattere sociale e il significato del loro lavoro dal punto di vista limitato del profitto”: “La capacità di organizzare la forza lavoro e la collaborazione in modo efficiente ed economico, e di pensare all’aspetto socialmente utile della forza lavoro, è utile per l’umanità e lo sarà sempre”. Ma lo fanno in condizioni di continua subordinazione al capitale, vale a dire allo scopo di rendere l’azienda più efficiente e redditizia, ed è questa tensione che rende così estenuante il “lavoro creativo di squadra”. Sono ritenuti responsabili del successo dell’azienda, senza contare che il lavoro di squadra implica la competizione tra loro e con altri gruppi. Sono lavoratori pagati per svolgere compiti che tradizionalmente spetterebbero ai capitalisti in quanto organizzatori del processo di produzione, perciò in un certo senso si trovano ad avere l’aspetto peggiore di entrambe le funzioni: hanno tutte le preoccupazioni e le responsabilità dei manager pur rimanendo lavoratori retribuiti senza alcuna sicurezza per il proprio futuro, la situazione più stressante che si possa immaginare.

Dovremmo anche osservare che le divisioni di classe hanno acquistato una nuova dimensione con il panico per il coronavirus. Pur stando in isolamento a casa, siamo bombardati da chiamate dall’ufficio. Ma chi può lavorare così? Solo quelli che svolgono lavori di tipo intellettuale o manageriale come me, che possono collaborare in teleconferenza o usando altri sistemi digitali, così che, anche quando siamo in quarantena, il nostro lavoro può procedere più o meno tranquillamente, possiamo perfino avere più tempo per “sfruttare noi stessi”. Ma quelli che devono lavorare fuori, nelle fabbriche e nei campi, nei negozi, negli ospedali e nei trasporti pubblici? Molte cose devono andare lisce nell’insicuro mondo esterno perché io possa sopravvivere in quarantena.

E, l’ultima cosa, anche se non la meno importante, è che dovremmo sfuggire alla tentazione di criticare la rigida autodisciplina e la dedizione al lavoro, invitando gli altri a “prenderla con filosofia” – Arbeit macht frei è ancora il motto giusto nonostante il pessimo uso che ne hanno fatto i nazisti. Certo, il lavoro di quelli che devono combattere gli effetti dell’epidemia è durissimo, ma è un lavoro gratificante a beneficio della comunità, molto diverso dallo stupido sforzo per rincorrere il successo. Quando un medico o un infermiere sono esausti perché hanno lavorato più ore del dovuto, la loro stanchezza è molto diversa da quella di chi è ossessionato dalla propria carriera.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

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