26 giugno 2021 10:11

Il 5 giugno i ministri del G7 hanno annunciato la loro intenzione di applicare una tassa minima del 15 per cento sui profitti delle multinazionali delocalizzati nei paradisi fiscali. Diciamolo chiaramente: se la proposta è tutta qui, si limita a concedere ufficialmente ai più ricchi il permesso di commettere frodi. Le piccole e medie imprese, come anche le classi popolari e medie, non hanno nessuna possibilità di creare filiali per spostare i propri profitti o redditi in paesi con una tassazione conveniente. Questi contribuenti non hanno altra scelta che pagare le normali imposte. Ma se all’imposta sul reddito e sui profitti si sommano i contributi sociali, i lavoratori dipendenti e i piccoli e medi lavoratori autonomi dei paesi del G7 si ritrovano a pagare dei tassi molto più alti del 15 per cento: almeno il 20-30 per cento, e spesso anche il 40-50 per cento.

L’annuncio del G7 inoltre non poteva arrivare in un momento più sbagliato. Il sito di giornalismo investigativo ProPublica ha appena pubblicato un’inchiesta che conferma quello che i ricercatori avevano già dimostrato: i miliardari statunitensi non pagano quasi tasse sul reddito in confronto al resto della popolazione. In pratica l’imposta sui profitti è spesso l’imposta finale pagata dai più ricchi (quando la pagano). I profitti si accumulano nelle imprese o nelle strutture ad hoc (trust, holding), che finanziano gran parte del tenore di vita di queste persone (jet privati, carte di credito e così via) quasi senza alcun controllo. Riconoscendo che le multinazionali potranno continuare a spostare i loro profitti nei paradisi fiscali in cambio di un’unica imposta del 15 per cento, il G7 ufficializza l’avvento di un mondo in cui gli oligarchi pagano strutturalmente meno tasse del resto della popolazione.

Nuove regole
Come uscire da questa situazione? Prima di tutto fissando un’imposta minima più alta del 15 per cento, cosa che ogni paese può fare da subito. Come ha mostrato l’Osservatorio fiscale europeo, la Francia potrebbe applicare un’imposta minima del 25 per cento sulle multinazionali, che le frutterebbe 26 miliardi di euro all’anno, l’equivalente di quasi il 10 per cento delle spese sanitarie nazionali. Con un’imposta del 15 per cento, appena più alta di quella applicata dall’Irlanda (il 12,5 per cento), la misura sarebbe meno efficace e frutterebbe solo 4 miliardi. Una parte dei 26 miliardi potrebbe essere usata per finanziare gli ospedali, le scuole, la transizione energetica; un’altra per ridurre la pressione fiscale sui lavoratori autonomi e quelli dipendenti meno ricchi.

È illusorio aspettarsi l’unanimità europea su una decisione del genere. Solo un’azione unilaterale, idealmente con il sostegno di qualche paese, può sbloccare la situazione. L’Irlanda o il Lussemburgo faranno probabilmente appello alla Corte di giustizia dell’Unione europea (Cgue), facendo leva sul fatto che i princìpi di libera circolazione dei capitali (senza alcuna contropartita fiscale, sociale o ambientale) definiti trent’anni fa non prevedono una possibilità del genere. È difficile dire cosa deciderà la corte, ma se serve le regole dovranno essere riscritte.

In teoria negli ultimi anni i paesi ricchi avrebbero dovuto creare dei sistemi di trasmissione automatica d’informazioni bancarie internazionali sul possesso di capitali e sui redditi finanziari individuali. Perché allora non pubblicare degli indicatori affidabili in grado di misurare i progressi fatti? I paesi del G7 dovrebbero rendere note ogni anno informazioni dettagliate sulle imposte pagate dalle persone più ricche (patrimoni compresi tra uno e dieci milioni di euro, tra dieci e cento milioni, tra cento e un miliardo, e così via).

L’inchiesta di ProPublica ha svelato che i ricchi non pagano molto, e che solo un’imposta progressiva sulla ricchezza permetterebbe di tassare in modo significativo queste persone in rapporto al loro patrimonio. In ogni caso, anziché aspettare le prossime rivelazioni, tutti i governi dovrebbero rendere pubblico l’ammontare delle imposte pagate dai loro miliardari e milionari, in particolare in Francia.

Infine questa discussione deve aprirsi ai paesi in via di sviluppo. Il meccanismo previsto dal G7, secondo il quale ogni paese è incaricato di far pagare un’imposta minima alle proprie multinazionali, è accettabile solo all’interno di un sistema generale di ridistribuzione dei profitti. Il G7 evoca la possibilità che una parte dei profitti che superano una certa soglia di rendimento (più del 10 per cento annuo rispetto al capitale investito) sia ridistribuita in funzione delle vendite nei vari paesi. Ma questo sistema riguarderà solo delle somme molto basse e si limiterà per lo più a una ridistribuzione tra le economie avanzate. Se queste ultime vogliono davvero raccogliere la sfida cinese, migliorare la loro immagine e dare una possibilità al sud del mondo, è necessario che i paesi poveri dispongano di una parte significativa dei profitti di tutte le multinazionali e dei miliardari del pianeta.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

Questo articolo è uscito sul numero 1414 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it