03 agosto 2016 17:50

Ero un ragazzo smarrito negli Stati Uniti, dove mi trovavo illegalmente. Per alcuni mesi avevo lavorato come falegname e tuttofare: avevo scavato fossi, demolito case e costruito un garage. Mi erano venuti i calli sulle mani ed ero eternamente stanco. Con i pochi soldi che avevo, mi ero comprato un computer portatile nella speranza di trovare lavoro come programmatore. L’avevo preso da T., un tizio con cui giocavo a pallacanestro, che vendeva droga e altre cose rubate. Abitavo vicino a una scuola, in un quartiere piuttosto pericoloso: gli spari erano all’ordine del giorno, come le sirene delle ambulanze e delle auto della polizia.

La prima volta che giocai a pallacanestro fui fortunato. Ero l’unico non nero-nero, ma loro erano soltanto in nove. Mi assegnarono il compito di marcare un ragazzo alto più o meno un metro e ottanta, cioè poco più di me, che chiamavano Jordan.

Dal primo contatto si capì subito capito chi tra noi due fosse il più bravo. Jordan entrò subito forte dalla sinistra, e io rimasi immobile nella speranza di farmi fischiare un fallo a favore. Allora lui saltò sopra di me e tirò a canestro. Era chiaramente il migliore in campo. Tutti scoppiarono a ridere. Capii che mi consideravano un bianco. Un cracker. Solo molto tempo dopo venni a sapere che si trattava di un insulto.

Troppo bianco

Nei due mesi successivi non giocai più con loro. Nella scuola c’era una sala pesi. Facevo lavori di fatica e ogni giorno, a fine turno, andavo ad allenarmi nella palestra della scuola per un’ora e mezza. Questo, ovviamente, quando un lavoro ce l’avevo. Quando tornai a giocare con i ragazzi, in una partita tre contro tre, umiliai Jordan, guadagnandomi così l’amicizia degli altri della comitiva. Fu così che conobbi T.

Ora in campo me la cavavo abbastanza bene, ma ero troppo bianco per meritarmi il soprannome di un grande giocatore. Così mi chiamarono Hornacek (come l’ex giocatore e allenatore Jeff Hornacek). Una volta di sabato, dopo una partita vinta, T. mi offrì una pasticca, dicendomi che mi avrebbe aiutato a saltare di più. Era anfetamina. Giocai ininterrottamente per dodici ore come se mi avessero dato la carica. Nei due giorni successivi, salire e scendere le scale fu l’attività fisica più dolorosa che mi fosse mai capitata. In vita mia non ho mai più avuto un simile affaticamento muscolare. Da allora da T. accettai solo cose che avessero a che fare con l’elettronica.

Ero povero in canna e la prospettiva di diventare un immigrato regolare non era affatto sicura

Mi comprai una Volkswagen Passat vecchia di dieci anni, che chiamai Gica. Senza automobile non si trovava lavoro, per questo decisi di investire 150 dollari. Le portiere si chiudevano solo quando ne avevano voglia e dal pianale s’intravedeva l’asfalto. Qualche volta mi capitò di dover guidare tenendo chiuso lo sportello con la mano. A quei tempi non potevo immaginare che quest’esercizio mi sarebbe tornato utile vent’anni più tardi quando, in qualità di funzionario del governo romeno, ho dovuto affrontare esperienze simili con le auto di servizio.

Di tanto in tanto la mia Gica serviva come nido d’amore per qualche rapida avventura. Gli adolescenti del quartiere, gente di buon senso, ogni tanto mi lasciavano attaccati al tergicristallo i soldi per l’affitto. Un paio di volte trovai dieci dollari.

Il dente rotto

Allora studiavo il linguaggio Java, ma ero già abbastanza stufo di tutto. Ero povero in canna e la prospettiva di ottenere il permesso di soggiorno non era affatto sicura. Trovai una chat room. E in qualche modo riuscii ad attaccare discorso con una ragazza. In quel momento ero piuttosto disperato, da un paio di mesi ero del tutto solo. Non ebbi il coraggio di dirle che ero zingaro.

Dopo un paio di settimane di chiacchierate online e di telefonate, la ragazza decise di venire a trovarmi a Chicago. Andai a prenderla all’aeroporto di O’Hare, che è enorme. Il nostro primo incontro fu piuttosto impacciato. Non sapevo cosa dirle. Probabilmente era evidente che ero un poveraccio: i miei vestiti erano tutti firmati Esercito della salvezza, anche se erano di gran lunga migliori di quelli che portavo in Romania.

La ragazza lavorava per un’importante organizzazione internazionale, era bella e ben vestita. Eravamo entrambi degli alienati. Il suo compleanno cadeva proprio quel fine settimana. Le regalai un profumo Trésor e due biglietti per lo spettacolo di danza Riverdance. Bruciai così tutti i risparmi. Ma, come ho già detto, in quel momento ero parecchio depresso. Stavo cominciando a diventare calvo e, in più, avevo un dente rotto che, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a nascondere mentre ridevo. Ovviamente i soldi per andare dal dentista non li avevo. Lei mi guardava con lo sguardo vuoto, segnali evidente di depressione.

Ci tenevamo per mano, come per aggrapparci a qualcuno con cui avevamo qualcosa in comune

Per i successivi tre giorni rimanemmo bloccati insieme in quella grande città, dove entrambi eravamo stranieri. Le prime ore furono pesanti. Ci tenevamo per mano, come per aggrapparci a qualcuno con cui avevamo qualcosa in comune. Le raccontavo qualche storia, la facevo ridere. Andammo a casa mia, un appartamento che condividevo con altri due uomini. All’inizio lei era un po’ spaventata. Si mise a piangere. Le raccontai di mia madre, di quanto era stata difficile la sua vita.

Legami finiti

Poi decidemmo di andare a fare una passeggiata e prendemmo la metro per andare in centro. Le mie scarpe raffinate, senza lacci e di colore scarlatto, mi stavano grandi e ci ballavo dentro. Lei mi raccontò la sua vita tormentata e di quanto fosse stata sofferta la decisione di staccarsi dal suo ambiente e andare a vivere negli Stati Uniti. Mi parlò anche di legami che erano finiti.

Quando tornammo a casa faceva freddo, così ci stringemmo uno accanto all’altra. Due giovani ragazzi che avrebbero dovuto essere già persone mature. Ma che non potevano esserlo né sapevano bene come riuscirci. Si stava bene. Non c’importava più niente e ci perdemmo l’uno nell’altra. Era rassicurante. In qualche modo dimenticammo di essere due universi paralleli: io, il signor nessuno, uno squattrinato che sembrava senza prospettive, e lei, quasi all’opposto. La notte si consumò lentamente ma, con il senno di poi, forse troppo in fretta.

La mattina dopo mangiammo in un Dunkin’ Donuts dove un cieco ci chiese se anche noi vedevamo le stelle. Gli risposi di no, che era giorno. Lui allora mi disse che ero un idiota, che le stelle ci sono anche di giorno e che siamo noi a non sforzarci abbastanza per vederle.

Nei tre giorni successivi rimanemmo attaccati l’uno all’altra. Fu uno dei momenti più belli della mia vita. Ridemmo molto, così tanto che quasi ci cacciarono dal teatro mentre assistevamo a Riverdance. Quando lei se ne andò sentii che qualcosa in me era morto. Ogni tanto ancora mi tornano in mente le stelle che mi ostino a non voler vedere.

(Traduzione di Mihaela Topala)

Questo articolo è stato pubblicato dal settimanale romeno Dilema Veche.

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