03 giugno 2017 14:52

Durante gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza se per caso in famiglia passava un giorno senza chiasso e confusione, o una settimana senza botte, significava che ero dalla nonna o in qualche colonia comunista.

Quando ho appreso dell’esistenza della sindrome di Tourette ho avuto la certezza che le persone della mia famiglia, e in generale delle famiglie degli alcolisti del mio palazzo, sarebbero state le candidate perfette per vincere l’“Oscar di Tourette”. Le parolacce e gli insulti erano parte essenziale del vocabolario alla base del nostro patrimonio linguistico, usati ogni giorno con grande solennità.

Se Gogu non picchiava Ana, Nuta o Lica, se Gigilica non picchiava Lili, e se mamma non picchiava mio padre dopo che lui, ubriaco, aveva provato a prenderla a botte, doveva per forza essere la settimana del mese in cui in casa si distillava la grappa e tutti erano in uno stato etilico semicomatoso. O poteva anche essere perché in cielo erano comparsi stormi di maiali che in modo maestoso si dirigevano volando verso i paesi caldi. Tutto assolutamente naturale per le persone della mia famiglia, raffinati amanti di eccentricità e in possesso di un senso estetico tutto particolare. L’osservazione di un simile evento sarebbe diventato una priorità assoluta, a danno di qualunque altra attività in corso.

La violenza è sempre la stessa
La situazione dei vari ghetti dove sono stato e che ho visitato negli ultimi anni è molto peggiore di quella che c’era a casa mia. Nei campi profughi della valle della Bekaa, in Libano, nei villaggi isolati del Laos, nei quartieri più poveri di Tbilisi e di altre città, anche nei paesi dell’Unione europea, la violenza è sempre la stessa.

Sappiamo bene che nelle zone più difficili delle nostre società si consumano abusi terribili, ma non sono affatto convinto che capiamo chiaramente cosa succede davvero in quei posti. Credo che non ci rendiamo conto che gli abusi commessi nei quartieri ghetto sono molto numerosi e molto violenti. E raramente denunciati.

Nel quartiere di Ferentari, a Bucarest, le donne picchiate non possono fare praticamente nulla. I trafficanti di droga non apprezzano molto che qualcuno chiami la polizia, e per vendicarsi usano metodi brutali. Se poi in qualche modo gli agenti arrivano, con ottime probabilità penseranno che un po’ di botte non guastano, perché così è tradizione anche nelle loro famiglie. È anche possibile che i poliziotti in questione siano ammiratori del dittatore fascista Antonescu, e dunque siano convinti che chi vive a Ferentari non dovrebbe nemmeno esistere, in quanto minaccia la purezza della vera razza romena. In entrambi i casi l’intervento arriva troppo tardi o non arriva per niente.

Nella felice ipotesi in cui un poliziotto dal cuore grande si degni di intervenire, allora sorgono problemi ancora maggiori. La donna picchiata, infatti, abita quasi sicuramente in un ambiente insalubre e i suoi figli vivono in condizioni non certo ideali. Suo marito è un alcolista o un tossicodipendente, e spesso picchia con violenza i bambini. Naturalmente l’intervento del poliziotto comporta anche la segnalazione degli abusi ai servizi sociali per la tutela dei minori. Ma dato che nelle prime 72 ore le autorità non possono intervenire, la donna rimarrà in casa da sola con un uomo denunciato ed estremamente arrabbiato.

Quindi, le segnalazioni alla polizia dei casi di violenza nel ghetto infastidiscono i trafficanti di droga e fanno infuriare gli aggressori, che, dopo la partenza degli agenti, rimangono in casa con la vittima. Il tutto rischia poi di finire con la decisione di togliere i bambini alla famiglia. E la multa, ovviamente, la pagherà sempre la donna.

In Romania ogni tre giorni una donna muore per le violenze subite in famiglia

Quando sono stato sottosegretario al ministero del lavoro ho fatto di tutto per cambiare le cose. Ma mi sono imbattuto nella direttrice dell’agenzia nazionale per le opportunità, la quale mi ha subito spiegato di avere agganci e conoscenze ai più alti livelli politici, prima di aggiungere che suo suocero è uno dei più importanti avvocati della Romania. Durante la presidenza della signora, l’agenzia ha portato avanti un progetto poco trasparente con i servizi segreti romeni, e ha pagato somme notevoli ai direttori di alcune ong che si occupano di violenza domestica. La sua principale preoccupazione erano i viaggi all’estero e i progetti in grado di produrre profitti. Dopo le accuse di plagio, siamo riusciti – seppure con un po’ di difficoltà – a farle lasciare la carica.

La pubblica amministrazione si muove molto lentamente. E in Romania ogni tre giorni una donna muore per le violenze subite in famiglia.

Nella lotta contro questa piaga sociale si sono impegnati i ministeri del lavoro e della giustizia, ma le cose non cambiano perché al ministero dell’interno la situazione è bloccata. Dopo la mia minaccia di dimissioni, il ministro, Petre Tobă, in carica dal novembre 2015 al settembre 2016, ha accettato di incontrarmi. Intorno al tavolo eravamo in tutto sette persone. Il ministro ha esordito scherzando: ricordandoci il caso di una “pazza che inseguiva un uomo con un coltello nella città di Brăila”, ci ha detto che il problema non sono solo le donne vittime di abusi, ma anche gli uomini picchiati dalle donne. Il sottosegretario, una persona di buon senso, si è messo le mani nei capelli.

Una risposta tiepida dalla Commissione
I bambini di Ferentari con cui passo la maggior parte dei fine settimana considerano la violenza un fatto normale. Quasi tutti sono più interessati al calcio che a qualsiasi altra cosa. Grazie al mio nuovo lavoro nelle istituzioni europee, sono riuscito a convincere il segretario generale del Consiglio e il primo vicepresidente della Commissione a inviare una lettera all’Uefa per organizzare insieme una campagna di sensibilizzazione contro la violenza sulle donne. Ho ricevuto una risposta tiepida, così ho deciso di cominciare una raccolta di firme al parlamento europeo per fare pressioni sul presidente dell’Uefa.

Il mio sogno è che ogni partita sia preceduta da un video di quindici secondi con alcuni giocatori famosi che mandano ai tifosi un messaggio chiaro: stop alla violenza contro le donne. Vorrei che tutte le partite cominciassero con i giocatori e gli arbitri che indossano magliette, possibilmente rosa, con questo messaggio. E vorrei che i giocatori fossero accompagnati da ragazze che giocano a calcio, vestite allo stesso modo. Poi, per quindici secondi, gli altoparlanti e gli schermi dello stadio dovrebbero diffondere lo stesso messaggio. E magari sarebbe bello se le porte fossero dipinte di rosa e se sulla traversa fosse scritto: stop alla violenza sulle donne!

Stiamo ancora raccogliendo le firme. Se volete sostenerci, mandate un’email a: v.nicolae@diplomacy.edu.

(Traduzione di Mihaela Topala)

Questo articolo è uscito sul settimanale romeno Dilema Veche.

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