24 novembre 2017 12:44

Da piccolo vivevo a Pipirig, un quartiere brutto e sporco della cittadina di Caransebeş. Almeno così dice mia madre, perché di quegli anni ho solo frammenti di ricordi. Cantieri aperti, fango, pozzanghere e bidoni in cui gli operai scioglievano la pece bruciando dei vecchi pneumatici che facevano un fumo nero e asfissiante. Abitavamo al terzo piano e sul pianerottolo non c’era la luce. Dormivo su una poltrona letto e odiavo andare all’asilo. Ho una foto insieme ai miei compagni di classe e già da lontano sembravo il più scuretto di tutti. Non mi ricordo, però, perché non mi piaceva andare a scuola.

In compenso avevo scoperto che se mi lamentavo per il mal di pancia o per il dolore alla testa mia madre si impietosiva e mi faceva restare a casa.

Più di tutto mi piaceva andare dalle figlie della vicina che abitava al quarto piano, dove giocavo usando l’asse da stiro come scivolo. La madre delle mie compagne era di origine tedesca, faceva la sarta, cucinava molto bene e preparava dei dolci meravigliosi.

Tormenti e preoccupazioni
Si chiamava Gerlinde ed era sposata con il signor Toma. Anne e Sibi erano le loro due figlie. In quel periodo erano in vacanza, così una volta verso sera cominciai a lamentarmi perché mi facevano male la testa e la pancia. Mamma s’innervosì e mi chiese se per caso non mi facesse male anche il mignoletto del piede sinistro. Lì per lì non capii cosa voleva dire, ma doveva essere una cosa importante.

La mattina dopo continuai diligentemente con la mia messa in scena e, con la testa alla torta di noci che mi aspettava al quarto piano, dissi a mia madre che ero malato. Allora lei mi chiese cosa esattamente mi facesse male. “La testa, la pancia e il mignoletto del piede sinistro”, risposi con un po’ troppo entusiasmo.

Con un marito alcolista, tre figli e un miserevole stipendio da infermiera, mia madre era sommersa da tormenti e preoccupazioni. Le prime botte serie me le diede quando mi misi a gridare perché volevo una ciambella. Mamma non aveva soldi e il mio rotolarmi per terra tra grida e pianti non poteva certo risolvere nulla. Alla fine, però, ricevetti una ciambella dalla commessa del negozio e una bella sculacciata da mia madre. Arrivati a casa, con le lacrime agli occhi mi spiegò che non avevamo soldi e mi disse che, quando desideravo qualcosa, dovevo prima chiederle se aveva il denaro per comprarla. Quel suo pianto mi è rimasto impresso, e da allora non le ho mai più chiesto nulla.

Geta, mia zia, viveva dall’altra parte della città in una bella casa con un grande giardino. Era sposata con un tedesco e guadagnava parecchi soldi leggendo le carte. Karina, sua figlia, aveva solo un anno più di me ed ero più legato a lei che a mio fratello o a mia sorella, parecchio più grandi. Era stata battezzata dai cattolici e ogni tanto andavamo alla chiesa cattolica nel centro della città, il posto più bello che conoscevo. Anche da Geta si mangiava bene e d’inverno la loro casa era calda e accogliente. Geta era molto generosa e Karol, suo marito, m’insegnava un sacco di cose.

Sapevo dire le parolacce in quattro lingue e sentivo di potermela cavare in qualsiasi situazione

Buona parte delle vacanze le trascorrevo da loro e in quella casa un’estate portai un pulcino di anatra che avevo salvato dalle fauci di un ratto. Il pulcino crebbe in fretta e si trasformò in una bella anatra convinta che io fossi sua madre. Passavo parecchio tempo anche a giocare con i cani randagi. Al cane di Geta tolsi un dente che gli faceva male, cosa che mi fece diventare famoso tra i bambini del quartiere. La maggior parte di loro era il frutto di un miscuglio di etnie, così a Balta Sărată, il quartiere di mia zia, non mi sentivo mai diverso. Sapevo dire le parolacce in quattro lingue e sentivo di potermela cavare in qualsiasi situazione.

Offro io
L’unica vacanza dei primi sei anni della mia vita (il periodo trascorso a Caransebeş), la feci con mia madre a Moneasa, dove lei di mattina doveva frequentare un corso professionale. Ho un ricordo molto nitido della piscina in cui sguazzavo ogni pomeriggio.

Dividevamo una stanza con una signora che arrivava dalla cittadina di Luduș. Faceva l’insegnante di geografia e di mattina giocava con me. Sulla parete del corridoio della vecchia casa in cui alloggiavamo c’era una carta geografica della Romania, così, non so bene come, alla fine imparai i nomi di tutte le città del paese. Un giorno proposi all’insegnante un gioco: le dissi che avrei saputo indicarle sulla carta tutte le città della Romania in cambio di un leu per ogni nome indovinato. Dato che ero piccolino e carino la mia strana proposta fu accettata con un sorriso.

In un giorno guadagnai 14 lei. E chiesi a mia madre di andare in pasticceria, spiegandole che avevo i soldi necessari. Quando le raccontai da dove veniva quel denaro, ovviamente non mi credette, soprattutto perché sapeva che non ero ancora in grado di leggere. Fortunatamente la signora di Luduș, che si chiamava Sia, confermò le mie parole. E mia madre pianse di nuovo quando le dimostrai che conoscevo davvero i nomi di tutte le città romene. Alla fine andammo tutti e tre in pasticceria e, per la prima volta nella mia vita, fui io a offrire. Avevo quattro anni e sei mesi.

Questo articolo è uscito sul settimanale romeno Dilema Veche.

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