17 febbraio 2015 17:06

L’ultimo sguardo che getti su ciò che fu l’inizio è senza uguali. Gli attribuisci un coefficiente assoluto. Poi lo distogli con forza, quasi con rincrescimento. E te lo porti via come l’aria di un canto che non verrà più cantato. Te lo porti via come un segreto.

Ho pensato a queste parole di Elie Wiesel per tutto il tempo vedendo l’anteprima del film di Marco Turco L’Oriana (in onda su Rai Uno ieri e oggi). Ho pensato alla difficoltà di racchiudere in un unico sguardo una vita, settant’anni di storia, e farlo per una tv generalista, per un pubblico di prima serata, entro i canoni estetici e narrativi della fiction italiana.

Ho pensato alle parole di Wiesel perché il film di Turco fa esattamente l’opposto: attribuisce un coefficiente assoluto all’ultimo sguardo, a ciò che fu la fine della vita di Oriana Fallaci e, a partire da questo, ricostruisce la sua biografia come un lungo cammino teleologico verso l’unica direzione apparentemente possibile, quella della battaglia antimusulmana di La rabbia e l’orgoglio (29 settembre 2001).

Un articolo importante, certo, un articolo al quale Fallaci è arrivata anche attraverso il suo lungo percorso biografico-professionale; ma, di fatto, un punto di arrivo, tra i tanti possibili che la sua ricchissima vita avrebbe potuto incontrare, il ramo più vicino, più visibile, di un albero dalle radici profonde, radici sulle quali il film sorvola.

Radici che affondano nell’antifascismo fiorentino degli anni della guerra, nella lotta personale di Fallaci per affermarsi, donna, in un mondo maschile, senza neanche essere una Camilla Cederna, colta, borghese, comme il faut.

No, l’Oriana si presenta subito come una spavalda, arguta, infaticabile donna con una sola idea: fare come gli uomini. In parte vero, ma solo in parte, perché dal film Oriana Fallaci sembra maturare in un’Italia senza tempo, tempo che diventa materiale soltanto quando parte, va all’estero, e incontra la storia.

Ma partiamo da un episodio, quello che fin dall’inizio vuole mettere in luce il suo destino.

1961, Karachi. Oriana Fallaci alias Vittoria Puccini è appena arrivata nella città pachistana inseguendo un suo progetto, quello di raccontare la condizione delle donne nel mondo. Il direttore dell’Europeo è scettico, ma lei gli fa capire l’importanza del tema e parte.

Fallaci, da Il sesso inutile (1961):

Era estate quando il direttore del giornale (dal 1957 Giorgio Fattori) mi domandò se volevo fare un giro per il mondo fermandomi soprattutto in Oriente. Avrei dovuto fare, egli aggiunse, un reportage sulle donne. (…) Per quanto mi è possibile, evito sempre di scrivere sulle donne o sui problemi che riguardano le donne. Non so perché, la cosa mi mette a disagio, mi appare ridicola. Le donne non sono una fauna speciale e non capisco per quale ragione esse debbano costituire, specialmente sui giornali, un argomento a parte: come lo sport, la politica e il bollettino meteorologico.

Da questa prima incongruenza tra realtà e finzione si dipana una serie di aggiustamenti alla biografia di Oriana Fallaci tesi esclusivamente a rendere il personaggio più semplice e comprensibile secondo standard tipicamente italiani, soprattutto quando in gioco c’è il racconto della storia.

Sembra scorretto, infatti, chiedere allo spettatore medio il doppio salto mortale interpretativo richiesto da una trama che si muove su diversi piani temporali con una protagonista dalle mille sfaccettature e contraddizioni.

Lo spettatore italiano deve essere guidato per mano, a suon di spiegoni e didascalie, e non si capisce come riesca a gestire lo stress delle fiction “made in Usa” delle quali, incredibilmente, parrebbe cogliere pure le sottotrame più nascoste.

Si sceglie quella che lo storico Silvio Lanaro ha chiamato la storia all’indicativo. Fallaci, o meglio L’Oriana, di Stefano Rulli e Sandro Petraglia – autori della sceneggiatura – è infatti questo: un personaggio all’indicativo, senza alcuna contraddizione se non quella che evidentemente ogni donna deve avere; ovvero il desiderio di maternità che convive con quello di affermarsi professionalmente.

L’Oriana, dunque, viaggia nello spazio e nel tempo, come un’avventuriera intergalattica, un doctor Who in gonnella ma senza il Tardis (la macchina del tempo usata dal protagonista). Un doctor Who che insegue guerre e conflitti, senza alcuna ironia, quell’ironia invece sempre presente, fino quasi alla fine, in tanti scritti. Un doctor Who senza alcuna spinta dettata dall’intelligenza del mondo da cui viene: ovunque arriva, infatti, la protagonista non solo si stupisce, ma sembra essere del tutto sprovvista degli strumenti intellettuali per capire cosa ha di fronte, ed è un continuo, disarmante, noiosissimo cadere dalle nuvole.

Torniamo a Karachi: lì, la Oriana Fallaci del film insegue un corteo nuziale e riesce ad avere un’intervista con una sposa bambina in lacrime poiché ignora perfino il volto del suo futuro sposo. La scena è costruita esattamente come riportata nel reportage Il sesso inutile del 1961. Le citazioni lette nel film sono tra le più dure scritte dalla giovane Fallaci contro un’altra cultura, quella dell’islam. Non risparmia nessuno Oriana:

Questa fascia di terra dove non esistono zitelle, né matrimoni d’amore, e la matematica diventa opinione, comprende ben seicento milioni di persone la metà delle quali, a occhio e croce, son donne che vivono dietro la nebbia fitta di un velo e più che un velo è un lenzuolo il quale le copre dalla testa ai piedi come un sudario: per nasconderle agli sguardi di chiunque non sia il marito, un bimbo o uno schiavo senza vigore. Questo lenzuolo, che si chiami purdah o burka o pushi o kulle o djellabah, ha due buchi all’altezza degli occhi oppure un fitto graticcio alto due centimetri e largo sei: attraverso quei buchi o quel graticcio esse guardano il cielo e la gente come attraverso le sbarre di una prigione. Questa prigione si estende dall’Oceano Atlantico all’Oceano Indiano percorrendo il Marocco, l’Algeria, la Nigeria, la Libia, l’Egitto, la Siria, il Libano, l’Iraq, l’Iran, la Giordania, l’Arabia Saudita, l’Afganistan, il Pakistan, l’Indonesia: il regno sterminato dell’Islam. L’Islam è immenso e il Pakistan è una minuscola parte dell’Islam, certo tra le più progredite. Non si può quindi pretendere di capire la realtà delle donne mussulmane fermandosi solo a Karachi: in Arabia Saudita la realtà è più sconcertante. Lì esistono gli harem come quelli del re dello Yemen con le sue duecento concubine e le sue trentadue mogli. Lì le donne crepano come cani rognosi perché non è permesso farle visitare da un dottore. (…) C’è molto sole sui paesi dell’Islam: un sole bianco, violento, che accieca. Ma le donne mussulmane non lo vedono mai: i loro occhi sono abituati all’ombra come gli occhi delle talpe. Dal buio del ventre materno esse passano al buio della casa paterna, da questa al buio della casa coniugale, da questa al buio della tomba.

Ma l’Oriana del film non sembra quella che ha scritto queste parole, col volto giocondesco si stupisce di fronte alle risposte della sposa bambina, si arrabbia di fronte al promesso sposo. Come se per la prima volta in vita sua si trovasse di fronte alla diversità, come se questo stato di subalternità non riguardasse altre donne in altri luoghi. Come se non riguardasse pure sé stessa, come ammetterà alla fine del lungo viaggio intorno al mondo, in un dialogo con una ricca ed emancipata donna americana:

Laureen scuoteva la testa. D’un tratto, con voce triste, esclamò: ‘Secondo me, le donne sono tutte uguali nel mondo’. Ma guarda. Anche la donna più saggia che avessi mai conosciuto, la Rajkumari Amrit Kaur, mi aveva detto la medesima cosa su una collina di Delhi: ‘Mia cara, le donne sono tutte uguali nel mondo, a qualsiasi razza o clima o religione appartengano, poiché è la natura umana che è uguale’. Che avessero dunque ragione? Da un capo all’altro della terra le donne vivono in un modo sbagliato: o segregate come bestie in uno zoo, guardando il cielo e la gente da un lenzuolo che le avvolge come il sudario avvolge il cadavere, o scatenate come guerrieri ambiziosi, guadagnando medaglie nelle gare di tiro coi maschi. E io non sapevo se la pena più profonda l’avessi provata dinanzi alla piccola sposa di Karachi o dinanzi alla brutta soldatessa di Ankara. Io non sapevo se mi avesse spaventato di più la vecchia cinese coi piedi fasciati o questa americana impegnata a trattenere un italiano che sbadigliava di sonno. Tutte, risposi a Laureen, erano più o meno consapevolmente lanciate verso qualcosa che non può provocar che dolore, un dolore sempre più complicato.

Il dolore di cui parla, Oriana Fallaci lo conosce bene.

È lei, tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta, a occuparsi, insieme a Camilla Cederna, delle più profonde trasformazioni che investono le donne italiane.

Per questo, l’8 luglio del 1961, Ugo Zatterin la intervista a Controfagotto, programma di approfondimento del canale nazionale. È la prima volta che gli italiani la vedono in tv, e già è presentata come castigatrice di costumi. È una penna nota; non la ragazzina che deve perorare la sua causa per partire per un viaggio. Ha seguito per l’Europeo la storia di Soraya ripudiata dallo scià di Persia, ha scritto su di lei ritratti precisi e pungenti. È stata in tutto il mondo, è stata in Iran. In tv cerca di spiegare che ovunque le donne vivono in modo inutile. Ovunque dice Fallaci, anche in Italia dove ci sono donne che vivono esattamente come in Pakistan.

Ma gli anni volano per L’Oriana, e alla questione femminile in Italia, ai motivi che la spingono a muoversi, a viaggiare, non c’è tempo di dedicare se non qualche battuta. Una notte sulla spiaggia con gli astronauti americani nel 1964 e per la fiction è il 1967.

Fallaci è in Vietnam. Assiste a un attacco terroristico dei vietcong nel centro di Hanoi. I civili, i bambini, le donne muoiono sotto i suoi occhi. I vietcong sono senza pietà. Gli americani, poveri soldati dall’accento inequivocabilmente romanesco che si trovano a combattere e morire senza un perché.

L’Oriana è, ancora una volta, indignata. In carcere parla con tre vietnamiti che le spiegano che non è terrorismo ma guerra. Ma lei non se ne fa una ragione. Però scrive il suo pezzo ed è contenta, e poi è brava e bella e coraggiosa e quindi festeggia innamorandosi di un giornalista francese (nella realtà François Pelou, direttore dell’Agence France-Presse di Saigon) che inspiegabilmente, in una fiction dove parlano italiano anche le donne pachistane, ha un accento che sembra quello dell’ispettore Clouseau.

A Saigon visita un orfanotrofio, non si capisce spinta da quale bisogno, e infatti anche le suore, come noi, credono che voglia adottare un bambino, gliene mettono dunque in braccio un paio. Ma lei scappa e ha un mancamento. Quindi lo spettatore capisce che l’Oriana ha qualche problema irrisolto con la maternità. Ma non c’è tempo per approfondire questa parte, perché la stanno per portare in elicottero su un campo di battaglia, dove parte il pezzone Volunteers, perché una scena in Vietnam senza questa colonna sonora sarebbe lesa maestà nei confronti di un immaginario che si è costruito in decenni di film sull’argomento.

Il Vietnam è, in realtà, per Oriana Fallaci un momento fondamentale per maturare una coscienza politica autonoma e originale rispetto al panorama italiano dei tardi anni sessanta; in questo senso la relazione con Pelou è fondamentale.

Ma nella fiction lei è sempre uguale, sempre la stessa, immobile; geniale in questo senso il paragone, fatto da Vittoria Puccini durante la conferenza stampa, con Forrest Gump, l’eroe per caso americano; che infatti con l’Oriana di Rulli e Petraglia condivide l’impermeabilità totale rispetto alle tempeste che si trova ad attraversare. Sempre sorpresa, sempre attonita, sempre con lo sguardo sperduto.

Esplode il sessantotto, in tutto il mondo, Oriana Fallaci va in Messico, dove viene gravemente ferita (chissà perché è un prete a salvarle la vita quando nella realtà fu un infermiere).

Su questo passaggio della sua vita ha scritto Cristina De Stefano:

Non si limita a raccontare le lotte della regione. Spesso interviene in prima persona. Per ottenere la grazia per il guerrigliero boliviano Chato Peredo va a parlare con il presidente Juan José Torres. Per incontrare di nascosto Carlos Marighella, vecchio comunista brasiliano braccato dalla dittatura, gioca a guardie e ladri con i servizi segreti che la pedinano a São Paulo. (…) Spesso quando realizza delle interviste ai prigionieri politici, accetta di descrivere poi le celle ai loro compagni, perché possano organizzare la fuga. Non ha mai inteso il suo lavoro in altro modo. Per lei fare la giornalista significa essere dentro la storia: ‘Quale altro mestiere ti permette di scrivere la storia nell’atto del suo divenire’”.

Poi via, cambio scena, ed è il 1973. Ancora una volta l’Oriana parte (per non svelare troppo sorvolerò su alcuni passaggi). Va in Grecia dove deve intervistare Vinicio Marchionni alias il Freddo alias Alekos Panagoulis, che la invita subito a dormire da lui.

I due si fidanzano, ma lui ha gli incubi così lei lo porta in Italia dove degli indefinibili compagni spaventati da una indefinibile situazione politica sono troppo spaventati per aiutarlo e non capiscono. Da cui lo spettatore conclude che la lotta politica in Italia equivale al casino, del resto con il conforto di un ventennio di fiction scritte più o meno allo stesso modo che hanno raccontato esattamente questo (qui una riflessione sul tema).

Quando Panagoulis viene in Italia, il regista Silvano Agosti gira un documentario su di lui, dal quale, peraltro, gli sceneggiatori hanno tratto le parole sulla tortura riportate anche nel film e poi in Un uomo della Fallaci. C’è grande interesse e attenzione verso la resistenza greca e l’Italia sarà meta scelta da centinaia di esuli e studenti greci per tutto il decennio proprio per la contiguità dei movimenti politici.

Però l’Oriana ha altri problemi a questo punto, in giro per il mondo, pensa di essere incinta e comincia a scrivere Lettera a un bambino mai nato, ripensando ai bambini vietnamiti. Ma – scoop della fiction! - trovando Panagoulis che bacia un’altra donna si sente male e abortisce.

Ora davvero viene da chiedersi perché. Perché stravolgere un passaggio tanto importante della vita di Oriana Fallaci: sappiamo che la scrittrice ebbe due gravidanze, seguite da due aborti spontanei, una nel 1958 e una nel 1965; sappiamo che scrisse la prima versione di Lettera a un bambino mai nato nel 1966, di getto, e lo lasciò per anni nel cassetto. Sappiamo, infine, che quando nel 1974 l’Europeo le chiede di preparare un inserto sull’aborto lei ci pensa a lungo e decide di usare il suo vecchio manoscritto, perché il suo personale, in questo caso, sia davvero politico.

Ma la fiction liquida in un passaggio superficiale e patetico uno dei momenti nei quali la scrittura della Fallaci ha avuto maggiore impatto sul dibattito pubblico in Italia, così come nel mondo occidentale dove diventa un best-seller.

Dopo l’ottobre 1974, il crollo del regime dei colonnelli in Grecia, l’Oriana torna ad Atene dove si tiene il processo ai responsabili delle torture inflitte durante il regime a Panagoulis, forse il momento più emozionate del film; ma un bianco e nero del tutto fuori luogo e un magistrato che parla in siciliano fanno da anticlimax potente e ci si ritrova inermi, di fronte ai misteri del doppiaggio e della storia, quando Panagoulis muore in un misterioso incidente.

Poi, via, è il 1979, e Fallaci è in Iran per intervistare l’ayatollah Khomeini da poco salito al potere. La sua vita sembra non aver avuto nessuna cesura, ancora una volta lei è uguale a se stessa, ma sappiamo che non è così. Sappiamo, per esempio, che

nel 1977, dopo la morte di Panagoulis e della madre, diede le dimissioni dall’Europeo e abbandonò il giornalismo attivo, tornando a scrivere per riviste o quotidiani solo in rare occasioni, quando un personaggio o un avvenimento la colpivano in modo particolare. Per esempio, nel 1979 si recò in Iran a intervistare Ruhollah Khomeini, il leader religioso che aveva rovesciato Mohammad Reza Pahlavi, scià di Persia, e instaurato la Repubblica islamica; quindi fu in Libia per incontrare e intervistare Muammar Gheddafi, all’epoca giovane dittatore a capo del Paese. Nel 1981 intevistò Lech Wałęsa, un oscuro operaio di Danzica che iniziava a sfidare il potere sovietico con il suo sindacato Solidarność. Si dedicò alla letteratura. Ogni nuovo libro rappresentò un lavoro immenso, che richiedeva anni di dedizione, di studio e di revisione.

La storia procede velocemente verso l’epilogo, la malattia, l’11 settembre, la morte annunciata anche se non rappresentata. Ma il suo più grande rimpianto torna a essere quel figlio mai avuto, che sembra rivivere ora nella gravidanza della ragazza che fin dall’inizio del film l’ha indotta in qualche modo a rievocare gli episodi narrati, personaggio funzionale a una sceneggiatura che altrimenti non avrebbe saputo trovare snodi narrativi in grado di tenere insieme questa sequenza di “cartoline”, come ha scritto Annalena Benini sul Foglio.

Non è semplice mettere in scena la storia; eppure la biografia è, da sempre, il luogo più visitato da scrittori e registi e molte sono le ricostruzioni romanzate che hanno illuminato, attraverso il verosimile, passaggi che la storiografia non ha avuto modo o interesse ad approfondire.

Lo sguardo soggettivo sugli eventi, lungi dal relativizzarli, spesso è stato funzionale a una rilettura degli stessi da parte della comunità scientifica che ha potuto trovare – come ha scritto lo storico francese Pierre Nora – il modo di far parlare, attraverso la finzione, “i silenzi della storia”.

Ma forse quello che manca a L’Oriana è proprio questo, il coraggio di inventare il verosimile, di forzare la mano, di spingere più in là della lettura filologica dei testi il rapporto di Oriana Fallaci con il racconto della sua vita, scegliendo un episodio, e non tutti. La bulimia enciclopedica invece alla fine trasforma tutto in un curriculum non graduato senza capo né coda, nel quale lo spettatore finisce per perdersi.

E vengono in mente le parole di un grande critico televisivo, Achille Campanile, che nel 1959, di fronte alla riduzione televisiva di Ottocento, di Salvator Gotta, scriveva:

In generale anche io resto perplesso di fronte a certe riduzioni di fatti e detti storici nelle quali si ha l’impressione che i personaggi scimmiottino i futuri testi, prima ancora che questi vengano scritti. Si direbbe che, nei loro discorsi spiccioli, i personaggi conoscano in anticipo e per chissà quali facoltà divinatorie quelli che saranno un giorno i giudizi sulla storia e li snocciolino a ogni piè sospinto.

Insomma peccato, perché avrebbe potuto essere una fiction bella e appassionante e invece è uscita fuori una storia piatta e spesso noiosamente didascalica, troppo preoccupata di fornire spiegazioni. Peccato anche perché la regia di Marco Turco è riuscita a fare qualcosa di assolutamente inedito nel panorama delle fiction italiane: affiancare i repertori originali, il footage, al girato, senza mai sfigurare, senza mai dare l’idea di una giustapposizione fasulla e rabberciata. Peccato perché la protagonista, Vittoria Puccini, avrebbe potuto ascoltare Oriana Fallaci in Comizi d’amore e ammorbidire un po’ quel toscano da film di Pieraccioni con il quale invece di caratterizzare il personaggio lo rende, fin dall’inizio, fastidiosamente grottesco. Peccato, perché a tanti sarebbe servito capire qualcosa in più su una delle donne più in gamba, ma anche più difficili, cocciute, egocentriche, insopportabili, della storia della cultura italiana del dopoguerra, e invece quello che vedranno sarà, purtroppo, un riassuntino, con bellissime camicette tuttavia.

P.S. Chi vuole leggere gli articoli originali di Oriana Fallaci e la sua complicatissima parabola biografica può andare sul suo archivio online curatissimo. In un articolo del 1968 dal Vietnam scriveva, per esempio:

Io sono qui per capire, per sapere cosa pensa un uomo che ammazza un altro uomo che a sua volta lo ammazza: senza conoscerlo. Sono qui per provare qualcosa a cui credo: che la guerra è inutile e sciocca, la più bestiale prova di idiozia della razza terrestre. Sono qui per spiegare quanto è ipocrita il mondo quando si esalta su un siero che curerà il cancro, o sull’operazione chirurgica che sostituisce un cuore con un altro cuore: mentre migliaia di creature giovani e sane, senza cancro, col cuore a posto, vanno a morire come animali, vacche al macello.

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