Ho conosciuto Abdul Qader nell’aprile del 2003, qualche giorno dopo la caduta di Saddam Hussein. Eravamo molto ottimisti. Durante un talk show su Dubi tv spiegavamo che le nostre speranze si basavano su quella classe media istruita che nella storia moderna dell’Iraq è stata alla base di tutti i cambiamenti.

La settimana scorsa ci siamo incontrati di nuovo a una fiera del libro. Entrambi ci siano sorpresi di quanto si fossero ingrigiti rapidamente i nostri capelli. Io gli ho chiesto se era ancora così ottimista.

“Sì, sono sempre ottimista. Stiamo passando un periodo difficile, ma fa parte della storia. Nessuna nazione costruisce il suo futuro senza passare per tempi tragici come i nostri. È questione di tempo, caro Zuhair. Ti ricordi? Fino a a dieci anni fa sarebbe stato impossibile parlare della nostra situazione a voce così alta. Dovevamo sussurrare e controllare che nessun estraneo ci ascoltasse”.

Gli ho chiesto cosa pensasse delle ultime crisi. “Andiamo verso un’altra dittatura o verso la guerra civile?”.

“Nessuna dei due”, ha detto con un sorriso. “Stiamo andando verso il fallimento”.

“Peggio di così?”, gli ho chiesto. “Molto peggio. È la fine dell’islam politico. Stiamo dando agli altri stati arabi un esempio di fallimento dell’islam politico. Ormai anche gli uomini di religione cominciano a dire che è meglio uno stato laico”.

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