16 luglio 2015 16:45

A Nizza non ci sono solo i poliziotti a pattugliare la stazione ferroviaria. Tre volte al giorno fanno il loro giro anche gli attivisti. Lo scopo è di rintracciare prima delle forze dell’ordine i migranti sudanesi, eritrei, afgani che sono riusciti a superare la frontiera francoitaliana, dopo aver camminato per ore.

“Per i migranti Nizza è il posto peggiore”, spiega Elysabeth Marque, pensionata e volontaria dell’ong Cimade. “Il nostro primo consiglio è quello di allontanarsi dalla stazione”. Le persone rintracciate vengono mandate in diverse associazioni di Nizza dove possono avviare le pratiche per la richiesta d’asilo, fare una doccia, mangiare o semplicemente riposarsi qualche ora prima di riprendere il viaggio.

Gli attivisti possono contare su un piccolo gruppo di eritrei, sudanesi e ciadiani residenti a Nizza dal 2009 che fanno da interpreti e rassicurano i connazionali. “Sono molto sospettosi quando ci vedono arrivare”, spiega Hubert Jourdan, 64 anni, l’unico dipendente dell’associazione Habitat et citoyenneté.

Gli arrivi sono cominciati a maggio del 2015. La Fédération des musulmans du sud, un’associazione fondata nell’estate del 2014, ogni sera distribuisce pasti sulle banchine della stazione di Nizza. “Siamo passati da un massimo di 80 pasti a sera in inverno a più di 300 pasti in primavera, con l’arrivo dei migranti dall’Africa subsahariana”, spiega Feiza, 29 anni, una delle volontarie. “Tutti i giorni alla stazione c’erano una sessantina di migranti, ma la polizia li lasciava nacora salire sui treni per Parigi”, racconta Hubert Jourdan.

“Insieme ad altre associazioni abbiamo organizzato delle attività di assistenza notturna e per la colazione”. Gli attivisti hanno distribuito ai migranti una lettera prestampata indirizzata ai controllori delle ferrovie francesi in cui si fa appello alla comprensione nei confronti di famiglie “che non possiedono niente”.

La Francia ha una pessima reputazione sull’accoglienza dei richiedenti asilo: verranno isolati, non avranno alloggio, non potranno lavorare

Ma il 9 giugno la situazione è cambiata, dopo lo sgombero del capannone della Pajol a Parigi, che ha avuto un’ampia risonanza anche sui mezzi d’informazione. La polizia ha cominciato a interrogare in modo sistematico i migranti fermati alla stazione di Nizza e a rispedirli in Italia. “Quel giorno gli sbirri ci hanno detto: ‘Ci hanno ordinato di non far passare nessuno, a Parigi e a Calais c’è un casino, non ne vogliono più’”, racconta Teresa Maffei, 64 anni, attivista dell’Association pour la democratie à Nice (Adn).

La maggioranza dei migranti provenienti dall’Italia non vuole restare in Francia. Dopo l’ondata di arrivi nel maggio del 2015, solo cinque tra eritrei e sudanesi hanno fatto domanda d’asilo alla prefettura di Nizza.

“Loro però vogliono raggiungere la Germania, il Regno Unito, la Svezia, la Danimarca e i Paesi Bassi”, dichiara Yann Lapeyre, giurista del Forum per i rifugiati. “La Francia ha una pessima reputazione sull’accoglienza dei richiedenti asilo. E loro non raccontano bugie: verranno isolati, non avranno alloggio, non potranno lavorare, ma potranno ricevere un sussidio”.

I minori stranieri non accompagnati, che non potrebbero essere rispediti in Italia e dovrebbero essere ospitati nei centri per l’assistenza sociale all’infanzia (Ase), preferiscono stare con gli altri. Anche a costo di mentire sulla loro età. “I minori sono molti, ma quando li interroghiamo dicono tutti di avere vent’anni, perché vogliono proseguire con il loro gruppo!”, racconta Élisabeth Grimaldelli.

Sugli scogli di Ventimiglia incontriamo Yussuf, un sudanese di 16 anni. L’Ase lo aveva sistemato in un albergo di Nizza – in mancanza di un posto nel centro di accoglienza – poi era finito nel convitto di un istituto professionale di Mentone, dove non aveva alcuna intenzione di tornare. “Al convitto ci lasciavano per strada alle 9 del mattino e ci dicevano di tornare la sera, ma cosa dovrei fare tutto il giorno a Mentone in pieno Ramadan?”, chiede Yussuf in inglese.

Una manifestazione di migranti a Ventimiglia, il 12 luglio 2015. (Michele Lapini)

La casa di Hubert, che si trova un po’ distante dal centro di Nizza, è sempre aperta. “Da lui ci sono afgani, albanesi, kosovari, se c’è un musulmano non ci sono problemi, per qualche giorno non si mangia carne di maiale”, racconta Sonda, 22 anni, un giovane rifugiato della Sierra Leone e che è stato ospitato da Jourdan per nove mesi nel 2011 a cui l’attivista ha dato ospitalità per nove mesi dopo il suo arrivo a Nizza nel 201. Oggi Sonda vive a Tolone, ma viene a dargli una mano alla stazione, fornendo indicazioni ai migranti confusi.

“Mi sono sposato due volte, ma poi ho smesso, perciò a casa mia c’è posto”, dice Hubert Jourdan ridendo. Jourdan prova a convincere i minori a non precipitarsi “a Parigi e a Calais”. Hubert Jourdan rolla una sigaretta e ride di nuovo. “Noi siamo lì con la nostra empatia, ma loro hanno la pellaccia dura, nonostante le situazioni orribili che hanno vissuto! La resilienza non è una parola vuota. Alcuni hanno visto altre persone morire soffocate sulle imbarcazioni, sono stati picchiati nelle galere libiche. Ce n’è persino uno che ha rischiato di morire quando lo Stato islamico ha ucciso dei copti egiziani in Libia”.

L’ex operatore umanitario si è occupato di educazione nei campi profughi “in Afghanistan, Pakistan, Niger, Haiti”. Questo mercoledì mattina tiene aperta la drogheria solidale nello scantinato della sede di Habitat et citoyenneté, la principale fonte di guadagno per l’associazione. Al piano di sopra un rigattiere offre mobili a “quelli che si stabiliscono qui”. Qui si risolvono i casi difficili, quelli per i quali le altre strutture non hanno trovato soluzioni.

La maggior parte degli attivisti sa fin dove spingere la propria solidarietà. Alcuni in caso di bisogno non esitano ad anticipare i soldi per un biglietto ferroviario, altri rifiutano donazioni in denaro o di far salire i migranti sulle loro auto. Rifiutano anche di fare da tramite per ricevere soldi con Wester Union. “Non si sa mai da dove vengono i soldi, né a chi sono destinati davvero”, spiega Sami Boubakri, 34 anni, presidente dell’associazione nizzarda Fraternité du savoir. “Vorremmo poterli aiutare di più, ma dopo rischiamo l’accusa di essere trafficanti”.

Nel 2011 gli stessi attivisti si erano già mobilitati per aiutare i migranti tunisini, mentre nell’estate del 2014 era stata la volta dei profughi siriani. “I siriani erano arrivati in massa tra luglio e agosto e alla fine era andata bene”, fa notare Feiza. “Perché creare un problema laddove non ce n’erano? Non sarebbe meglio farli passare, visto che il nostro è un paese di transito?”.

Hanno incontrato solo poliziotti, trafficanti che volevano arricchirsi alle loro spalle o puro assistenzialismo

A Ventimiglia i gesti di solidarietà nei confronti della cinquantina di migranti accampati sugli scogli provengono soprattutto dagli italiani. Sugli scogli, vicino alla frontiera, una quarantina di attivisti è da tre settimane al fianco dei migranti. Sono giovani, molti rivendicano l’appartenenza alla rete europea No Border, ma incrociamo anche qualche vecchio italiano. “Dopo il tentativo della polizia di respingere i migranti sul versante italiano, abbiamo deciso di organizzare una presenza permanente”, spiega Emmanuela, 29 anni, un’educatrice di Ventimiglia. Sono state installate docce e bagni, accanto a tende e teloni per proteggere i migranti dal caldo.

Alcuni pannelli solari permettono di ricaricare i telefonini. “Queste persone sono arrivate in una realtà europea piuttosto ostile”, afferma Lorenzo, un percussionista di 24 anni che vive a Imperia. “Hanno incontrato solo poliziotti, trafficanti che volevano arricchirsi alle loro spalle o puro assistenzialismo. L’Europa li ha privati della loro dignità di esseri umani. La nostra linea è invece quella di rispettare la loro volontà e di non fare nulla che possa aggravare la loro situazione”.

Martedì 7 luglio, durante una riunione tra le varie associazioni nella sede di Habitat et citoyenneté, gli attivisti nizzardi hanno stilato una lista di cose necessarie: telefonini con caricatori, biancheria intima, scarpe, chiavette 3G illimitate e cartine della Francia e dell’Europa.

A mezzogiorno e di sera la mensa sociale Eat the rich di Bologna cucina la pasta oltre a pasti freddi distribuiti dai volontari della Croce rossa italiana e francese. “A Bologna lavoriamo con piccoli agricoltori bio, qui prendiamo tutto quello che ci danno, anche se viene da un supermercato”, spiega uno dei volontari.

La mobilitazione dei musulmani

Spossati dal caldo e dal digiuno del Ramadan, molti migranti riposano all’ombra, stesi sui materassi. L’atmosfera si rianima in serata, con l’interruzione del digiuno, quando arrivano i visitatori francesi con i portabagagli delle automobili pieni di cibo. Teresa Maffei accompagna spesso delle persone di Nizza che non osano venire da sole. I doni non mancano. “Ristoranti piuttosto eleganti ci hanno dato frutta e legumi per un valore di 400 euro, un agricoltore bio dei paraggi mi ha regalato 120 chili di zucchine e mi chiama in continuazione per darmi cibo, ma il mondo degli attivisti sta morendo, guardate la nostra età”, afferma.

Migranti in una stanza del centro di accoglienza della Croce rossa vicino alla stazione ferroviaria di Ventimiglia, il 12 luglio 2015. (Michele Lapini)

Un gruppetto proveniente dalla vicina val Roja arriva tutte le sere, a volte con un organetto, “per cantare un po’”. Claudine, 65 anni, Suzel, 54 anni e Dédé, 66 anni, si conoscevano dai tempi del centro rurale.

Claudine, contadina in pensione di Briga Marittima, ha recuperato la merce invenduta al mercato della mattina e qualche cetriolo dall’orto del vicino. “Il parroco di Tenda ha fatto circolare il mio numero di telefono tra i parrocchiani della valle per le collette”, spiega Suzel, dipendente dell’ufficio del turismo di Saorges. “Ho due o tre anziane signore che mi hanno dato 50 euro, ma questa mobilitazione non ha niente a che vedere con quella del 2011 per i tunisini. Non siamo nemmeno a un quarto, i tempi cambiano. C’è stata una forte virata a destra”.

Per tre giorni sui social network è circolata la diceria che le acque di Mentone fossero contaminate dalla scabbia e dal tifo a causa dei migranti

È sbalordita dalle reazioni nel suo ambiente, anche tra gli amici più stretti. “A volte, quando una cara amica mi dice senza farsi alcuno scrupolo ‘Non li vogliamo qui, bisogna rispedirli in mare’, mi viene da pensare che deve aver sbagliato numero”, sospira Suzel.

Racconta che il suo ex marito, che veniva tutte le sere, “per poco non si è fatto picchiare da alcuni passanti che lo insultavano”. Per tre giorni, nonostante le smentite della prefettura delle Alpi-Marittime e dell’ospedale di Mentone pubblicate dal quotidiano Nice Matin, sui social network è circolata la diceria che le acque di Mentone fossero contaminate dalla scabbia e dal tifo a causa dei migranti. “Alcuni sostenevano che bisognava proibire alle associazioni di aiutare i migranti”, aggiunge la sua amica Claudine. Un funzionario locale ci ha perfino raccontato che alcuni comuni della costa hanno fortemente sconsigliato alle associazioni locali di venire a Ventimiglia. Così ha cominciato a portare di nascosto i vestiti recuperati da un’associazione delle vicinanze.

In questo mese di Ramadan la mobilitazione più consistente proveniente dalla Francia è sicuramente quella dei musulmani di Nizza e Mentone. Ogni sera, per l’interruzione del digiuno, arrivano da Nizza almeno tre diverse associazioni con pentoloni di chorba e centinaia di brick. Nel quartiere L’Ariane di Nizza, Lahouari, conducente di autobus di 52 anni, intorno all’una fa il giro dei commercianti, poi si mette in cucina. Davanti alla piccola sede dell’associazione Au cœur de l’espoir, creata due mesi fa, si accumulano cassette di carote, cavoli, pomodori e sedani giunte in dono.

“Abbiamo già fatto qualche colletta di cibo e di medicinali per la Siria e distribuiamo dei pacchi per le famiglie senza documenti che vivono nel quartiere, come i ceceni”, spiega il presidente Hamzi Guizani, un meccanico di 45 anni. “Ci è giunta voce dei migranti di Ventimiglia, ho saputo che alcuni non mangiavano da giorni. La prima sera abbiamo improvvisato un servizio di assistenza notturna con un po’ di latte e pane, poi ci siamo organizzati”.

Foued, un imbianchino di 25 anni, e Hassen, autista di camion di 36 anni, pelano patate. “Siamo rimasti sconvolti a vedere degli esseri umani abbandonati… La politica…”, dice Hassan. “L’Europa ha sfruttato largamente i loro paesi, il loro petrolio, la loro manodopera, e alla fine gli ha voltato le spalle”, aggiunge Foued. Verso le sette di sera, le pentole, il pane e le cassette d’acqua vengono caricate su due automobili, una diretta verso la stazione di Ventimiglia, l’altra sugli scogli.

Poseranno le loro pentole accanto a quelle di un’altra associazione di Nizza, Fraternité du savoir, anch’essa qui da un mese. Il suo presidente, Sami Boubakri, 34 anni, si presenta come l’imam della moschea del quartiere Bon-Voyage di Nizza e dà il segnale per l’interruzione del digiuno alle nove e venti di sera, poi guida la preghiera per i migranti e i volontari. Daniela, un’italiana di 36 anni che vive a Roquebrune, viene tutte le sere ad aiutare l’associazione, a volte con i due figli di 4 e 7 anni. Questa sera ha recuperato gli avanzi di una panetteria. “Non abbiamo la stessa religione, ma gli stessi princìpi”, dice.

“Gli offriamo anche un aiuto morale, perché parliamo arabo”, spiega Feiza, 29 anni, volontaria dell’associazione Fédération des musulmans du sud. “Alcuni hanno lasciato il loro paese da un anno e hanno bisogno di parlare”. Come spiegare questa grande mobilitazione dei musulmani di Nizza? “Con il clima di islamofobia, con tutto quello che ci piove addosso, cerchiamo di invertire la rotta, di mostrare che siamo figli della repubblica”, suggerisce la giovane estetista, madre di due figli. “E i nostri genitori ci hanno insegnato a condividere. È un tratto culturale e religioso, soprattutto nel periodo del Ramadan, quando per i bisognosi ci sono sempre dei pasti offerti nelle moschee di Nizza”.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo reportage è stato pubblicato all’interno del progetto #OpenEurope, un osservatorio sulle migrazioni a cui Internazionale aderisce insieme ad altri sei giornali. Gli altri partner del progetto sono Mediapart (Francia), Infolibre (Spagna), Correct!v (Germania), Le Courrier des Balkans (Balcani), Hulala (Ungheria), Efimerida ton syntakton (Grecia), Inkyfada (Tunisia).

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