Tutto è cominciato nell’autunno del 2014 a Hjørring, un comune nello Jutland, nella Danimarca del nord. Mads Nygård lavorava in un centro di accoglienza per richiedenti asilo: cinquecento persone di 25 nazionalità diverse avevano trovato rifugio nei bungalow in legno di un ex campeggio, rimesso in funzione per l’occasione.

L’afflusso di profughi in fuga dalla Siria o dal Corno d’Africa cominciava a essere visibile e a creare tensioni in questo paese di 5,6 milioni di abitanti che ha accolto 14.680 richiedenti asilo nel 2014, il doppio rispetto al 2013, cifra che fa della Danimarca uno degli stati membri dell’Unione europea più ospitali in rapporto alla popolazione.

Le domande per ottenere protezione nel paese ottengono risposte piuttosto rapide (tra i tre e i quattro mesi per siriani ed eritrei). I richiedenti sono inoltre indirizzati verso un centro di accoglienza, e per questo, a differenza di quanto accade in altri paesi, sono rare le persone costrette a vivere per strada.

L’iniziativa si basa sull’idea che i rifugiati non vogliono la carità

Nonostante il paesaggio bucolico e il quadro legale favorevole, le condizioni di vita erano difficili in quel centro. Faceva freddo, si avvicinava l’inverno, le abitazioni non erano particolarmente salubri. In attesa che la loro richiesta di asilo fosse esaminata, i residenti si annoiavano. “Le uniche attività autorizzate erano i corsi di lingua, cioè il danese, e la pulizia degli edifici”, ricorda Mads Nygård. “I contatti con la popolazione locale erano inesistenti”.

Discutendo con i suoi compagni, Nygård si è accorto che gli abitanti della città non osavano bussare alla porta del centro. Si è convinto dunque di una cosa: i richiedenti asilo non avevano percorso migliaia di chilometri per vivere chiusi tra di loro e restare isolati, soprattutto se dovevano poi stabilirsi in Danimarca. Così l’apertura del centro al mondo esterno è diventata ai suoi occhi prioritaria. “Mi sono messo in testa di costruire ponti non solo per consentire ai rifugiati di uscire, ma anche per permettere a noi, i loro vicini, di non avere più paura di incontrarli”, racconta.

Solidarietà online

È nata così l’associazione Venligboerne (”Abitanti amichevoli”), basata sull’idea che i rifugiati, siano essi originari della Siria, dell’Eritrea o di altri paesi, non vogliono la carità. Non hanno lasciato la loro famiglia né hanno rischiato le loro vite per ricevere i sussidi sociali. “Tutte queste persone hanno molte risorse. Alcune sono molto istruite, altre hanno delle competenze straordinarie. Tutte sono interessanti a modo loro. Non sono qui perché gli venga dato qualcosa, ma per scambiare qualcosa. Come tutti quanti, vogliono essere riconosciute e apprezzate per quello che sono”, commenta.

Dopo aver preso contatti con alcune scuole e asili del quartiere, Mads Nygård si è spinto fino all’università. Il progetto è decollato: gli studenti stranieri sono stati particolarmente ricettivi. Facebook si è imposto come lo strumento principale – quasi esclusivo – di comunicazione dell’associazione Venligboerne, perché il suo uso si è affermato anche tra i rifugiati, non solo tra gli abitanti del posto. I centri di accoglienza sono equipaggiati con il wifi e i richiedenti asilo, come la maggior parte dei migranti di tutto il mondo, sono connessi, soprattutto per necessità, per restare in contatto con i loro familiari.

Tutti possono accedere a Facebook, secondo l’ideatore dell’iniziativa: “Non c’è niente di più facile che aprire un account. Alcuni profughi, per esempio gli iraniani, diffidano dei social network perché si preoccupano dei dati che potrebbero essere recuperati dal loro profilo pubblico. Noi li incoraggiamo a usare identità false”.

Nel giro di pochi mesi sono nati gruppi di volontari in tutto il paese. Ce ne sono ormai 53 che raccolgono 22mila persone, di cui 10.400 a Copenaghen. Ciascun gruppo rappresenta un luogo in cui condividere esperienze. Nel gruppo nato attorno al centro di Hjørring, Yechiela, Zeinab, Yeliz e Tareq, tutti richiedenti asilo, scambiano ricordi, raccontano la loro situazione, offrono i loro servizi, mentre Jette, Annette, Bente e Liv rispondono alle loro osservazioni, cercano soluzioni, aprono le loro rubriche degli indirizzi.

La tradizione dell’accoglienza non è molto sviluppata qui. Non è facile farsi accettare quando si è stranieri

Arrivata in Europa sei mesi fa, dopo essere fuggita dalla Thailandia per motivi politici, Yechiela lamenta per esempio l’isolamento dei richiedenti asilo e per far sentire la loro voce propone di aprire una radio all’interno dei centri di accoglienza e di creare una linea telefonica per consigli di carattere legale. Le rispondono diverse persone, tra cui Tareq, rifugiato siriano, e Liv, danese, offrendole dei consigli per sviluppare meglio il suo progetto. Samrawit, originaria di Asmara in Eritrea, è felice degli incontri che può fare grazie agli “abitanti amichevoli” e sostiene che proprio grazie ai suoi nuovi contatti la vita che conduce è meno “stressante e noiosa”.

Alcuni rifugiati cucinano nella sede di Abitanti amichevoli, a Copenaghen. (Janne Hieck)

Gli scambi non restano solo virtuali. I pretesti per incontrarsi di persona sono numerosi: andare a uno spettacolo, prendere un gelato insieme in un parco di divertimenti, mettere a disposizione la macchina per un tragitto, badare a turno ai bambini, cucinare gli uni per gli altri. Vengono proposte attività artistiche di ogni genere.

Solidarietà nel quartiere alla moda

Volontaria della prima ora, Apolline Barra si descrive come una “operaia” dell’associazione. Questa francese, emigrata in Danimarca due anni fa, ha contribuito a creare una biblioteca per il centro di accoglienza di Hjørring. “Abbiamo lanciato un appello su Facebook e sono arrivati libri da tutto il mondo, per esempio dal Marocco, dal Canada, dalla Russia, dalla Norvegia”, spiega. “Venligboerne è un tentativo di federare gli atti di buona volontà”, aggiunge. “La creazione di questo gruppo è una cosa buona, perché la tradizione dell’accoglienza non è molto sviluppata in Danimarca. Questo paese non ha una lunga storia di immigrazione. Non è facile farsi accettare quando si è stranieri”.

L’ultima iniziativa in ordine di tempo è l’apertura a Copenaghen di un bar Verligboerne in un quartiere alla moda della città. Situato in un container, è nato con facilità grazie a una raccolta fondi lampo (36 ore) di 15mila corone (duemila euro). L’esperienza sarà replicata in altre città danesi, assicura Mads Nygård, che attualmente si sta dando da fare per il Budapest project, un viaggio collettivo previsto per il prossimo autunno nella capitale ungherese, luogo di transito di numerosi rifugiati in viaggio verso il nord dell’Europa.

Su Facebook, Fawaz, rifugiato siriano che ha studiato ad Aleppo, propone idee per dei volantini da diffondere per “rivolgersi alla società civile locale” presentando in breve la “cultura del Medio Oriente”. Ne approfitta per raccontare come i preparativi per una festa nel centro di Hjørring gli abbiano dato l’occasione di conoscere numerose persone, come capita a “tutte le persone normali”. Riferendosi all’influenza dell’estrema destra in Ungheria, ricorda di aver partecipato nella sua città a una manifestazione contro il gruppo Siad (Stop islamization of Denmark).

Relazioni sotto attacco

Le relazioni con la società danese non sono sempre idilliache. Scritte con croci uncinate sono state trovate di recente nei pressi di un centro di accoglienza. Alle elezioni legislative del 18 giugno 2015, l’estrema destra ha ottenuto un risultato importante, senza tuttavia entrare nel governo.

Sotto la pressione di un’opinione pubblica favorevole alla chiusura delle frontiere, il governo guidato dal partito liberale Venstre (centrodestra) ha irrigidito le sue posizioni sulle questioni relative ai migranti. Il ministro per l’integrazione Inger Støjberg ha annunciato il lancio di una campagna in inglese che ha l’obiettivo di scoraggiare i profughi a stabilirsi in Danimarca. Sono state effettuate delle espulsioni verso l’Italia in base al regolamento di Dublino che attribuisce la responsabilità dell’esame della richiesta d’asilo al primo paese di ingresso nell’Unione europea.

Legami che Venligboerne ha contribuito a creare rischiano di sbriciolarsi. Ormai “attivista a tempo pieno”, Mads Nygård, che è anche scrittore e giornalista, si scaglia contro la politica delle autorità danesi ed europee. “Queste persone sono perseguitate da un paese all’altro, è inammissibile”, esclama. “L’Ue distrugge quello che noi ci sforziamo di costruire”.

Mads Nygård ha perso il suo lavoro al centro di accoglienza dopo aver organizzato una festa di Natale, il 7 gennaio del 2015, per un gruppo di rifugiati eritrei ed etiopi che avevano espresso il desiderio di ritrovarsi insieme. “Abbiamo trovato una chiesa in mezzo al nulla, dove si sono riunite 125 persone”, racconta. “Abbiamo concluso la festa ballando”. Con l’amministrazione – statale e locale – mantiene rapporti quanto più possibile distaccati. “Non chiediamo sovvenzioni pubbliche che ci obbligherebbero a rendere conto. Preferiamo rivolgerci a donatori privati, che si impegnano in un progetto e che ci consentono di muoverci rapidamente”.

Da allora il centro di accoglienza è stato smantellato. I rifugiati sono stati trasferiti in aperta campagna. Oggi occupano un’ex casa di riposo nel villaggio di Hæstrup Mølleby. L’amministrazione pubblica ha giustificato questa collocazione affermando che i residenti avevano bisogno “di tranquillità e di pace”. Mads Nygård non è d’accordo. Secondo lui questo posto è troppo isolato per rifugiati che hanno “soprattutto bisogno di vita”.

(Traduzione di Giusy Muzzoppappa)

Questo reportage è stato pubblicato su Mediapart all’interno del progetto #OpenEurope, un osservatorio sulle migrazioni a cui Internazionale aderisce insieme ad altri nove giornali. Gli altri partner del progetto sono Mediapart (Francia), Infolibre (Spagna), Correct!v (Germania), Le Courrier des Balkans (Balcani), Hulala (Ungheria), Efimerida ton syntakton (Grecia), VoxEurop, Inkyfada (Tunisia), CaféBabel.

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