23 agosto 2015 11:10

Il 13 luglio l’agenzia di stampa serba Tanjug ha pubblicato un articolo dai toni allarmistici. La città di Zajecar (63mila abitanti), nella Serbia orientale a un quarto d’ora di macchina dalla frontiera bulgara, si apprestava a proclamare lo stato d’emergenza in vista di una catastrofe umanitaria: l’afflusso improvviso e straordinario di 40mila migranti provenienti da Siria, Afghanistan, Iraq e Pakistan.

“Una situazione fuori controllo”, ha dichiarato il presidente del consiglio municipale Sasa Mirkovic, manager nel mondo dello spettacolo e proprietario della catena di reti televisive locali Tv Best. Il giorno dopo un incontro sportivo a cui avrebbero dovuto partecipare un centinaio di bambini è stato annullato all’ultimo momento a causa del “timore” di un’infiltrazione terroristica del gruppo Stato islamico. Sasa Vojinovic, direttore della scuola elementare Djura Jaksic, ancora rcorda: “Era tutto pronto per i bambini”.

Questo tipo di storie inquietanti hanno cominciato a diffondersi tra l’opinione pubblica a metà giugno, quando il governo ungherese ha annunciato il progetto di chiudere la frontiera con la Serbia. Orde di migranti se ne vanno in giro per le campagne, terrorizzano le persone oneste, entrano nelle case, saccheggiano i monasteri, devastano i frutteti facendo razzia dei raccolti di pesche e albicocche.

Nei giorni di mercato le parole “Ebola” e “attentato” girano di bocca in bocca. “A causa delle descrizioni apocalittiche abbiamo deciso di andare nell’inferno di Zajecar per vedere con i nostri occhi il dramma in atto in questa città”, scrive il giornalista croato Drago Hedl nel quotidiano di Zagabria Jutarnji List. La situazione che descrive una volta giunto sul posto è lontana anni luce da quella descritta dai giornali: “È tutto normale, la gente bada ai fatti suoi senza fare attenzione a un gruppetto di migranti che si riposa tranquillamente all’ombra di un tiglio”.

Tutta questa storia dei 40mila migranti alla frontiera tra la Bulgaria e la Serbia è una panzana

“Sono venuto e non ho visto niente”. Drago Hedl, 65 anni, è forse uno dei migliori giornalisti d’inchiesta della Croazia. Corrispondente per numerosi giornali stranieri, è noto soprattutto per aver parlato di un tabù nel suo paese: i crimini commessi dall’esercito croato contro i civili all’inizio della guerra nell’ex Jugoslavia, nel 1991, nella regione di Osijek e di Vukovar.

Le sue inchieste sono state riconosciute con numerosi premi internazionali, ma gli amministratori di provincia e i veterani della “guerra per la patria” lo odiano. Quel giorno, un pomeriggio piovoso di metà luglio, l’ex “nemico di stato” è arrivato in sandali al bar dell’hotel Osijek, una torre in acciaio e vetro con vista sulla Drava e sul suo lungofiume dove di sera si incontrano i giovani della città. “Tutta questa storia dei 40mila migranti alla frontiera tra la Bulgaria e la Serbia è una panzana”, afferma. “Monsieur Drago”, seduto su un divanetto basso, sorseggia un vinello locale con lo sguardo divertito.

Secondo la polizia, nella circoscrizione di Zajecar 3.100 migranti hanno chiesto di fare richiesta d’asilo in Serbia da gennaio del 2015, ossia in media una quindicina di persone al giorno. Secondo Lora Todorova del ministero dell’interno bulgaro, la cifra astronomica di 40mila è “assolutamente falsa”.

La preparazione del tragitto dalla Serbia verso l’Ungheria, a Zajecar, luglio 2015. (Dalibor Danilovic)

Rimanda alle statistiche della Direzione centrale della polizia di frontiera: dall’inizio dell’anno alla frontiera tra Bulgaria e Serbia sono stati identificati 3.826 migranti, la maggior parte dei quali afgani (1.866), iracheni (897) e siriani (887). A luglio sono stati 776.

L’assistente del sindaco, Milko Todorovic, fa fatica a nascondere l’imbarazzo. È a lui che il sindaco Velimir Ognjenovic (Sns) e Sasa Mirkovic, contattati al telefono, hanno rifilato la “patata bollente”. “Non abbiamo niente contro i migranti e comprendiamo i loro problemi”, assicura il consigliere municipale. “Negli ultimi giorni però ne abbiamo ricevuti più di mille. I costi per la pulizia della città sono esplosi. Nell’evenienza di un’epidemia, non abbiamo medicine e ospedali. Dobbiamo inoltre tenere conto dei rischi legati ai tentativi di infiltrazioni da parte dei terroristi, per questo abbiamo deciso di proibire qualsiasi manifestazione pubblica. Non si scherza con la sicurezza dei bambini”.

Questo principio di precauzione non è stato applicato al 49° festival della musica Gitarijada, dal 29 luglio al primo agosto, che attira ogni anno sul sito della Felix Romuliana (il palazzo dell’imperatore romano Galerio) un centinaio di migliaia di spettatori.

La vera storia dei migranti che passano per la frontiera

Nella città rovente per il caldo estivo, una ventina di migranti, estenuati dopo un lungo cammino notturno, approfittano del fresco dell’ombroso giardinetto pubblico. “L’acqua della fontana si può bere?”, chiede un giovane in inglese. Sono le dieci del mattino. Un poliziotto in borghese si avvicina. Si appresta a chiedere i loro documenti. Alcuni passanti fanno un gesto di pietà. “Ci piacerebbe aiutarli portando loro del cibo”, si dispiace un pensionato. “Ma nemmeno noi abbiamo sempre cibo, e poi non vogliamo grane con la polizia”.

“Ho sentito dire che mi trovo in Serbia”, chiede Lezgin, 30 anni, uno yazida di Sinjar, nel nordovest dell’Iraq. È un ingegnere, e ha lavorato per il Norwegian refugee council (Nrc) nel Kurdistan iracheno. Dopo aver attraversato da un capo all’altro la Turchia in automobile, ha superato la Bulgaria nascondendosi nei boschi, nutrendosi di biscotti insieme a un gruppo di altre persone. Scacciato dai jihadisti dello Stato islamico, dichiara di aver sborsato ottomila dollari per raggiungere l’Unione europea. Ma non se ne pente: “Che importa di fronte al prezzo di una vita?”.

Alcuni migranti si riposano a Zajecar, in Serbia, luglio 2015. (Dalibor Danilovic)

Seduto accanto a lui, Bageer, 52 anni, annuisce in silenzio. Ex cuoco in un ristorante libanese, è originario della città di Derick (Kurdistan siriano). Ha pagato 19mila dollari per il suo viaggio, che lo condurrà in Germania, dove spera di far venire la sua famiglia dopo aver trascorso due anni in un campo profughi in Turchia. Racconta di essere stato picchiato da poliziotti bulgari che gli hanno rubato i soldi minacciandolo con una pistola.

Nel 2012, suo figlio di otto anni è stato ucciso da un proiettile alla testa mentre si andava in ospedale, dal dentista. Bageer ci mostra sullo schermo del suo smartphone la foto di un ragazzino pallido, dai capelli neri e gli occhi di porcellana: il figlio minore. Le foto del defunto le conserva in una seconda memory card nascosta nella suola delle scarpe. “Il mio unico bene”, sussurra. “Qui c’è tutta la mia vita”.

“Siamo scappati dalla Siria nel marzo del 2014”. Queste tre famiglie curde di Aleppo, sette adulti e due bambini, hanno affittato una stanza al Grinka, un hotel economico di Zajecar, dopo aver dormito nella foresta per diverse notti di seguito. Si sono conosciute alla periferia di Istanbul, dove hanno trascorso un anno lavorando in un laboratorio tessile. Sono dirette a Dortmund, nel bacino della Ruhr.

Il tragitto da Istanbul a Sofia è costato 1.200 euro. Per andare da Sofia alla frontiera serba hanno pagato 500 euro. La via di terra gli è sembrata più sicura rispetto alla traversata del mar Egeo tra la Turchia e la Grecia.

Abdul e Farad hanno 18 anni. Vengono dall’Afghanistan, uno da Kondôz e l’altro da Jalalabad. Entrambi hanno abbandonato la scuola intorno ai 10-11 anni. Si sono conosciuti in Turchia, hanno attraversato insieme la Bulgaria e contano di arrivare fino in Germania, ad Amburgo e Ratisbona, dove li attendono le loro famiglie.

Non mangiano da due giorni e aspettano che la polizia consegni loro un documento in cirillico, indecifrabile per loro, che gli consentirà di andare in un centro di accoglienza per richiedenti asilo entro 72 ore. Con questo documento ufficiale potranno prendere i mezzi pubblici senza timore di essere fermati dalla polizia. Come tutti gli altri migranti arrivati in Serbia, andranno a Subotica, a 430 chilometri a nord, l’ultima stazione di transito prima dell’ingresso in Ungheria, nell’area Schengen.

A Zajecar i giovani hanno solo una cosa in testa, andarsene all’estero

“La città di Zajecar ha problemi finanziari”, commenta Sasa Trifunovic, redattore capo del sito di informazioni indipendente Istmedia. L’attività industriale è in declino. Le grandi cristallerie e le fabbriche di porcellana jugoslave, in passato floride, stanno chiudendo in seguito a privatizzazioni dannose.

“Il salario mensile medio è di 35mila dinari (meno di 300 euro) e le paghe arrivano con parecchi mesi di ritardo. Le promesse di investimenti stranieri non sono state mantenute. Al contrario, le fabbriche chiudono una dopo l’altra. In quindici anni 15mila persone hanno perso il lavoro. I pensionati rappresentano un quarto della popolazione, mentre i giovani hanno solo una cosa in testa, andarsene all’estero in cerca di una vita migliore”. Nel 2013 Zajecar è diventata la prima regione della Serbia per tasso di spopolamento.

Dalla metà di giugno, tuttavia, la città è stata scossa da manifestazioni che svelano le tensioni sociali. Dopo l’annuncio dell’amministrazione locale di aumentare di dieci volt le tasse alla fabbrica di cavi telefonici Fabrici Kablova (chiedendo un pagamento retroattivo di 76 milioni di dinari, 630mila euro, a partire dal 2010) la direzione polacca dell’azienda è stata costretta a chiudere i battenti, condannando 400 lavoratori alla disoccupazione.

“In questo contesto, i migranti, i profughi e i richiedenti asilo, sono stati usati come capro espiatorio”, commenta Drago Hedl. “Con le casse pubbliche vuote, le autorità municipali hanno inventato la bufala dell’invasione da parte dei migranti. Si dovevano chiedere soldi a Belgrado e incanalare in un altro modo la rabbia dei cittadini”. Il 16 luglio il ministro degli affari sociali Aleksandar Vulin è andato in visita a Zajecar. “La città avrà il sostegno del governo per risolvere il problema dei migranti”, ha promesso precisando al tempo stesso che non c’è alcun motivo per proclamare lo stato d’emergenza.

Questo reportage è stato pubblicato su Mediapart all’interno del progetto#OpenEurope, un osservatorio sulle migrazioni a cui Internazionale aderisce insieme ad altri nove giornali. Gli altri partner del progetto sono Mediapart (Francia), Infolibre (Spagna), Correct!v (Germania), Le Courrier des Balkans (Balcani), Hulala (Ungheria), Efimerida ton syntakton (Grecia), VoxEurop, Inkyfada (Tunisia), CaféBabel.

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