03 maggio 2016 17:40

Cosa ci fanno dei curdi siriani di Kobane a Bamako, capitale del Mali, in Africa occidentale? Non è uno scioglilingua ma la realtà quotidiana di famiglie di profughi che ingrossano le statistiche della diaspora siriana nel mondo.

Dietro alle storie di questi esuli e dei percorsi che li hanno portati fino nel Sahel si cela l’ennesima assurda piega del viaggio a cui sono costretti milioni di persone in fuga da guerre per accedere alla protezione internazionale. Dalla Siria ne sono scappati quasi cinque milioni durante questi anni, sparpagliando famiglie e destini ai quattro angoli del Mediterraneo: 2,7 milioni sono in Turchia, 2,1 milioni tra Egitto, Iraq, Giordania e Libano, 28mila in Nordafrica (dati dell’Agenza delle Nazioni Unite per i rifugiati, Unhcr). Un piccolo gruppo è arrivato fino in Mali, a migliaia di chilometri dal Medio Oriente, ritrovandosi ancora più lontano dal sogno di un riparo sicuro in Europa.

Quartiere di Faladié Sema, periferia sud di Bamako. L’appuntamento, preso al telefono in un misto di arabo, curdo, francese e inglese, è davanti a un hotel. Si presentano tre ragazzini dai lineamenti orientali e la carnagione olivastra. Non fanno domande, comprano sacchetti d’acqua fresca a una boutique, salutano il venditore in perfetto bambara (la lingua del Mali) e fanno cenno di seguirli.

Saltellando su stradine di terra rossa ci guidano fino a una costruzione a due piani che dall’esterno sembra uguale alle altre. Appena varcato il cancello, salendo le scale che portano al ballatoio al primo piano, invece, s’incontra un’umanità decisamente diversa da quella che popola il quartiere attorno. Uno sciame di bambini di tutte le età riempie lo spazio circostante, accompagnato dal vociare affettuoso di alcune donne corpulente e di una tata africana.

L’esilio resta amaro. Non basta il pane fatto in casa, non basta vedere la bandiera curda affissa alla finestra illuminarsi al sole

I cerimoniali di benvenuto si consumano nel salotto occupato da divani di pelle, un tavolino di vetro, stuoie e tappeti ai piedi dei sofà. I posti più comodi sono per i capofamiglia, gli ospiti e i figli più grandi. Per terra, invece, siedono a gambe incrociate donne e bambini. “Qui viviamo in affitto, siamo tre famiglie. Siamo tutti curdi di Kobane”. Ala Addin è il portavoce di 36 anni della comunità di curdi siriani del Mali. “Sono qui da più di dieci anni ormai, avevo una piccola azienda di pozzi. Dallo scoppio della guerra in Siria ho dovuto far venire a Bamako tutta la famiglia”.

Da quando il sedicente gruppo Stato islamico ha occupato Kobane la storia di questo padre di sei figli (l’ultima, nata qui, si chiama Mali) e il suo rapporto con l’Africa si sono intrecciati con il destino della propria comunità. “La gente vende tutto quello che ha per scappare. Le nostre donne avevano gioielli d’oro di famiglia. Abbiamo venduto tutto per comprare la salvezza. E ora siamo bloccati qui, dove vivere è difficile, fa caldo, ci sono le malattie, tutto è caro e diverso e non riusciamo più ad andare avanti”.

Accoglienza nonostante la guerra

I suoi tre telefoni non smettono di squillare: quando non è una famiglia bloccata nel deserto è la polizia maliana che chiede garanzie per un curdo fermato su un autobus. Nonostante le giornate scandite dai tè, il narghilé gusto menta e le sigarette rollate con cartine Papier de Damas, l’esilio resta amaro. Non basta il pane fatto in casa ogni giorno dalle donne, non basta vedere la bandiera curda affissa alla finestra illuminarsi al sole. “Non c’è lavoro a Bamako. Per questo molti siriani cercano di rimettersi in viaggio verso l’Europa e s’indebitano per ripartire”.

Dato che, come Ala Addin, la maggior parte dei siriani che arriva in Mali preferisce non chiedere asilo, è difficile conoscere esattamente i numeri dell’afflusso. Guernas Guy-Rufin, responsabile della protezione dell’Unhcr in Mali, descrive così il fenomeno: “Oggi abbiamo 82 rifugiati siriani riconosciuti e dieci richiedenti asilo. Alcuni vengono in Mali espressamente per chiedere protezione mentre altri sono in transito verso l’Algeria e altri paesi. Tra la Mauritania e la Siria esisteva un accordo di libera circolazione (sospeso alla fine 2015). Grazie a questo i siriani sono arrivati dalla Turchia o dal Libano in aereo in Mauritania e poi sono venuti in Mali, paese che nonostante la guerra continua ad accogliere i rifugiati e i richiedenti asilo”.

Una giovane maliana al servizio della famiglia Saddik prepara il tè, il 25 marzo 2016. (Luca Salvatore Pistone)

Secondo l’esperto dell’Unhcr la scelta di questa meta è logica quanto complicata: “Quasi tutti i siriani che sono arrivati in Mali e hanno chiesto asilo l’hanno ottenuto, per questo continuano ad arrivare. Oltre al fatto che qui c’è una piccola comunità di commercianti siriani installata già prima della guerra in Siria. Il problema è che oggi dipendono interamente dall’assistenza umanitaria, non riuscendo più a trovare un impiego”.

In Mali la legge sull’asilo non comporta, come altrove, l’interdizione al lavoro. Sulla carta ai profughi sono riconosciuti anche gli stessi diritti di accesso alla salute e all’educazione dei cittadini maliani. Ma la crisi socioeconomica che dopo la guerra del 2013 ha investito il paese, uno dei più poveri al mondo, non può certo offrire condizioni ottimali d’accoglienza.

Prima la Mauritania, ora il Mali. Da quando è chiusa la via balcanica, per i siriani queste mete esotiche e sconosciute sono diventate un passaggio sicuro verso l’Europa. Molti di loro da qui continuano il viaggio attraverso Algeria, Marocco o Libia cercando di mischiarsi al flusso dei migranti economici subsahariani. Ai siriani, le reti saheliane di trafficanti chiedono dai cinquecento ai mille euro a testa per raggiungere Tamanrasset, nel sud dell’Algeria, da Gao, nel nord del Mali.

La Siria oggi confina con il Mali

In precedenza molti profughi prendevano l’aereo direttamente per Algeri, ma da aprile del 2015 anche l’Algeria ha imposto restrizioni ai visti per i siriani, costringendoli a entrare illegalmente da sud, dal deserto maliano. Dopo il passaggio al confine di In Khalil di almeno un migliaio di siriani tra la fine del 2015 e l’inizio di quest’anno, Algeri ha rinforzato i controlli alla frontiera con il Mali (ufficialmente chiusa per il conflitto) e oggi respinge i profughi costringendoli a tornare a Bamako, oltre 1.300 chilometri più a sud.

“Ai primi arrivi la popolazione ha reagito con diffidenza. Avevamo paura che fossero venuti per raggiungere i gruppi jihadisti nel nord. Ma finora nessun siriano è mai stato incolpato di un crimine dalla giustizia maliana. Questa gente è qui in cerca d’aiuto e noi, per quanto possibile, li aiutiamo”. Yeya F. Maiga è il direttore amministrativo della Commissione nazionale incaricata dei rifugiati (la Cncr) che a Bamako, in collaborazione con l’Unhcr, esamina le richieste d’asilo e rilascia gli status di protezione. “Al di là delle convenzioni internazionali ratificate, delle leggi e dei decreti attuativi, per il nostro popolo l’accoglienza è sacra. Ci credereste se vi dicessi che oggi il Mali oltre ai siriani accoglie profughi etiopi, eritrei, iracheni, afghani, pachistani e srilanchesi? Forse nel nostro piccolo abbiamo anche noi qualcosa da insegnare all’Europa”.

Non dimenticheremo Kobane, ritorneremo e la ricostruiremo più bella

Nel salotto della casa dei siriani di Faladié Sema una televisione al plasma appesa a una parete alterna videoclip rap a serafici documentari sul Kurdistan. Durante il racconto dell’amico Ala Addin, Usman Saddik era rimasto in silenzio ad annuire. È un anziano contadino dalle mani callose di un villaggio poco lontano Kobane, arrivato due anni fa in Mali. Parla solo curdo, si fa tradurre dai figli. “Quando stava per arrivare Daesh [il gruppo Stato islamico, ndr] ho svenduto tutta la terra. Ora non sono più nulla. Cos’è un contadino senza terra? La nostra casa, invece, è stata bombardata dagli americani perché era stata occupata da quelli di Daesh. Non vorrei andare in Europa, ma è l’unico modo per salvarci”.

Da Bamako Usman è riuscito a mandare il primogenito in Germania, dove spera di raggiungerlo presto con il resto della famiglia. Ma anche l’Europa, oggi tanto agognata, sarebbe un palliativo. Nel cuore dell’esule brucia la nostalgia di casa. “Non potremo mai dimenticare Kobane, ritorneremo, anche se ci sarà solo la terra. Anche se hanno distrutto tutto prima o poi torneremo e la ricostruiremo ancora più bella”. Mentre nel salotto gli uomini sognano il ritorno e le donne sperano in una nuova vita in Canada, nella stanza accanto una ragazza della famiglia prende lezioni di francese da un universitario maliano. Nella nuova geografia che estremismi, guerre e migrazioni stanno ridisegnando sulle nostre mappe impolverate del mondo, la Siria oggi confina con il Mali.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it