11 giugno 2019 10:11

“Facciamo in Niger le stesse cose che facevamo in Italia e ci troviamo di fronte la stessa tipologia di persone, con gli stessi problemi soprattutto di tipo psicologico”. Françoise Farano è italiana, ha una trentina di anni, sorriso smagliante e capelli ricci. Dopo essersi occupata per anni dell’accoglienza dei migranti appena sbarcati sulle coste italiane, da tre mesi si è trasferita insieme ad altri operatori dell’ong italiana Medici per i diritti umani (Medu) alle porte del Sahara, ad Agadez, la terza città del Niger.

Da quando il conflitto in Libia è peggiorato le condizioni per gli stranieri sono diventate proibitive, così molti migranti fuggono in Niger e chiedono asilo nel paese: è il caso di circa 1.600 sudanesi che dal 2018 vivono in un campo profughi gestito dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) a 15 chilometri da Agadez, in mezzo al deserto.

Nourasham, 33 anni, è una di loro. È tornata in Niger dalla Libia insieme ai suoi cinque figli grazie all’aiuto di un amico di famiglia, dopo che suo marito è scomparso una mattina a Tripoli. Era uscito di casa per andare al mercato. “Eravamo arrivati in Libia un paio di anni prima, perché mio marito lavorava a Tripoli, poi un giorno non è più tornato a casa, non so che fine abbia fatto”, dice mentre si abbandona al pianto. “La Libia è il paese più pericoloso del mondo per gli stranieri, io vivevo chiusa in casa, non uscivo nemmeno per fare la spesa. Ma quando mio marito è sparito sono rimasta da sola con i miei figli: il più piccolo ha tre anni, il più grande tredici. Non potevo fare altro che venire in Niger, ma ora non ho niente da dare ai miei figli”, continua la donna, mentre una psicologa dell’Unhcr tenta di rassicurarla.

La incontriamo all’ombra di un’incannucciata costruita dagli stessi richiedenti asilo sudanesi nel campo profughi. È avvolta in un telo rosso che la protegge dal caldo e dalla sabbia, è seduta su una stuoia. Non smette di piangere: gli occhi grandi e neri sono coperti da lacrime che escono a fiotti e le fanno arrossare la pelle. Nourasham non può tornare in Darfur, non sa che fine abbia fatto la sua famiglia, in Libia non poteva rimanere e allora ha deciso di raggiungere il Niger, dove sperava di trovare un lavoro. Ma ora è spaventata: “Non ho niente, i miei figli mi chiedono continuamente del padre, io non so cosa dargli, mi sembra che non ci siano prospettive”.

Bloccati in Niger
I sudanesi hanno cominciato ad arrivare ad Agadez dalla Libia alla fine del 2017: per la prima volta dal 2011 i flussi migratori si sono invertiti e le persone hanno cominciato a spostarsi in cerca di protezione verso sud invece che verso nord. Inizialmente le organizzazioni internazionali presenti in città non disponevano di risorse sufficienti per accoglierli e i richiedenti asilo hanno cominciato a dormire per strada.

Questo ha creato tensione con la popolazione locale che accusava i sudanesi di commettere reati e di sporcare le strade. Anche il governo nigerino – generalmente accogliente verso i richiedenti asilo – ha mostrato ostilità verso questo gruppo accusandolo di appartenere ad alcune milizie del Darfur e di rappresentare una minaccia per la sicurezza. Il 2 maggio 2018 la polizia nigerina ha arrestato 160 sudanesi e li ha riportati in Libia, violando una serie di leggi internazionali come il principio di non-refoulement (non respingimento). Secondo alcuni report, parte dei deportati una volta arrivati in Libia avrebbero provato ad attraversare il Mediterraneo per raggiungere l’Europa, ma avrebbero perso la vita in un naufragio.

Per quelli che sono rimasti, l’Unhcr ha costruito un campo profughi e sta facendo pressioni sulle autorità nigerine affinché accolgano le loro richieste di asilo. “Alcuni hanno deciso di tornare dalle loro famiglie nei campi profughi in Ciad, dove sono cresciuti, gli altri sono in attesa che gli sia riconosciuto lo status, abbiamo fatto un lavoro importante anche con le autorità locali come il sultano dell’Aïr per trovare una soluzione”, afferma Alessandra Morelli capomissione dell’Unhcr in Niger. “All’inizio ci accusavano di essere un pull factor, di essere un fattore di attrazione. Se costruite un campo profughi, ne verranno degli altri”, ci dicevano. “Ma non è così, i flussi sono costanti e sono determinati dalla situazione nei paesi limitrofi”, conclude Morelli.

Solo nel 2018 l’Algeria ha deportato in Niger 25mila migranti subsahariani irregolari e la Libia, divisa dal conflitto civile e controllata da decine di gruppi armati, è sempre più pericolosa per i migranti e i lavoratori stranieri che ci vivono. Questo ha determinato un flusso di ritorno verso il Niger. Per i sudanesi la situazione è particolarmente critica perché la maggior parte di loro non può tornare a casa: vivono come sospesi. “Nel campo incontriamo persone che hanno disturbi depressivi, attacchi di panico, disturbi di ansia generalizzata: le persone che troviamo nel campo sono pluritraumatizzate. Soprattutto le donne hanno vissuto episodi di violenza di cui fanno fatica a parlare e che fanno fatica a lasciarsi alle spalle”, spiega Anna Dessì, responsabile terapeutica di Medu. “In Libia le persone sono torturate dai trafficanti che chiedono il riscatto alle loro famiglie, se sopravvivono spesso si incamminano verso il Niger e poi si ritrovano in questo campo senza prospettive. La situazione non è facile”, conclude Dessì.

Guerra al traffico
Un tempo considerata la porta d’ingresso del deserto, Agadez è diventata famosa per essere la “città dei migranti”, stazione di posta obbligata di tutti coloro che dall’Africa subsahariana volevano raggiungere l’Europa attraverso la Libia. “Da qui comincia la rotta del Mediterraneo centrale”, spiega Alessandra Morelli. “Nel 2015 si stima che siano passati da questa rotta circa 300mila migranti”.

Dal maggio del 2015 però le cose sono drasticamente cambiate alla frontiera. Una legge “contro il traffico illegale di migranti” emanata dal governo di Niamey e fortemente voluta dai governi europei, ha messo fuorilegge il trasporto di migranti trasformando completamente la città del deserto e la sua economia che era fondata proprio su questa attività.

Agadez, Niger, maggio 2019. (Annalisa Camilli)

“La popolazione locale viveva del trasporto delle persone attraverso la frontiera quindi ha preso molto male questo cambiamento: Agadez era una città di transito. Allo stesso tempo con il peggioramento delle condizioni nei centri di detenzione in Libia, abbiamo registrato il fenomeno delle persone che arrivano in Niger di ritorno dalla Libia e dall’Algeria”, spiega la coordinatrice di Medu Farano. “Questo ha cambiato completamente gli equilibri in città e sono nate molte tensioni nella popolazione locale legate alla presenza stanziale dei rifugiati”.

Prima dell’approvazione della legge contro il traffico, ogni lunedì partivano anche duecento pick up dalla stazione degli autobus di Agadez, diretti a Dirkou, a Madama e quindi in Libia. Ma a partire dai primi mesi del 2016 (quando la legge è stata applicata in maniera sistematica) decine di passeur sono stati incarcerati e i loro mezzi sono stati sequestrati. “C’è un cimitero dei pick up sequestrati in un campo vicino ad Agadez, proprio come a Lampedusa c’è un cimitero dei barconi usati per la traversata”, spiega Morelli.

Amadou Modou è un tuareg di una cinquantina di anni: occhiali da sole scuri e un lungo caftano marrone. Ha fatto il passeur per trent’anni, poi dopo che il traffico è stato criminalizzato, ha riconvertito la sua attività e ora fa il tassista. “Era tutto regolare in passato, eravamo iscritti a una lista ufficiale, portavamo persone e merci dal Niger all’Algeria e alla Libia: migranti ma anche sigarette, cibo, profumi”, spiega. “Fino al 2011 usavamo dei camion che potevano trasportare anche cento o 130 persone, poi abbiamo cominciato a usare i pick up che erano più veloci”, racconta Modou. “Nel 2015 nella regione di Agadez c’erano più di seimila persone che facevano questo lavoro”.

Dal 2015 alcuni passeur hanno deciso di riconvertire la loro attività accettando i fondi europei stanziati per questo tipo di progetti, ma solo una minoranza è riuscita a ottenere questi finanziamenti, tutti gli altri sono rimasti disoccupati oppure sono finiti nelle mani della criminalità organizzata, a gestire il traffico di droga e di armi, che nella regione è altrettanto fiorente. “Io sono stato tra i pochi a beneficiare dei fondi europei per riconvertire la mia attività, ma in ogni caso non guadagno più come prima. Molti passeur sono entrati in clandestinità, gli itinerari sono cambiati e attraversare la frontiera è diventato molto più caro”, spiega Modou. “Ma i passeur di Agadez sono nati nel deserto e conoscono il deserto molto meglio dei militari, perciò troveranno sempre delle strade alternative”.

Nel 2015, con l’Agenda europea delle migrazioni, i 28 paesi dell’Unione europea hanno deciso di offrire due miliardi di euro al Niger per costruire una specie di muro invisibile alla sua frontiera settentrionale e bloccare gli arrivi di migranti in Libia e le partenze verso l’Europa.

Nourasham, 33 anni, nel campo profughi gestito dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ad Agadez, Niger, maggio 2019. (Annalisa Camilli)

Il pugno di ferro di Niamey contro i passeur ha prodotto una serie di conseguenze negative: il traffico di esseri umani non si è fermato, ma sono state aperte rotte più pericolose attraverso il deserto, il viaggio è diventato ancora più costoso per i migranti, l’economia locale è stata indebolita e i giovani che prima facevano i passeur alla luce del sole, pagando anche le tasse, si sono affidati alla criminalità organizzata, il tasso di disoccupazione è aumentato.

“È come quando provi a spalmare la cioccolata sul pane, tu schiacci e la cioccolata si espande fuori dai bordi. Allo stesso modo con la criminalizzazione del traffico si sono aperte altre rotte più pericolose, si è creata molta disoccupazione in territori già depressi ed è stata colpita la libertà di movimento che caratterizzava tradizionalmente questa zona frontaliera e che permetteva ai lavoratori stagionali di muoversi periodicamente verso l’Algeria o la Libia, due delle economie più forti dell’area”, spiega Alessandra Morelli dell’Unhcr. “C’è un proverbio che dice: niente potrà fermare un ragazzo con la testa piena di idee e la pancia vuota”.

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