È scesa in garage a vedere l’auto che apparteneva al padre e ha trovato i suoi guanti di lana sul cruscotto. Cristina Longhini, 39 anni, farmacista bergamasca, ha gli occhi gonfi di lacrime. Dice di sentirsi ancora nel pieno dell’inverno: “Tutto si è fermato nel momento esatto in cui i nostri familiari si sono ammalati. Nel resto del paese c’è chi pensa alle vacanze, chi agli aperitivi. Giustamente c’è voglia di voltare pagina, noi invece siamo ancora fermi a quel momento”.
I contagi e le morti per l’epidemia di coronavirus stanno diminuendo in Italia e il paese sembra avviato alla cosiddetta fase tre, ma c’è chi deve ancora affrontare un percorso difficile: elaborare una catastrofe che gli ha trasformato la vita. Cosa rimane ora che il peggio sembra passato? La rabbia per quello che si poteva fare, il dolore per la perdita, ma anche una sensazione di confusione e smarrimento. C’è l’esigenza di ricostruire tutti i passaggi che hanno determinato un numero così alto di morti: seimila solo nella provincia di Bergamo, più di 34mila in Italia.
Il 10 giugno 2020 Longhini, insieme a una cinquantina di altri familiari di persone morte a causa del covid-19 nella bergamasca, ha depositato un esposto contro ignoti per accertare le responsabilità di quello che è successo alla sua famiglia e alla sua città. Claudio, suo padre, era in salute, racconta. Aveva 65 anni, era appena andato in pensione dopo una vita passata a fare il rappresentante di gelati in giro per la Lombardia: duecento chilometri al giorno in auto.
Ha cominciato a stare male il 2 marzo con febbre, diarrea, nausea. Al telefono il medico di base ha prescritto antibiotici, antipiretici e fermenti lattici. Di fronte a un peggioramento, una settimana dopo, la madre della ragazza, anche lei farmacista, ha chiamato il 118 che non è intervenuto. L’11 marzo finalmente Claudio Longhini è stato visitato da un medico, che gli ha trovato un valore molto basso di ossigeno nel sangue, e l’ha fatto ricoverare all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, dove è risultato positivo al test per il covid-19.
A una settimana dal ricovero, le sue condizioni di salute sono peggiorate: avrebbe avuto bisogno di essere intubato, ma non c’erano posti disponibili in terapia intensiva. “A quel punto eravamo disperati e abbiamo chiamato tutti quelli che conoscevamo, in tutti gli ospedali. Ma non c’erano posti, non c’è stato niente da fare”, ricorda la figlia. “Il 19 marzo ci hanno chiamato alle cinque del mattino per dirci che mio padre stava morendo, non gli stava arrivando più ossigeno agli organi periferici. Poi non ci hanno più telefonato. Abbiamo dovuto chiamare noi intorno alle 14 per sapere quello che era successo. Si erano dimenticati di avvertirci della morte di papà. Dalla cartella clinica risulta che se n’è andato alle 5.45”.
In tutto nella zona i morti sono stati il 600 per cento in più dello stesso periodo dell’anno precedente
Cristina Longhini ha dovuto anche riconoscere la salma del padre, che era entrato in ospedale senza documenti d’identità, prima che il corpo fosse trasferito con un mezzo militare nel cimitero di Ferrara, dove è stato cremato. All’ospedale le hanno consegnato un sacchetto di plastica con gli oggetti personali del padre. Tra i vestiti c’era una maglietta con una macchia di sangue. “Vogliamo sapere cosa è successo esattamente e perché mio padre non ha avuto la dovuta assistenza”.
L’urna delle ceneri di Claudio Longhini è stata restituita alla famiglia il 18 aprile, un mese dopo la partenza dell’automezzo militare da Bergamo. La figlia – che nelle prime settimane di malattia del padre era a Milano, dove vive – non riesce ancora a rendersi conto di quello che è successo. “Non potevo lasciare il lavoro, perché sono una farmacista e in quei giorni abbiamo fatto dei turni assurdi, eravamo oberati di lavoro e anche spaventati, perché non avevamo protezioni”.
Di tanto in tanto le capita di guardare la chat di famiglia come se si aspettasse di ricevere un messaggio dal padre. I morti rimangono per molto tempo nella testa dei loro cari e il trauma di averli persi così rapidamente rende questo processo ancora più difficile da superare. Consuelo Locati ha la stessa sensazione. Pensa spesso di averlo ancora vicino, lo sente accanto in molte situazioni. Una presenza eterea, dice. Se lo immagina come a un palmo dal terreno, che se ne sta andando insieme ai suoi amici.
Locati è un’avvocata bergamasca. Suo padre Vincenzo è morto il 27 marzo. Nello stesso giorno, nella provincia di Bergamo sono morte più di novecento persone. In tutto nella zona i morti sono stati il 600 per cento in più dello stesso periodo dell’anno precedente, un record di mortalità anche in confronto ad altre aree del mondo colpite dal virus.
Leggendo la cartella clinica del padre, Locati ha scoperto che negli ultimi giorni di degenza all’ospedale Humanitas Gavazzeni di Bergamo gli è stato tolto il respiratore C-Pap, sostituito da una semplice mascherina per l’ossigeno. Secondo l’avvocata, durante la crisi sanitaria, i medici si sono trovati nella condizione di dover scegliere chi salvare, avendo risorse e macchinari limitati per far fronte all’epidemia.
Suo padre aveva 78 anni ed è stato ritenuto sacrificabile rispetto a pazienti più giovani, secondo la ricostruzione della donna. L’avvocata non crede che ci siano responsabilità dei medici, che si sono trovati a dover gestire una situazione di assoluta emergenza, ma è convinta che nel suo caso e in quello di almeno altre cento persone decedute per covid-19 nella bergamasca ci sia stato un mancato o un tardivo intervento da parte delle autorità sanitarie lombarde e che quindi ci siano delle responsabilità politiche da individuare.
Vincenzo Locati, originario di Seriate, era stato ricoverato in una clinica privata, la clinica San Francesco, per sottoporsi a degli esami preliminari in vista di un intervento alla prostata alla fine di febbraio e lì, secondo l’avvocata, potrebbe aver contratto il virus, perché quella struttura è stata chiusa una settimana dopo per ragioni di sicurezza. Nello stesso periodo inoltre si era fatto visitare per un problema ai reni da un medico che successivamente era risultato positivo alla malattia. Quando ha cominciato a manifestare i sintomi del covid-19, intorno ai primi di marzo, l’uomo non è riuscito a ottenere una visita domiciliare da parte del suo medico di famiglia.
È stato curato solo per telefono da un dottore, che non è mai andato a visitarlo. “Ha avuto febbre da 37 a 39, curata solo con Tachipirina”. Intono alla metà di marzo la figlia ha minacciato di denunciare il medico perché non prescriveva nessuna terapia antibiotica, nonostante ci fosse un sospetto di coronavirus. “Alla fine sono riuscita a fargli fare una radiografia privatamente, dalla quale è emerso che aveva una polmonite bilaterale interstiziale a conferma di quello che pensavamo”, ricorda. Le bombole di ossigeno erano introvabili: “Le ho dovute cercare in tutta la Lombardia”. Il 22 marzo l’uomo ha avuto un collasso respiratorio ed è stato infine ricoverato all’ospedale Humanitas, dove è morto qualche giorno dopo.
Locati, insieme ad altri sette avvocati, ha raccolto un centinaio di denunce contro ignoti per pandemia colposa e omicidio colposo plurimo, che sono state depositate alla procura di Bergamo il 10 giugno insieme al comitato dei familiari Noi denunceremo. L’avvocata parla di “abbandono” delle persone da parte del sistema sanitario, che “ha fallito” nel garantire la salute ai suoi cittadini. “I medici di famiglia non venivano a visitare le persone malate a casa, loro stessi sono stati lasciati in trincea senza dispositivi di sicurezza. Mancavano le mascherine, i dispositivi di sicurezza per i medici, le bombole di ossigeno. Il sistema è collassato”, racconta.
L’inchiesta sulla zona rossa
Perché alla fine di febbraio non è stata istituita una zona rossa nella val Seriana, in provincia di Bergamo, come invece è avvenuto a Codogno? È la questione principale sollevata dalle denunce depositate in procura, dove è già stata avviata un’inchiesta dalla procuratrice Maria Cristina Rota: nell’indagine sono state ascoltate come persone informate sui fatti anche il presidente del consiglio Giuseppe Conte, la ministra dell’interno Luciana Lamorgese e il ministro della salute Roberto Speranza, il presidente della regione Attilio Fontana e l’assessore alla salute lombardo Giulio Gallera. “In Italia sono state istituite 117 zone rosse e non si capisce come mai questo non sia avvenuto in una delle aree più colpite dal virus”, dice Locati. Alcune zone rosse in Italia sono state istituite dal governo, altre dalle regioni.
L’interpretazione degli avvocati del comitato è che le responsabilità siano condivise tra autorità nazionali e locali, perché sia il governo sia la regione avrebbero potuto, già dalla fine di febbraio, chiudere la val Seriana, come è avvenuto a Codogno e a Vo’ Euganeo. “In termini di legge sarebbe stato possibile per il governo, ma anche per la regione attraverso un’ordinanza, chiudere la val Seriana a partire dalla fine di febbraio”, conclude Locati. La mancata istituzione della zona rossa, per Luca Fusco, fondatore e presidente del comitato Noi denunceremo, “avrebbe risparmiato molti morti e forse alleviato le conseguenze della pandemia nel resto dell’Italia”.
Sulla questione la legislazione italiana è caotica, come ha spiegato il costituzionalista Michele Ainis, perché le fonti normative si sovrappongono senza indicare un unico responsabile. C’è la legge sul servizio sanitario nazionale del 1978, il decreto Bassanini del 1997, il testo unico degli enti locali del 2000, il codice della protezione civile del 2018 e infine i decreti emanati dal presidente del consiglio Giuseppe Conte durante la pandemia. In sostanza, secondo molti esperti, sia il governo sia le autorità regionali sia gli stessi sindaci, nei territori di loro competenza, avrebbero potuto istituire la zona rossa. Le indagini della procura si stanno concentrando sugli eventi che hanno riguardato la chiusura dell’ospedale di Alzano Lombardo, tra il 22 e il 23 febbraio, e poi la mancata istituzione della zona rossa il 5 marzo.
Dopo la scoperta del primo caso a Codogno, a qualche decina di chilometri da Bergamo, furono registrati i primi due casi di covid-19 nell’ospedale di Alzano Lombardo. Era il 23 febbraio e il responsabile della struttura chiese che l’ospedale fosse chiuso. La richiesta fu rivolta all’azienda sociosanitaria territoriale (Asst) di Bergamo, che a sua volta la girò alla regione Lombardia. La questione arrivò nell’ufficio del direttore generale alla sanità lombarda Luigi Cajazzo, che decise di lasciare aperto l’ospedale di Alzano Lombardo (Cajazzo sarà sostituito dal 18 giugno per una decisione presa in questi giorni dai vertici della regione Lombardia).
L’assessore alla salute Giulio Gallera, ascoltato dalla procura di Bergamo per tre ore, ha spiegato la decisione dicendo che i dirigenti regionali avevano ricevuto rassicurazioni sul fatto che l’ospedale sarebbe stato sanificato. Il governatore lombardo Attilio Fontana, ascoltato in procura, ha detto che non spettava alla regione la chiusura, anche se i casi positivi stavano salendo in maniera preoccupante tra il 23 febbraio e i primi di marzo.
Da molte testimonianze emerge che le autorità subivano pressioni da parte del tessuto produttivo della città per evitare la chiusura, che avrebbe determinato grandi perdite economiche in una delle zone con più attività manifatturiere d’Italia. In molti puntano il dito contro un comunicato di Confindustria, pubblicato il 27 febbraio, in cui si chiedeva alla città e ai cittadini di tornare alla normalità. Il comunicato era sottoscritto anche da Abi, Coldiretti, Confagricoltura, Confapi, Alleanza per le cooperative, Rete imprese Italia e dai sindacati confederali.
Il 28 febbraio Confindustria Bergamo ha lanciato una campagna video “Bergamo is running/Bergamo non si ferma” per tranquillizzare i partner internazionali delle aziende bergamasche: un indotto di circa 370 imprese con un fatturato superiore a 650 milioni di euro all’anno. Confindustria ha poi dichiarato che quel comunicato e quel video furono un errore. Il presidente di Confindustria Lombardia, Marco Bonometti, ascoltato dai pm di Bergamo, ha negato che ci siano state pressioni sul governo e sulla regione per impedire l’istituzione della zona rossa, ma ha ammesso che gli industriali erano contrari alla chiusura.
La versione del governo
Il presidente del consiglio Giuseppe Conte, interrogato dai pubblici ministeri l’11 giugno a Roma come persona informata sui fatti, si è assunto la responsabilità di non aver dichiarato una zona rossa, nonostante l’Istituto superiore di sanità ne avesse espresso la necessità a partire dal 2 marzo. Anche il comitato tecnico scientifico (Cts) della protezione civile aveva consigliato la chiusura di Nembro e Alzano Lombardo sia il 3 marzo sia il 5 marzo, ma Conte avrebbe deciso di non chiudere, perché il numero dei contagi a quel punto era alto in tutta la Lombardia.
Il 5 marzo anche l’Istituto superiore di sanità aveva di nuovo espresso la necessità d’isolare i due comuni. Ma, secondo la ricostruzione di Conte, il 6 marzo si decise che il confinamento doveva riguardare l’intera regione, scelta che divenne però operativa solo tre giorni dopo. Il sindaco di Alzano Lombardo, Camillo Bertocchi, conferma che i sindaci della valle erano pronti alla chiusura dal 4 marzo, avevano ricevuto una comunicazione non ufficiale che il confinamento sarebbe cominciato alle 19, ma poi qualcosa è cambiato. Prima è sembrato uno slittamento, poi un ripensamento.
“La zona rossa era di fatto pronta, c’erano perfino i turni dei carabinieri per la chiusura dei varchi, sappiamo che sia l’istituto di sanità sia il comitato tecnico scientifico avevano dato parere favorevole alla zona rossa. Ma ancora oggi non sappiamo quali siano state le motivazioni che hanno portato a prendere una decisione diversa”, spiega Bertocchi. “Noi sindaci abbiamo vissuto dal 4 al 7 marzo in una condizione di totale sospensione, perché sapevamo che era tutto pronto per la chiusura, avevamo ricevuto comunicazioni dalla prefettura, dai carabinieri. Non sapevamo quanto dovesse essere grande quella zona rossa. E invece poi le cose sono andate diversamente”.
In ogni caso, anche dopo che tutto il paese è entrato in confinamento il 9 marzo, le fabbriche della val Seriana sono rimaste aperte fino al 22 marzo. Avrebbero dovuto essere chiuse almeno un mese prima, ne è certa Eliana Como, sindacalista e dirigente della Fiom di Bergamo. “Quando l’8 marzo ci hanno detto che sarebbe stata chiusa la Lombardia è stato chiaro che invece non si volevano chiudere le fabbriche. La settimana che va dall’8 al 14 marzo è stato un momento durissimo”, spiega la sindacalista.
Gli operai erano spaventati, chiamavano i delegati sindacali perché non volevano andare al lavoro, in una fabbrica infatti è molto difficile garantire le misure di distanziamento e nella valle i numeri del contagio e dei morti erano altissimi. “Nelle piccole imprese la situazione era terribile, gli operai hanno cominciato a chiamare i rappresentanti sindacali, erano impauriti. Quando è stato firmato il protocollo di sicurezza tra i sindacati e la Confindustria, il 14 marzo, la situazione si è complicata ulteriormente. Nelle piccole fabbriche era impossibile applicarlo”. Infine il 22 marzo il governo ha deciso di chiudere le attività produttive. “Ma nella bergamasca era già troppo tardi”, sostiene Como.
Secondo l’Inail, i contagi da coronavirus di origine professionale in Italia (fino al 31 maggio) sono stati 47.022, i casi mortali 208, pari a circa il 40 per cento del totale dei decessi sul lavoro denunciati all’Inail nello stesso periodo. Più della metà delle denunce (55,8 per cento) e quasi sei morti su dieci (58,7 per cento) sono riferiti all’Italia settentrionale. La Lombardia, in particolare, è la regione più colpita, con il 35,5 per centro delle denunce di contagio sul lavoro e il 45,2 per cento dei decessi. Il primato negativo dei casi mortali di contagio è nella provincia di Bergamo.
L’ospedale di Alzano Lombardo
Era una domenica il giorno in cui la cittadina prealpina di 13mila abitanti ha scoperto di essere il nuovo epicentro dell’epidemia di coronavirus in Italia. Il sindaco Bertocchi ricorda di aver saputo dei due casi positivi al covid-19 all’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano mentre beveva un caffè e di aver subito pensato che bisognasse annullare le sfilate dei carri previste nel pomeriggio per festeggiare il Carnevale. “Con i sindaci della valle abbiamo subito fatto una chat comune per discutere della situazione”, ricorda. Sono passati quasi quattro mesi da quel giorno e il sindaco ha le lacrime agli occhi quando ricorda le persone che sono morte nel paese, un’intera generazione di anziani, che in molti casi ricoprivano ancora dei ruoli centrali nell’organizzazione sociale. “Ad Alzano Lombardo, in pochi mesi, è morto lo stesso numero di persone che di solito muoiono in un anno”.
I primi due pazienti dell’ospedale di Alzano trovati positivi al covid-19 erano due anziani provenienti dai paesi vicini: Ernesto Ravelli, pensionato di 84 anni di Villa di Serio, ricoverato dal giorno precedente, e un ex camionista di Nembro, di 64 anni, ricoverato in ospedale il 15 febbraio. Il fatto che la diffusione del contagio sia avvenuta all’interno dell’ospedale potrebbe essere una delle cause della sua rapidità. I due primi pazienti sono stati subito trasferiti all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, che era stato destinato alla cura dei casi di coronavirus, ma da alcune testimonianze emerge che probabilmente la malattia circolava già da tempo nella valle. In val Seriana l’epidemia ha raggiunto il picco circa una settimana dopo la mancata decisione di attuare la zona rossa.
Anche sui dati dei contagiati e dei decessi ci sono state molte discussioni: i sindaci della val Seriana e di Bergamo hanno accusato la regione Lombardia di non aver fornito i numeri corretti e di aver sottostimato ampiamente entrambi i dati. “La mortalità nella provincia di Bergamo è stata anomala e con dei livelli straordinari a marzo e ad aprile, si è trattato proprio di uno tsunami. In alcune aree come per esempio Nembro, uno dei paesi della valle che ha avuto più decessi, c’era una mortalità anomala a partire da gennaio”, spiega Aldo Cristadoro, statistico e fondatore della società Intwig, che ha studiato i dati per conto del comune di Bergamo e del giornale locale l’Eco di Bergamo.
“Nel mese di marzo nella provincia si è passati dalla media abituale di ottocento decessi al mese, a 4.800 in più della media. Più del doppio dei 2.060 che sono stati comunicati ufficialmente dalla regione Lombardia. Il picco è avvenuto dopo il 10 marzo”, continua Cristadoro, che è riuscito a raccogliere questi dati mettendo insieme le statistiche delle anagrafi dei diversi comuni della provincia. Il problema, per lo statistico, è che i dati regionali si sono basati solo sul numero delle persone morte di covid-19 in ospedale e sottoposte a tampone; una parte dei decessi dovuti al covid-19, che in molti casi non sono stati ospedalizzati, è avvenuta in casa o nelle Residenze sanitarie assistite (Rsa), senza che fosse stato effettuato alcun test.
Il pronto soccorso dell’ospedale di Alzano Lombardo è stato chiuso per un pomeriggio il 23 febbraio, ma è poi stato subito riaperto, senza che fossero prese particolari precauzioni per i medici e per i pazienti. Ernesto Ravelli, il caso uno della bergamasca, è deceduto il 24 febbraio all’ospedale di Bergamo, diventando il primo caso mortale di coronavirus nella val Seriana. Secondo i dati ottenuti dal settimanale Altraeconomia, prima che la Lombardia fosse chiusa (8 marzo), negli ospedali nella bergamasca orientale i pazienti ricoverati poi risultati positivi al virus sono stati 655.
I primi tre ospedali per numero di pazienti con il covid-19 in quel periodo sono stati proprio quelli di Seriate, Piario e Alzano Lombardo. In quest’ultima struttura molti pazienti, che presentavano sintomi di covid-19, hanno denunciato di non essere stati sottoposti a tampone. Giancarlo Gargantini, 81 anni, residente a Villa di Serio, aveva sintomi di covid-19 dal 16 febbraio, la febbre durava da dieci giorni quando il 27 febbraio ha deciso di chiamare l’ambulanza che lo ha portato all’ospedale di Alzano Lombardo. Al pronto soccorso ha aspettato dieci ore seduto su una sedia a rotelle prima di essere visitato, e dopo la visita è stato dimesso alle tre di notte con una radiografia che evidenziava una polmonite bilaterale, e con la prescrizione di dieci giorni di isolamento e una cura antibiotica. Ma nessuna certezza di avere contratto il covid. “A prenderlo all’ospedale è andato mio marito in macchina, che si proteggeva con una mascherina e una sciarpa”, racconta Sara Gargantini, la figlia.
Gargantini era vedovo ed è stato in casa da solo per altri due giorni, prima di chiamare di nuovo l’ambulanza, che l’ha portato all’ospedale di Seriate, dove è stato sottoposto a tampone. “Se mi riportate ad Alzano non scendo dall’ambulanza”, ha detto l’uomo agli infermieri del pronto intervento. A Seriate Gargantini è risultato positivo al test diagnostico ed è stato messo in quarantena, insieme al resto del suo reparto. Ma è morto il 7 marzo. I suoi familiari, la figlia, il genero, non sono stati contattati dalle autorità sanitarie per essere sottoposti a verifiche sanitarie sul loro stato di salute. Gli è solo stato prescritto di stare in isolamento.
“Chissà quante persone sono state rimandate a casa senza aver fatto il tampone. Noi abbiamo fatto i test sierologici privatamente mesi dopo, per conto nostro”, racconta la figlia, che si sente abbandonata dalle autorità e dice di essere angosciata dal pensiero che suo padre abbia vissuto le ultime settimane della sua vita da solo. “Nell’ultimo messaggio via sms un’ora prima di morire mi ha detto che non ce la faceva più”.
Alla stesura di questo articolo ha collaborato il giornalista dell’Eco di Bergamo Isaia Invernizzi.
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