23 novembre 2019 09:58

Continua il racconto di un viaggio intorno al mondo che ho di recente fatto con mio figlio.

L’aeroporto di Shanghai è fuori città e per arrivarci prendiamo il Maglev. È un treno a levitazione magnetica (viaggia, cioè, senza neanche sfiorare la rotaia) e percorre l’intero tragitto di 33 chilometri in meno di 7 minuti e mezzo, toccando i 430 chilometri all’ora.

Insomma, va molto, ma molto più veloce di un aereo che sta decollando.

Tutto, a cominciare dalla stazione, è lindo, lucido, verdeazzurro e silenzioso. Le carrozze mi sembrano larghe almeno il doppio di un normale vagone ferroviario.

Viaggiando non si sentono scossoni né rumori intermittenti, solo un grande fffftttt.

Anche l’accelerazione e la decelerazione si percepiscono poco. L’unica cosa che dà davvero il senso della velocità è il vorticoso scorrere del paesaggio al di là dei finestrini.

La maggior parte dei passeggeri investe i suoi sette minuti e mezzo di percorso stando con il naso incollato allo schermo del telefono, e con il telefono medesimo rivolto al contachilometri montato all’interno della carrozza. Filmano il crescere e il decrescere delle cifre, ricavandone i 7 minuti e mezzo di video più noiosi del mondo.

Tutto ciò aggiunge un ulteriore tocco surreale all’esperienza del Maglev.

Poesia e bellezza assolute, o quasi
Stiamo andando a Guilin. La città si trova nella regione del Guangxi: una zona montuosa della Cina meridionale, abbastanza distante dalla costa, abbastanza vicina al confine con il Vietnam, e ancora oggi abbastanza popolata di minoranze etniche.

Da Guilin si può raggiungere uno specifico tratto del Lijiang (il fiume Li) che scorre poco distante: è un luogo di poesia e bellezza assolute, raffigurato da generazioni di pittori cinesi, remoto e sospeso nel tempo. Come se tra quelle acque e quelle colline si esprimesse l’anima immutabile e più autentica della Cina.

Ci sono stata nel 2005, e ci ritorno perché desidero che mio figlio, vedendolo, possa provare la stessa folgorante emozione che io ho provato allora. “Vedrai che posto”, continuo a dirgli. E uso aggettivi enfatici come “meraviglioso”, “incantevole” e “magico”.

Ovviamente sto sbagliando tutto.

Per gli standard cinesi, Gulin è una piccola città di meno di un milione di abitanti (ma altri quattro milioni e rotti gravitano nell’area). È situata in un luogo ameno: ci sono quattro laghi interconnessi, e tutto attorno montagne dalle strane forme che sbucano dalla pianura come se qualcuno ce le avesse appoggiate sopra.

Risarcimento estetico
Lungo i viali che conducono al centro, molti enormi cartelli ricordano le celebrazioni prossime venture del settantesimo anniversario della fondazione della Repubblica popolare cinese. L’altra cosa che noto è la quantità di motorini. È un chiaro indicatore del livello medio di benessere delle famiglie della zona: non più la bicicletta, non ancora l’automobile. In effetti, l’intera area sembra a metà di un processo di transizione.

Il centro è disordinato, vecchiotto senza essere antico, mentre nei sobborghi sorgono le ormai onnipresenti schiere di palazzoni di nuova costruzione, affiancate da folti gruppi di gru in procinto di costruire ulteriori palazzoni.

Gulin, 2019. (Annamaria Testa)

Arriviamo in centro poco prima del tramonto. Il cuore della vita locale è un’ampia via pedonale che parte dal fiume. È piena di negozi per turisti, bancarelle per turisti, ristoranti per turisti e, ovviamente, c’è un bel po’ di turisti, quasi tutti cinesi.

Non appena cala il buio, brillano sul fiume le due pagode del Sole e della Luna, bravamente illuminate di giallo e di azzurro. C’è il ponte, tutto blu, rosa e celeste. Sono volenterosamente illuminati di rosso fuoco e verde menta gli edifici che fanno da quinta alle colline, ed è illuminato perfino un paio di colline.

Insomma, sembra di essere in un luna park. Ma non è un problema: avremo il nostro risarcimento estetico la mattina successiva, con il fiume Li, l’incanto, la magia, l’anima della Cina eccetera.

Ma la mattina successiva, oibò, all’imbarcadero c’è una sorpresa. Le piccole barche che si avventuravano in quella meraviglia di paesaggio sono state sostituite da decine e decine di barconi a due piani che aspettano di ingoiare ciascuno la sua consistente razione di passeggeri.

Navigare sul fiume Li nel 2005 (a sinistra) e nel 2019 (a destra). (Annamaria Testa)

La gestione dell’intero sito è statale. Bisogna presentare biglietto e passaporto, accedere in file ordinate, farsi smistare in modo piuttosto sbrigativo verso l’una o l’altra imbarcazione, sedersi ai lunghi tavoli della sala ristorante e aspettare che, finito il carico, tutti i barconi partano in processione, uno incollato all’altro.

Dopo la partenza si può, finalmente, salire sul ponte, ma bisogna sgomitare per conquistarsi venti centimetri di parapetto e la possibilità di guardarsi attorno. Ovviamente il fiume è rimasto esattamente come lo ricordavo, e anche le montagne carsiche, e la nebbia sottile che le acquerella fino a trasformarle in una serie di silhouette stilizzate, di un grigio sempre più chiaro. Ma la meraviglia è un’emozione tanto preziosa quanto fragile, la delicatezza del paesaggio è sovrastata dal baccano e dagli spintoni.

Intanto, un implacabile altoparlante illustra in cinese e in inglese le diverse forme che dovremmo riuscire a intravvedere nelle colline: “Li vedete i nove cavalli? Il cammello? La faccia del vecchio signore?”.

Ciò che non riesco più a vedere sono le tradizionali imbarcazioni di tronchi di bambù, bassissime sul pelo dell’acqua. Quelle che ora stanno ormeggiate lungo la riva sono fatte di tubi di plastica blu o verdi, e non è la stessa cosa.

Navigare sul fiume Li: dal bambù (2005, a sinistra) alla plastica (2019, a destra). (Annamaria Testa)

Non vedo più neanche i contadini al lavoro sulle rive del fiume. E i pescatori con i loro cormorani (la pesca con il cormorano è una tradizione millenaria, cinese e giapponese. Il cormorano ha un laccio al collo che gli impedisce di inghiottire i pesci più grossi. Quindi, li cattura e li “sputa” nel cestino del pescatore).

Tutto sparito.

Faccio due chiacchiere con una guida cinese: sembra felice di aver trovato qualcuno che le fa qualche domanda sui luoghi. Mi spiega che in passato ogni pescatore aveva tra i cinque e i dieci cormorani maschi (le femmine non vanno bene per la pesca), che accudiva come figli. Si pescava di notte, usando una lampara. C’è solo qualche residuo pescatore che guadagna facendosi fotografare a pagamento. E per andare a pesca di turisti un singolo cormorano basta e avanza.

Aggiunge che in precedenza, in quell’area, si facevano due raccolti di riso all’anno, ma ormai i contadini rinunciano a un raccolto perché lavorare con i turisti rende di più. E molti scelgono di convertire le risaie in aranceti. Ai tempi della rivoluzione culturale era lo stato centrale a imporre le coltivazioni e a calmierare il prezzo del raccolto, ma adesso i singoli agricoltori possono decidere che cosa coltivare, se e a quanto vendere in base al prezzo di mercato.

Oggi l’età media dei contadini è cinquant’anni. “Quello delle risaie è un lavoro infame”, dice, “e nessun giovane vuole più spaccarsi la schiena e restare con i piedi a mollo per ore”. Dunque, in un futuro prossimo le risaie di pianura saranno meccanizzate, e quelle di collina, magnifiche ma impossibili da coltivare con le macchine, rischieranno l’abbandono.

Sostenibilità sporadica
Il primo ad anticipare i rischi di un’eccessiva pressione turistica è stato l’antropologo Claude Lévi-Strauss, che ne ha scritto verso la metà del secolo scorso, quando i viaggiatori internazionali erano ancora pochissimi: 25 milioni circa secondo l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto).

Il forum annuale sulle tendenze del turismo globale, a cura dell’Organizzazione mondiale del turismo (Unwto), quest’anno si è tenuto proprio a Guilin e ha diffuso alcuni dati significativi. Nel 2018 il turismo mondiale ha coinvolto quasi un miliardo e mezzo di persone, con una crescita del 5 per cento sull’anno precedente. Nel 2030, i turisti saranno quasi due miliardi. L’Asia è la regione dove il turismo cresce di più (qui la presentazione completa).

Oggi il fenomeno dell’overtourism riguarda Venezia e Roma, il Machu Picchu in Perù, i templi di Angkor Wat in Cambogia e quelli nella piana di Bagan in Birmania, l’Islanda, l’isola di Santorini in Grecia e molti altri luoghi. Sembra che a Guilin i delegati abbiano affrontato il tema di un turismo ambientalmente sostenibile. Chissà se sono stati portati in gita sul fiume Li.

A un certo punto del percorso sul fiume, un fremito d’eccitazione attraversa l’intero gruppo ammucchiato sul ponte del barcone, proprio come i gruppi ammucchiati sui ponti dei barconi precedenti e seguenti. Da ogni parte chiunque sventola banconote da 20 yuan. Tutti cercano di fare una foto inquadrando sia l’esatto paesaggio riprodotto nella banconota, sia la banconota medesima, a testimoniare che il posto è proprio quello lì, e che loro sono proprio lì, dentro il paesaggio celebrato dalla zecca di stato.

Perfino quando provo a catturare l’intera scena c’è qualcuno che generosamente piazza la sua banconota davanti al mio obiettivo di occidentale sprovveduta. Non mi resta che ringraziare dichiarando a gesti tutto il mio apprezzamento e la mia gratitudine.

Fiume Li. Turisti fotografano il paesaggio riprodotto sulle banconote da 20 yuan. (Annamaria Testa)

Conquistato finalmente il trofeo fotografico più ambito del viaggio, il gruppo si placa e sciama verso il piano inferiore per pranzare come da menu consegnati all’arrivo: riso e pollo a volontà.

Sul ponte restiamo solo mio figlio e io. Finalmente c’è un po’ di silenzio. Lo ammetto: mi sento delusa, e mi sento arrabbiata per il fatto di sentirmi delusa.

Eppure è più che legittimo che i figli dei contadini del Guangxi aspirino a una vita migliore di quella dei padri. Che i barcaioli trovino la plastica più comoda del bambù. E che la nuova classe media cinese se ne vada a spasso scattandosi selfie, sventoli i suoi 20 yuan tutta contenta, e si comporti in modo piuttosto chiassoso.

Così, l’incanto fragile del fiume è già diventato qualcos’altro. E l’unico posto dove oggi l’anima più autentica della Cina riesce a conservarsi intatta è il retro di una banconota: un fatto, questo, che comunque mi sembra dotato di un certo valore simbolico.

Mio figlio invece non fa una piega: “Bello, bello”, mi dice, “ma perché non andiamo a farci un po’ di riso e pollo anche noi?”. Ovviamente ha ragione lui.

Le altre tappe del viaggio

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