31 maggio 2019 12:27

Questo articolo è uscito il 3 agosto 2007 nel numero 704 di Internazionale. L’originale era uscito sul mensile statunitense Harper’s Magazine, con il titolo Moby-Duck.

Conosciamo il punto esatto in cui avvenne l’incidente: 44°7’ N, 178°1’ E. Sappiamo il giorno, 10 gennaio 1992, ma non l’ora. Non conosciamo il nome della nave e del suo capitano, e non sappiamo nemmeno a quale armatore appartenesse. Però sappiamo che era salpata dal porto di Hong Kong e che era diretta a Tacoma, nello stato di Washington. E sappiamo che, sebbene fosse un’imbarcazione enorme, un magazzino galleggiante con 50mila tonnellate di portata lorda e un motore grande come un fienile, quando venne sbattuta da onde alte più di dieci metri cominciò a rollare e a beccheggiare come un giocattolo in una Jacuzzi.

Sappiamo che dodici dei container colorati caricati sul ponte si staccarono dai cavi e finirono in mare. Possiamo ragionevolmente supporre che il tonfo fu spaventoso, come quello di un treno catapultato in acqua da una scogliera. Sappiamo che ogni container era lungo circa 12 metri, largo due e mezzo e probabilmente pesava quasi 29 tonnellate, e che almeno uno – forse quando finì addosso a un altro container, forse quando colpì gli stralli della nave, forse quando si inabissò – si spaccò e si aprì. Sappiamo che quando aveva lasciato il porto quello sventurato container trasportava 7.200 piccole confezioni: mentre l’acqua penetrava al suo interno e la scatola di acciaio affondava, tutti o quasi tutti questi pacchetti tornarono a galla. Ogni pacchetto conteneva un involucro di plastica con il fondo di cartone e ogni involucro ospitava quattro animali di plastica vuota lunghi circa dieci centimetri: un castoro rosso, una tartaruga azzurra, una rana verde e una papera gialla. Sul cartone erano stampate a lettere multicolori le seguenti parole: GIOCATTOLI GALLEGGIANTI. THE FIRST YEARS. DAI SEI MESI D’ETÀ. CREATI DA ESPERTI. CONSIGLIATA LA PRESENZA DEI GENITORI. LAVABILI IN LAVASTOVIGLIE.

Da un aeroplano a bassa quota, in una giornata limpida i pacchetti sarebbero sembrati dei coriandoli, un mucchio di quadratini colorati che esplodeva al rallentatore sulle onde. Nel giro di ventiquattr’ore l’acqua sciolse la colla. Le onde separarono la plastica dal cartone. E nel bel mezzo del Pacifico, in mari profondi quasi sei chilometri, più di 600 miglia a sud dell’isola di Attu, l’estremità occidentale degli Stati Uniti, più di 1.000 miglia a est di Hokkaido, l’estremità settentrionale del Giappone, e più di 2.000 miglia a ovest di Sitka, in Alaska, 28.800 bestiole di plastica prodotte nelle fabbriche cinesi per le vasche da bagno americane – 7.200 castori rossi, 7.200 rane verdi, 7.200 tartarughe azzurre e 7.200 paperelle gialle – uscirono dal loro guscio di plastica e se ne andarono libere alla deriva.

L’inizio della caccia
Undici anni dopo e oltre 7.000 miglia nautiche più a est, un’antropologa di nome Bethe Hagens e il suo compagno, Waynn Welton, cartografo digitale in pensione, videro qualcosa di piccolo e colorato tra le alghe all’estremità sudoccidentale di Gooch Beach, vicino al porto di Kennebunk nel Maine. Si fermarono e si chinarono a guardare meglio. Era grande circa come una saponetta, con la testa come una pallina da ping pong. Un marchio, The first years, era stampato a rilievo sul ventre. La plastica era “bianca e incredibilmente consumata dal tempo”, avrebbe ricordato in seguito Hagens. Il ricordo di Welton è diverso. Era ancora gialla, dice. “Alcune parti avevano cominciato a scolorire, ma non troppo. Qualunque cosa avessero usato per tingerla, aveva resistito piuttosto bene”. Giallo o no, quell’affarino sembrava aver attraversato l’oceano. Su questo Hagens e Welton erano d’accordo. Era buffo a pensarci, una paperella solitaria alla deriva nell’Atlantico, sembrava uscita da una favola o da un libro per bambini. Era buffo, ma anche assurdo. Lasciarono il giocattolo dove l’avevano trovato e continuarono la loro passeggiata.

Gli annunci pubblicati il 14 luglio del 1993 sul Daily Sentinel di Sitka non sono una lettura entusiasmante, ma danno un’idea di come sia l’estate nelle province marittime dell’Alaska. La Tenakee Tavern “di Tenakee” cercava un “barista simpatico”. Il servizio nazionale per la pesca marina annunciava che i vincitori del sorteggio delle etichette recuperate dai merluzzi neri sarebbero stati annunciati alle 13.00 del 19 luglio nel laboratorio di Anke Bay. “Stanchi di radervi, di strapparvi i peli con le pinzette o di fare la ceretta?”, chiedeva Jolene Gerard allettando i cittadini irsuti dell’Alaska con la promessa di una “depilazione definitiva”. Poi, sotto l’ambigua voce “annunci”, tra “servizi finanziari” e “barche in vendita”, c’era una richiesta insolita.

“Chiunque abbia trovato animali giocattolo in plastica sulle spiagge sudorientali è pregato di contattare il Sentinel al 747-3219”.

L’autore dell’annuncio era Eben Punderson, un insegnante di liceo che arrotondava lo stipendio facendo il giornalista. Il giorno del Ringraziamento del 1992, sull’isola di Chicagof alcuni setacciatori di spiagge, i cosiddetti beachcomber, avevano trovato decine di animali di plastica fra i soliti resti di reti da pesca, pezzi di legno e tappi di bottiglia portati a riva da un temporale. Dopo dieci mesi in mare, le paperelle erano diventate bianche e i castori gialli, ma le rane erano ancora verdi e le tartarughe azzurre.

Nelle settimane successive altri giocattoli furono trovati su altre isole e altri ancora continuavano a raggiungere la riva. Laurie Lee, sull’isola di Baranof, con la valanga di animaletti che aveva scovato riempì un’intera barca abbandonata. Signe Wilson ci riempì una vasca da bagno. Betsy Knudson ne aveva così tanti che cominciò a darli al suo cane. Sembrava che li stessero collezionando persino le lontre marine di Sitka Sound: una bestiola di plastica, infatti, era stata trovata nella tana di una lontra. In un’unica spedizione per ripulire le spiagge, Mary Stensvold , una botanica del servizio forestale che di solito passa le giornate a dare la caccia a rare specie di anemoni, ne raccolse quaranta. La notizia dell’invasione si diffuse. Decine di lettori risposero all’annuncio del Sentinel. I giocattoli erano stati trovati anche molto più a nord, sull’isola di Kayak, e molto più a sud, sull’isola di Coronation, a centinaia di miglia di distanza. Ma da dove erano arrivati?

Eben Punderson pensava di saperlo. Tre anni prima, nel maggio del 1990, un mercantile diretto a est, l’Hansa Carrier, era stato sorpreso da una tempesta 500 miglia a sud dell’Alaska. Erano finiti in mare alcuni container, fra cui un carico di 80mila Nike. Sei mesi dopo le scarpe spuntarono sulle coste dell’isola di Vancouver. La storia era venuta alla ribalta quando un paio di oceanografi di Seattle – Curtis Ebbesmeyer, uno studioso con una società di consulenza privata che segue gli iceberg alla deriva per l’industria petrolifera, e James Ingraham della National oceanographic and atmospheric administration (Noaa) – trasformarono la fuga di scarpe in un esperimento oceanografico. I due avevano introdotto le coordinate fornite dai setacciatori di spiagge nel simulatore di correnti oceaniche superficiali del Noaa, Oscurs, un sistema di modelli computerizzati basato su un secolo di dati del servizio meteorologico della Marina, e così avevano ricostruito il percorso di circa 200 scarpe. Il tinello della casa di Ebbesmeyer si trasformò nella sede di comando di quella che sarebbe diventata una rete globale di setacciatori.

Dopo mesi di navigazione le paperelle si erano tutte scolorite, ma le tartarughe erano ancora azzurre

Punderson aveva un vantaggio. Le paperelle, e per qualche strano motivo solo le paperelle, avevano stampato in rilievo il logo del produttore, The first years. Il negozio di giocattoli locale non era riuscito a trovare il marchio nei suoi cataloghi, ma il direttore della biblioteca dello Sheldon Jackson college riuscì a risalire a una ditta affiliata nel Massachusetts, la Kiddie products. Punderson parlò con il responsabile del marketing dell’azienda, che confermò le sue ipotesi. Sì, in effetti un carico di giocattoli galleggianti era andato perso in mare. “Risolto il mistero dei giocattoli erranti”, titolava la sezione Weekend del Sentinel un mese dopo la pubblicazione dell’annuncio di Punderson. E a questo punto la storia sarebbe dovuta finire, come qualsiasi aneddoto divertente sulle ultime pagine di un giornale di provincia. Mistero svelato, caso chiuso. Invece successe qualcosa di imprevisto: la storia continuò. In parte perché Ebbesmeyer e i suoi setacciatori si unirono alla caccia, in parte perché le bestiole di plastica continuavano la loro traversata. Anni dopo, comparivano ancora nuovi esemplari e nuovi misteri. Nell’autunno del 1993, i giocattoli erranti apparvero improvvisamente sulla costa di Shemya, una minuscola isola delle Aleutine 1.500 miglia più vicina alla Russia che a Sitka, dov’era avvenuto il naufragio. Nel 1995, alcuni setacciatori trovarono una tartaruga azzurra e una paperella scolorita dal sole nello stato di Washington. Dean e Tyler Orbison, un padre e un figlio che d’estate perlustrano le isole disabitate lungo la costa dell’Alaska, ogni anno aggiungevano altri giocattoli alla loro collezione: decine nel 1992, tre nel 1993 e 25 nel 1994, fino a quando, nel 1995, non ne trovarono più. L’assenza continuò nel 1996 e gli Orbison ne dedussero che non ci fossero più altri animali di plastica. Poi, nel 1997, improvvisamente riapparvero numerosi.

Ma altre migliaia mancavano ancora all’appello. Dove erano finiti? Nell’Artico? Erano ancora in balia delle correnti del Pacifico o sepolti tra le alghe sulle coste desolate dell’Alaska? Forse erano stati sopraffatti dagli elementi, dal gelo, dalle onde e dal sole, e si erano spaccati e riempiti d’acqua per poi colare a picco? Tutti i 28.800 giocattoli del container affondato erano tornati a galla nello stesso fazzoletto d’acqua. Ciascun esemplare delle quattro specie era pressoché identico agli altri: ogni rana aveva lo stesso spessore delle altre, ogni papera era leggera come le altre e ogni castoro aerodinamico come gli altri. Eppure una tartarughina era finita nella vasca da bagno di Signe Wilson, un’altra fra le zanne del labrador di Betsy Knudson e una terza nella tana di una lontra marina, mentre una quarta era arrivata fin quasi in Russia e una quinta era finita a sud del Puget Sound. Perché? Quale contorto calcolo di cause ed effetti poteva spiegare o magari persino prevedere destini così disparati?

Ci sono anche altre ragioni per cui la storia dei giocattoli è andata avanti, ragioni che hanno poco a che fare con l’oceanografia e molto con la fantasia degli uomini, a volte potente e imperscrutabile come il mare. Per poter dare senso a una serie di dati caotici e ricostruire l’ingarbugliata vicenda fin dall’inizio, Eben Punderson aveva mandato di nuovo alla deriva gli animali di plastica: stavolta però non nelle acque del Pacifico, ma nelle correnti dell’informazione. La Associated Press ripescò la storia del Daily Sentinel, che così finì sui giornali di tutto il paese. I giocattoli fecero una breve comparsa sul Guardian e sul New York Times Magazine, e una comparsa molto più lunga sullo Smithsonian. Come salmoni migratori, sono tornati quasi ogni stagione sulle pagine di Scholastic News, una rivista per ragazzi che ha raccontato la loro storia ben sette volte. Hanno navigato nei bassifondi di People e Msnbc e nelle pozze di marea di All things considered. Hanno turbinato nel maelstrom di internet e sono riaffiorati in acque esotiche come un manuale universitario di oceanografia o un bollettino per collezionisti di francobolli dedicato alle anatre.

Rubber duck nel porto di Valparaíso, Cile, il 5 ottobre 2017. (Rodrigo Garrido, Reuters/Contrasto)

Questi viaggi hanno portato a strani cambiamenti. I giocattoli erano a prova di lavastoviglie, ma non di mass media. Quando toccarono la mia fantasia, gli animali di plastica naufragati nel Pacifico nel 1992 erano quasi irriconoscibili. Tanto per cominciare, la plastica era diventata gomma. E poi, castori, rane e tartarughe erano diventati tutti papere. Era successo il giorno in cui Eben Punderson aveva pubblicato il suo insolito annuncio sul Daily Sentinel di Sitka: allora era cominciata la metamorfosi dell’evento in narrativa e della narrativa in mito.

Dieci paperelle in alto mare
Al di là dell’oceano, in una fabbrica di giocattoli fatta di mattoni rossi, una donna bianca con un vestito color mattone e un uomo scuro di nazionalità incerta con la camicia azzurro cielo lavorano fianco a fianco alla catena di montaggio. Da una macchina grigia emergono, una dopo l’altra, delle paperelle di gomma con il becco giallo e gli occhi bianchi ancora senza iride, poi si infilano nel nastro trasportatore. Ciak-ciak-ciak, fa la macchina delle paperelle gialle. Quando le passano davanti, la donna dal vestito rosso mattone dipinge il loro becco di rosso mattone con un pennellino. L’uomo dalla camicia azzurro cielo dipinge l’iride di azzurro cielo. Intorno alla fabbrica cresce erba verde. A quelli che ci lavorano piace fare le paperelle di gomma. Sono tutti in buona salute, riposati e sorridenti. Alla fine della catena di montaggio un altro uomo scuro di razza incerta, più chiaro e più giallo del primo, confeziona le paperelle, dieci per ogni scatola di cartone, e le carica su un camion verde erba che le porta a una nave in attesa, il Bobbie. La ciurma del Bobbie è composta da uno stivatore di nazionalità incerta con l’elmetto in testa e da un capitano bianco con barba bianca e berretto blu in tinta con la giacca. Sui polsini della giacca ci sono due strisce dorate e sul fumaiolo della nave due strisce rosse. Qualche decennio fa il capitano avrebbe fumato una pipa. Ora saluta allegramente da un oblò. Sopra di lui, una nuvoletta bianca sale dal fumaiolo su fino al cielo azzurro cielo.

Oggi l’oceano è molto più misterioso di quanto lo fosse per Melville un secolo e mezzo fa

Sbuffando, il Bobbie prende il largo. Trasporta le sue cinque scatole di cartone in un mare azzurro verde, seguito da un bianco pennacchio di fumo. In alto sorride felice un enorme sole, color paperella anche lui. Poi scoppia una tempesta. Le onde infuriano, il Bobbie è sbatacchiato di qua e di là. Il capitano grida e alza le braccia al cielo. Una scatola finisce in acqua. Le bestiole di gomma saltano fuori come popcorn da una padella. Il mare si calma. Lentamente le paperelle si separano e vanno alla deriva sull’oceano verso ecosistemi diversi e lontani. Una si mette a giocare con un delfino a pois, un’altra scambia occhiate provocanti con una foca color mirtillo nel mare verde chiaro. Un orso polare dall’alto del suo iceberg ne concupisce una terza. E così il loro viaggio continua, e ogni paperella incontra un animale diverso e pittoresco: un fenicottero, un pellicano, una tartaruga di mare, un polpo, un gabbiano, una balena. E alla fine chi potrebbe incontrare la decima bestiola di gomma se non una covata di papere vere? “Quack!”, dice mamma papera. “Quack! Quack! Quack!”, rispondono i paperelli. “Squeak!”, fa la papera di gomma. “Premere qui”, dice un bottone sulla sua ala, e se lo fate il piccolo chip a batteria incastonato nella quarta di copertina di Dieci paperelle in alto mare (Mondadori 2006) emette quello che al mio orecchio colpevolmente profano suona come il verso di un cormorano aggrovigliato in una lenza.

Pubblicato nella primavera del 2005, poco dopo l’inizio della mia personale caccia alla paperella, il libro illustrato di Eric Carle è ispirato a un articolo di giornale del 2003 intitolato “Paperelle di gomma smarrite in mare”. “Non ho saputo resistere alla tentazione di trasformare quell’articolo in una storia”, spiega l’autore in una breve nota. “Spero che vi piaccia”. Splendidamente illustrato nello stile tipico di Carle, un misto di tempera e ritagli di carta, è difficile che il libro non piaccia. Alcuni studi hanno dimostrato che i colori primari, i volti sorridenti e i teneri animali di cui abbonda Dieci paperelle hanno il potere quasi narcotico di indurre sentimenti di felicità nel cervello umano. Il mito aveva finalmente trovato, se non il suo Esopo, almeno il suo Disney.

L’età dei giocattoli
“La perdita della fantasia è il prezzo che abbiamo pagato alla precisione”, ho letto una sera in un vecchio numero di Ocean Almanac mentre indagavo sul viaggio dei giocattoli galleggianti, “e oggi possiamo contare su accuratissime mappe di navigazione in scala 1:1.000.000 dell’intero pianeta”. Osservando il paesaggio colorato del mio atlante National Geographic – una meraviglia cartografica ottenuta, vantava la copertina, con immagini satellitari ad alta risoluzione e “complessi algoritmi computerizzati” – non ne ero convinto: la fantasia non mi sembrava estinta e neppure remotamente in pericolo. L’oceano è molto più misterioso per la mia generazione di americani di quanto lo fosse per Melville un secolo e mezzo fa. La maggior parte di noi è più abituata a sfrecciare sopra le nuvole che sulle onde. Quello che i nostri antenati viaggiatori chiamavano vento, noi lo chiamiamo turbolenza, e ci affrettiamo ad allacciare la cintura di sicurezza appena si accende la luce arancione. Burrasca, uragano: quando incontriamo questi termini capiamo solo che il tempo è veramente brutto e ci vengono in mente gli effetti speciali dei film catastrofici o i reportage del tg con le palme rovesciate dal vento come ombrelli. Diventando più precisa e specialistica, la conoscenza dell’umanità è diventata anche più fantasiosa: i mari della mia coscienza brulicano di simboli, immagini e sciocchezze non meno favolose degli animali che scorrazzano ai margini delle antiche carte geografiche. E neppure le foto satellitari e gli algoritmi computerizzati riescono a diradare le nebbie mistificanti delle storie e delle fantasie in cui navigo da quando sono nato.

Non molto tempo fa, sul New York Times la scrittrice statunitense Julia Glass esprimeva il timore che i suoi connazionali, “non sopportando i voli della fantasia”, avessero perso la capacità di farsi trasportare dalle “avventure illusorie” della narrativa, preferendo il trastullo giornalistico della “cosiddetta verità”. Forse, concludeva Glass, “sta prendendo il sopravvento la triste convinzione che l’indomito regno dell’immaginazione appartenga solo ai nostri figli”. Nella primavera del 2005 ero arrivato a una conclusione diversa. Noi adulti, come i fantasiosi prescolari ammirati da Glass, non eravamo forse stati “incoraggiati” dal governo, dai pubblicitari e dagli affabulatori dei telegiornali “a mescolare fatti e finzione”? Milioni di adulti non avevano forse seguito le avventure illusorie di Frodo Baggins e quelle di Donald Rumsfeld? Gli europei nel medioevo dividevano la vita umana in cinque età, e la prima era l’età dei giocattoli. Mi sembra che negli Stati Uniti del ventunesimo secolo l’età dei giocattoli non finisca mai. Ma se l’arte di raccontare storie, vere o false, può trasportarci in avventure illusorie, può anche trasportarci in avventure disillusorie, ed erano queste le avventure che volevo vivere.

La fiera degli oggetti alla deriva
Riuscii a rintracciare telefonicamente Curtis Ebbesmeyer e gli chiesi come fosse finito il viaggio delle paperelle di plastica. Avevo letto che alcune avevano attraversato l’Artico, raggiungendo l’Atlantico del nord nell’estate del 2003. Ce l’avevano fatta? Oh sì, mi assicurò Ebbesmeyer, ce l’hanno fatta. Mi disse che proprio in quei giorni aveva ricevuto una testimonianza molto credibile di un’antropologa del Maine e l’aveva pubblicata nel suo bollettino trimestrale, Beachcomber’s Alert! Promise di mandarmene una copia. Ma, aggiunse, se volevo fare sul serio avrei dovuto seguirlo a Sitka quel luglio. “Non si possono setacciare le spiagge per telefono”, disse. “Devi andare laggiù e dare un’occhiata”.

Dal 2003 Sitka ospita una fiera dei setacciatori presieduta da Ebbesmeyer, che è un po’ guru e un po’ impresario. I ripulitori gli portano gli oggetti che hanno recuperato tra la sabbia e lui cerca, come può, di far luce su queste scoperte. “Tutto ha una storia”, dice. Quando un oggetto lo disorienta, indaga. Alla fiera di quell’anno un pescatore del posto avrebbe portato un gruppo scelto di setacciatori sulle coste selvagge dell’isola di Kruzof, dove erano stati ritrovati alcuni giocattoli. Ebbesmeyer, che avrebbe guidato la spedizione, mi offrì un posto sulla barca. Alaska: montagne innevate, iceberg, balene, spiagge desolate disseminate di paperelle gialle. C’era solo un problema. La fiera sarebbe finita il 25 luglio, e mia moglie e io aspettavamo la nascita di nostro figlio per il primo agosto.

Qualche giorno dopo mi arrivò un pacco postale con il timbro di Seattle. Dentro, stampati su carta azzurra, c’erano alcuni numeri di Beachcomber’s Alert! Sfogliare questa rassegna di ciarpame disparato e arcano era un po’ come setacciare davvero la spiaggia dopo una tempesta. Accanto a storie di vascelli abbandonati e messaggi nelle bottiglie, l’oceanografo aveva pubblicato una raccolta fotografica di curiosità logorate dal mare: galleggianti da pesca giapponesi in corteccia di betulla, il seme a forma di cuore di un albero di baobab, mine terrestri, televisori, una muta da sub strappata, una cassaforte da 180 chili. Molti di questi oggetti ospitavano colonie di lepadi. Alcuni erano così incrostati che sembravano addirittura fatti di queste minuscole creature: una barchetta di lepadi, un guanto da hockey di lepadi. Un numero sconcertante di foto mostrava teste di bambola, tra cui una infilzata su un bastone come un lecca lecca.

Rubber duck lungo il fiume Parramatta a Sydney, Australia, il 10 gennaio 2014. (Jason Reed, Reuters/Contrasto)

Alla fine di un suo articolo intitolato “Dove sono i giocattoli”, Ebbesmeyer aveva riportato la lettera di Bethe Hagens. “Non ci crederete”, aveva scritto l’antropologa, “ma due settimane fa ho trovato una delle vostre paperelle”. Ebbesmeyer le credeva, o forse voleva crederle. La descrizione corrispondeva in ogni dettaglio. Ma Hegens non aveva conservato la prova, e perciò la sua testimonianza rimaneva in dubbio. L’articolo era accompagnato da una cartina del mondo che indicava dove e quando erano stati ritrovati i giocattoli. Davanti alla costa di Kennebunkport, Ebbesmeyer aveva stampato un paio di punti interrogativi grandi come una barriera coral-lina.

Ci sono due modi per arrivare alla città insulare di Sitka: in aereo e in barca. Se avessi potuto seguire i miei sogni, avrei preso in mano l’estremità sfilacciata della fune immaginaria che porta a Gooch Beach e l’avrei seguita per tutti i suoi diecimila chilometri, novello Teseo, navigando oltre il golfo del Maine e attraverso il passaggio a nordovest, lungo la leggendaria via di navigazione che lo storico Pierre Breton ha descritto come “un labirinto di iceberg informi alla deriva”, un “mondo cristallino di azzurro e smeraldo, indaco e alabastro, abbagliante per l’occhio e inquietante per l’anima”, una ”sfavillante metropoli di ghiaccio in movimento”. Secondo il tenente William Edward Parry della marina britannica, che nel 1818 guidò l’Alexander in quel labirinto, le lastre di ghiaccio laggiù somigliano ai monoliti di Stonehenge.

Nell’estate del 2005, il riscaldamento globale si era già dato parecchio da fare per trasformare la metropoli di ghiaccio nel canale di navigazione sognato dagli imperialisti vittoriani. Quel settembre i climatologi avrebbero annunciato che il disgelo estivo aveva ridotto il ghiaccio galleggiante al suo minimo storico. Ma anche un viaggio nell’Artico a bordo di un rompighiacci della guardia costiera era fuori questione se volevo raggiungere Sitka e tornare in tempo per la nascita del mio primo figlio. Così prenotai un posto sul Malaspina, dell’Alaskan Marine Highway, che in realtà non è affatto un’autostrada ma una flotta di traghetti gestita dallo stato. Salpando da Bellingham, Washington, il Malaspina avrebbe raggiunto Sitka cinque giorni prima dell’inizio della fiera dei setacciatori. Ripartendo subito dopo la fine della fiera, sarei arrivato a Manhattan una settimana prima dell’arrivo del bambino. Sempre che non nascesse in anticipo, il che, diceva l’ostetrica, poteva tranquillamente accadere. Mia moglie non era certo entusiasta del progetto, ma accettò a una condizione: al minimo accenno di contrazioni o se le si fossero rotte le acque avrei preso il primo aereo, a qualunque costo.

I segreti di Ebbesmeyer
Sulla strada per Bellingham mi fermai a Seattle per far visita a Curtis Ebbesmeyer. Abitava in un tranquillo quartiere vicino alla Washington university, dove aveva preso la sua specializzazione. La veranda aveva una tenda blu che la riparava dal sole, e sbirciando vidi quattro poltrone da giardino in fila l’una accanto all’altra come per godersi la vista del prato. Ad accogliermi alla porta fu Ebbesmeyer in persona. “Entri, entri”.

Avevo già visto le sue foto sulla stampa e sulle pagine di Beachcomber’s Alert!, dove appariva spesso esibendo una palla da basket macchiata dall’acqua, sollevando un cesto regalo che Taiwan avrebbe cercato di inviare in Cina o contemplando con adorazione quattro paperelle di plastica appollaiate sul suo braccio. Ha la barba bianca, un sorriso a trentadue denti e gli occhi ravvicinati. Gli piacciono le camicie hawaiane e al collo porta sempre una collana che sembra fatta di castagne arrosto: in realtà sono fagioli di mare, i semi di alberi tropicali che le correnti trascinano sulle spiagge. Le sue foto sembravano vignette di Babbo Natale in vacanza.

Alcuni giocattoli avevano preso la rotta per l’oceano Indiano e fatto il giro del mondo

Riempì due tazze di caffè e propose di spostarci nel cortile posteriore, che chiamava il suo “ufficio”. Nel tinello c’erano molti oggetti che avevo visto su Beachcomber’s Alert!: su uno scaffale erano ammucchiate decine di Nike. Alcune erano sopravvissute al naufragio di un container da 40mila paia nel 1990, il primo caso su cui indagò Ebbesmeyer. Altre provenivano da incidenti successivi: 18mila paia di scarpe da ginnastica erano cadute in mare nel 1993 e altre 33mila nel dicembre 2002. A gennaio del 2000 finirono in acqua circa 13mila paia di sandali Nike insieme a diecimila scarpe da bambini e tremila monitor di computer, che galleggiano con lo schermo rivolto verso l’alto e sono molto apprezzati dai lepadi.

La Nike è particolarmente sfortunata in mare: ogni anno finiscono in acqua diecimila suoi container. Ma poche merci tengono il mare e sono facilmente individuabili come le Air Jordan che, con il loro codice di provenienza cucito sulla linguetta, sommerse fino alla caviglia e con i lacci aggrovigliati possono andare alla deriva per anni. Ebbesmeyer aveva tutti i numeri di serie delle scarpe naufragate nel 1990. Ne prese una dallo scaffale e mi insegnò a “leggere la linguetta”: “Vede la carta d’identità?”, chiese. “021012. 02 è l’anno, 10 significa ottobre e 12 dicembre. La Nike le aveva ordinate in Indonesia nell’ottobre 2002 per consegnarle a dicembre”.

Poi tirò fuori un sandalo nero e un suo compagno tagliato a metà. La gomma era attraversata da una striscia gialla seghettata che somigliava a un fulmine, una caratteristica perfettamente riconoscibile. Se Ebbesmeyer avesse scoperto le coordinate del luogo in cui il container era caduto in mare, mi spiegò, i sandali gli avrebbero fornito una valanga di dati preziosi. Ma purtroppo la compagnia di spedizione, per paura di complicazioni legali, lo aveva “boicottato, come al solito”. Ci volle un anno di diplomazia e di indagini prima che Ebbesmeyer scoprisse quando e dove fossero finiti in mare gli animali di plastica. Inizialmente la compagnia di spedizione gli mise i bastoni tra le ruote. Poi un giorno ricevette una telefonata. La nave cargo in questione era all’ancora nel porto di Tacoma.

A patto di non rivelare mai il nome dell’imbarcazione e del suo proprietario, Ebbesmeyer fu accolto a bordo. Rimase quattro ore sul ponte della nave a intervistare il capitano, un cinese “molto garbato” che aveva un dottorato in meteorologia e parlava un ottimo inglese. Il giorno dell’incidente la nave era finita nel bel mezzo di un temporale, con un mare molto agitato, disse il capitano. I dati dell’inclinometro bastano a raccontare la storia. Quando una nave è perfettamente orizzontale sull’acqua, il suo inclinometro dice 0°. Se è completamente rovesciata su un fianco, segna 90°. Ebbesmeyer aveva scoperto che i cavi dei container si spezzano quando una nave beccheggia a più di 35°. E il giorno dell’incidente, quel fatidico 10 gennaio 1992, l’inclinometro registrava una pendenza di 55° a babordo e poi 55° a tri-bordo.

I sargassi della fantasia
Fu così che l’Oscurs poté ricostruire i percorsi seguiti da alcuni degli animali di plastica e produrre una mappa di traiettorie bizzarre che sembravano tracciate a mano da un cartografo paralitico. Partendo dalle diverse coordinate in cui i setacciatori avevano trovato gli animali di plastica, le linee piegavano a ovest convergendo verso il punto di origine, non lontano da dove la linea internazionale del cambio di data incrocia il quarantacinquesimo parallelo. Per di più, i dati raccolti dai setacciatori di Ebbesmeyer permisero al Noaa di James Ingraham di perfezionare il simulatore di correnti introducendo coefficienti come la velocità a cui i giocattoli avevano viaggiato sull’acqua. E i giocattoli, scoprirono i due, filavano veloci, attraversando il golfo dell’Alaska a una media di sette miglia al giorno, due volte più in fretta delle correnti che li spingevano. Fra le altre cose, la simulazione rivelò che nel 1992 quelle correnti si erano spostate a nord, forse in seguito a El Niño.

L’Oscurs poteva non solo ricostruire ma anche prevedere: Ebbesmeyer e Ingraham erano come chiaroveggenti delle onde e il simulatore era la loro sfera di cristallo. Per la loro “derivologia” perfino il mappamondo più sofisticato risulta approssimativo come le carte geografiche del passato: nessuna nube viaggia nei suoi cieli invisibili, la topografia dipinta dei suoi mari vuoti non è turbata dal vento e il ghiaccio polare non si assottiglia né si ispessisce con le stagioni e le ere. Non c’è traccia di “circolazione termoalina”, il movimento verticale degli strati d’acqua causato da variazioni della densità e della temperatura. Il mappamondo è un’illusione di staticità permanente perché è privo di una dimensione cruciale, la dimensione che l’Oscurs doveva ricostruire: il tempo.

Rubber duck dopo essere stata sgonfiata a Hong Kong, il 14 maggio 2013. (Tyrone Siu, Reuters/Contrasto)

Simulando “una media a lungo termine delle correnti geostrofiche non accelerate” (quelle che scorrono in modo costante, anche se non immutabile, come fiumi nel mare) e tenendo conto delle “correnti variabili di superficie, funzioni della velocità e della direzione del vento” (che cambiano rapidamente come il cielo), l’Oscurs riuscì anche a proiettare le traiettorie dei giocattoli nel futuro. Secondo le previsioni della simulazione, alcuni animali erano andati alla deriva verso sud per poi entrare in collisione con la costa delle Hawaii nel marzo 1997 o, più probabilmente, per finire risucchiati nel gyre subtropicale del nord del Pacifico.

Gyre è una bella parola per indicare la corrente in una scodella di minestra”, spiega Ebbesmeyer. “Mescoli la minestra e quella continua a girare per qualche secondo”. La circolazione termodinamica dell’aria, che noi chiamiamo vento, è come un enorme cucchiaio che non smette mai di girare. Il gyre subtropicale del Pacifico del nord ingloba quattro diverse correnti: la corrente della California a sud, quella nordequatoriale a ovest, la corrente Kuroshio a nord e la deriva del Pacifico del nord a est. Viaggia dalla costa dello stato di Washington a quella del Messico, tocca il litorale del Giappone e torna indietro. Alcuni dei giocattoli probabilmente erano sfuggiti all’orbita del gyre, avevano preso la rotta verso l’oceano Indiano e alla fine avevano circumnavigato il globo. Altri dovevano essere finiti nel centro del gyre, dove regna la quiete e un sistema di alta pressione ha creato la cosiddetta garbage patch, “la macchia di spazzatura”, un gorgo grande quasi quanto il Texas. “È come la macchia rossa di Giove”, afferma Ebbesmeyer. “È una delle grandi meraviglie del pianeta Terra, solo che non si vede”.

La stessa quiete ad alta pressione al centro del gyre dell’Atlantico del nord ha dato vita alla leggenda del triangolo delle Bermuda e a quella del mar dei Sargassi, che prende il nome dall’enorme quantità di alghe accumulate lì dalle correnti. “I Sargassi della fantasia”, pensai tra me e me ascoltando Ebbesmeyer che descriveva la macchia di spazzatura. La frase è una citazione dal Giorno della locusta, quando Nathaniel West descrive uno studio di Hollywood ingombro di materiale scenico e allestimenti smantellati.

Lungo le oscure vie dell’Oscurs
L’Atlantico è molto meno profondo e vasto del Pacifico, e le correnti ascensionali di acqua fredda e ricca di sostanze nutrienti alimentano i sargassi e la vita marina. Il centro del gyre subtropicale del Pacifico del nord, che ruota intorno alle acque più profonde del pianeta, è invece una sorta di deserto sottomarino. Se andate a pesca nella garbage patch, probabilmente tutto quello che troverete a parte l’immondizia è il plancton.

Nel 1998, con l’aiuto di Ingraham ed Ebbesmeyer, un ricercatore di nome Charlie Moore si mise a prelevare campioni d’acqua al margine orientale della macchia di spazzatura nel Pacifico del nord, percorrendo un cerchio di 564 miglia, e abbracciando così esattamente un milione di miglia quadrate di oceano. Circa 800 miglia a ovest della California, dove la velocità del vento scendeva sotto i dieci nodi, cominciarono ad apparire mucchi di immondizia. Tra gli oggetti più grandi che Moore e la sua ciurma recuperarono dall’acqua c’erano delle reti da pesca in polipropilene, “un bidone di sostanze chimiche tossiche”, una palla “coperta di lepadi”, un tubo catodico e una bottiglia di varechina da quattro litri “così consumata che si sbriciolò tra le nostre mani”. Gran parte dei rottami trovati da Moore erano già disintegrati. La sua rete a strascico aveva catturato “un ricco brodo di minuscole creature marine mescolate a centinaia di frammenti di plastica colorati”.

Nella simulazione dell’Oscurs solo pochi dei nostri giocattoli finivano in quella “zuppa di plastica e di plancton”. La maggior parte rimaneva a nord, più vicino al punto dell’incidente, intrappolata nel gyre subpolare che circola in senso antiorario tra le coste dell’Alaska e della Siberia. Più piccolo e tempestoso di quello subtropicale del Pacifico del nord, il gyre subpolare non raccoglie grandi quantitativi di spazzatura. Secondo il simulatore i giocattoli galleggianti erano rimasti in orbita, completando ogni tre anni un giro intorno al golfo dell’Alaska e al mare di Bering, fino a quando una tempesta li aveva gettati a riva o dispersi in una delle correnti settentrionali che scorrono attraverso lo stretto di Bering.

Qui l’Oscurs li perdeva: Ingraham non aveva programmato il suo modello per simulare l’Artico. Per seguire gli animali nel ghiaccio, Ebbesmeyer dovette affidarsi a metodi oceanografici più rozzi. Andò in un negozio di giocattoli e comprò qualche decina di bestiole galleggianti nuove di zecca da usare come cavie in vari esperimenti. Chiuse alcuni esemplari nel surgelatore di casa sua per scoprire se il freddo li avrebbe spaccati (non successe). Altri li prese a martellate per vedere quanto ci voleva per farli affondare (parecchio). Anche se squarciati e pieni d’acqua, gli animali di plastica continuavano a galleggiare. Capaci di resistere a cinquantadue cicli di lavaggio in lavastoviglie, quei giocattoli, concluse Ebbesmeyer, potevano sopravvivere anche a dieci anni di vagabondaggi tra i ghiacci. Usando i dati di alcuni esperimenti sulla deriva transartica condotti alla fine degli anni settanta, calcolò che le paperelle galleggianti sarebbero scivolate attraverso il polo Nord a una velocità media di un miglio al giorno. Una volta raggiunto l’Atlantico del nord, il ghiaccio si sarebbe sciolto e le avrebbe liberate nelle acque a est della Groenlandia. Alcune avrebbero incontrato la corrente del Golfo e preso la rotta per l’Europa, altre avrebbero seguito la fredda corrente del sud che scorre accanto a Gooch Beach.

Le reti fantasma sono come un’enorme valanga che uccide tutto quello che trova

Anche se la sua collezione di scarpe poteva trarre in inganno, Ebbesmeyer non aveva trasformato il tinello in un museo di relitti. Collezionava storie e dati, non oggetti. Gran parte dello spazio era occupato da grossi raccoglitori che custodivano una “piccola parte” degli studi che aveva condotto nel corso degli anni. Le etichette sulle cartelle dicevano “Galleggianti da pesca” e “Vichinghi”, “Fitoplancton” e “Bare alla deriva”, “Mulinelli” e “Iceberg”. C’era un intero raccoglitore dedicato a Iside e Osiride, le sventurate divinità egiziane. Ebbesmeyer mi raccontò la tragica fine della loro storia d’amore: “Il fratello di Osiride lo uccise, mise il suo corpo in una bara, gettò la bara nel Nilo e questa riaffiorò 300 miglia a nord del Libano. Sua moglie Iside partì per cercarla e la trovò. È la prima deriva documentata da un punto A a un punto B di cui sia a conoscenza”.

Niente di nuovo sotto il sole
Nel cortile dietro casa sua, seduto in un patio dove un festone di luci natalizie con paperelle di gomma decorava un pergolato di vite e delle campanelle mosse dalla brezza tintinnavano malinconicamente, Ebbesmeyer assunse un tono misticheggiante: “Non c’è niente di nuovo sotto il sole”, mi disse. Prendiamo Osiride. Ancora oggi, quando il Nilo va in piena i detriti seguono la stessa rotta. Neppure l’inquinamento è una novità. Mi invitò a pensare all’eruzione di un vulcano, alle tonnellate di pomice e cenere tossica che finiscono in mare. No, studiando a fondo la storia dei detriti ci si rende conto che oggi una sola cosa è sostanzialmente diversa nell’oceano, solo una cosa è cambiata dai tempi degli antichi egiziani. “Vedi, la pomice assorbe l’acqua e affonda”, mi spiegò. “Ma il 60 per cento della plastica galleggia, e non affonderà mai, perché non assorbe acqua: si frantuma in pezzi sempre più piccoli. Questa è la differenza. Ora ci sono oggetti galleggianti che non affonderanno mai”.

Entrò in casa e tornò un attimo dopo portando quelli che a prima vista sembravano frutti esotici, una nuova varietà di banane, più piatte, o forse di zucchine. Dispose gli oggetti giallastri sul tavolo del patio e disse: “Sono i resti dei galleggianti di reti pelagiche derivanti”. Erano quattro, in vari stadi di decomposizione. L’esemplare conservato meglio era lucido come un osso levigato, il peggiore era butterato come una spugna secca attaccata da uno scalpello. “Questo qui è molto interessante”, disse Ebbesmeyer indicandolo. Interessante significa che portava bene impressa la sua storia, e così anche la storia delle reti pelagiche.

“Le reti pelagiche derivanti sono state vietate dalle Nazioni Unite nel 1992”, cominciò Ebbesmeyer. “Erano reti con maglie larghe dodici centimetri, ma erano lunghe fino a cinquanta miglia. I giapponesi le intrecciavano con pazienza infinita. Negli anni ottanta c’erano quasi mille reti derivanti in acqua ogni notte e facendo qualche calcolo viene fuori che ogni anno filtravano tutta l’acqua fino a 15 metri di profondità. Be’, prendevano tutti i pesci grossi, e chiaramente non potevano continuare a farlo”.

Secondo Ebbesmeyer le reti pelagiche derivanti non erano scomparse dalla circolazione, e non solo perché qualcuno le usava ancora di nascosto. Prima della moratoria, i pescatori ne perdevano ogni anno circa la metà e le reti perdute, mi spiegò, erano ancora sui fondali e continuavano a pescare. “Reti fantasma”, le chiamavano. Quando raccontava storie come questa, Ebbesmeyer sottolineava i fatti più straordinari inarcando le sopracciglia folte dietro gli occhiali. “Quello che succede è che le reti continuano ad acchiappare i pesci, poi i pesci muoiono e dopo qualche tempo le reti diventano vecchie e si arrotolano intorno alla barriera corallina. Allora le onde le trascinano come un’enorme valanga che uccide tutto quello che trova sulla sua strada”. A questo punto Eb-besmeyer mi guardò con gli occhi spalancati e l’aria sbalordita.

Le palle di reti pelagiche killer sono davvero sbalorditive, sembrano uscite da un film dell’orrore di serie B. Sospettando che avesse esagerato, in seguito avevo controllato il racconto di Ebbesmeyer, e forse una rete fantasma non uccide tutto quello che incontra, ma sicuramente fa parecchi danni. Sui giornali si trovano notizie di reti piene di animali putrefatti. Appena tre mesi prima del mio incontro con Ebbesmeyer gli scienziati del Noaa, che perlustrano l’oceano dall’alto con un sistema di imaging digitale, avevano individuato un centinaio di reti fantasma che andavano insieme alla deriva nella macchia di spazzatura. Quando tornarono per prenderle, trovarono palle di dieci metri di diametro. “C’è molta più spazzatura di quanta me ne aspettassi”, ha dichiarato alla Associated Press uno dei ricercatori, James Churnside. Qualche anno prima alcune guardie costiere avevano passato un mese a raccogliere 25 tonnellate e mezzo di reti e detriti, e sulle scogliere intorno all’isola Lisianski, nel Pacifico del nord, avevano ripescato due reti pelagiche derivanti lunghe quindici miglia che pesavano due tonnellate. Quando se n’erano andati, avevano calcolato che dovevano essere rimaste almeno altre seimila tonnellate di detriti ancora avviluppati intorno alle scogliere.

Secondo Ebbesmeyer le reti fantasma possono diventare ancora più pericolose quando si disintegrano. Mentre chiacchieravamo nel suo patio mi ha dato il più vecchio dei suoi galleggianti per reti a strascico. “Tienilo in mano per un minuto”, mi ha detto. Non pesava quasi niente. “Ora appoggialo e guarda”. Il galleggiante mi aveva lasciato sul palmo una piccola traccia gialla, particelle di plastica minute come il polline in cui, secondo Ebbesmeyer, si poteva leggere il destino dei galleggianti e dell’oceano.

Sul prato davanti a casa, mentre me ne andavo, gli chiesi cosa pensasse delle Dieci paperelle in alto mare. Malgrado il cupo futuro che leggeva in quella manciata di polvere di plastica, mi rispose che aveva trovato il libro “incantevole”, soprattutto l’animaletto pigolante nella quarta di copertina. Sperava che potesse rendere l’oceano simpatico ai bambini. Però aveva una critica da fare. Non riusciva a capire perché Carle, come del resto tutti i mezzi d’informazione, avesse sentito la necessità di trasformare tutte le bestiole di plastica in anatroccoli di gomma. Cosa c’era di sbagliato negli altri tre animali? “Forse è una specie di razzismo”, mi disse Ebbesmeyer. “Specismo”.

Quei giocattoli galleggianti non sono più sul mercato, ma prima che me andassi Ebbesmeyer me ne prestò qualcuno di quelli sopravvissuti ai suoi esperimenti. Glieli avrei restituiti alla fine delle mie ricerche. Da allora li porto sempre con me, e anche in questo momento sono appollaiati qui sulla scrivania. Monocromatici e poligonali in stile Bauhaus, non somigliano quasi per niente alle paperelle del libro di Carle e neppure a qualunque altro animale di plastica che io abbia mai visto. Anche se sono fatti di plastica rigida, probabilmente polietilene, sembrano più intagliati nella cera da un artigiano tribale. Le quattro dita delle zampe della rana, la sinistra più piccola della destra, sembrano in posa per una preghiera. Le zampe della tartaruga sono mozziconi triangolari. La testa della papera, troppo grande per il corpicino su cui poggia, è una sfera imperfetta e il becco appiattito si prolunga in una specie di scalpo. Completamente sformato, con il suo spettrale color rosso maraschino, il castoro sembra del tutto fuori luogo in questo zoo, un intruso apparso durante un’allucinazione da Lsd. Una giuntura attraversa asimmetricamente tutti e quattro gli animali, e nel punto in cui passava la cannula per soffiare la plastica c’è perfino una piccola cicatrice, una sorta di ombelico sintetico.

Fantasie di gomma gialla
“Perché sono proprio questi oggetti intorno a noi a fare un mondo?”, si chiede Thoreau in Walden. “Perché l’uomo si ritrova circondato proprio da queste specie di animali, come se solo un topo avesse potuto abitare questa fessura?”. Dopo Thoreau, gli ecologisti hanno spiegato perché proprio quel topo riempie quella fessura, e da allora i boschi di Walden sono diventati molto meno straordinari. Per Thoreau la distinzione tra il mondo naturale e quello creato dall’uomo è meno importante di quella tra l’esperienza soggettiva interiore e il mondo oggettivo esteriore. Per lui, rocce e topi sono entrambi delle ombre guizzanti sulle pareti della mente: l’antropomorfismo è inevitabile. “Tutti gli animali”, scrive, in un certo senso non sono che “bestie da soma, fatte per trasportare una parte dei nostri pensieri”.

Il termine “sintetico”, nell’accezione attuale di “chimicamente non naturale”, è apparso sulla stampa per la prima volta nel 1874, vent’anni dopo la pubblicazione di Walden e cinque anni dopo l’invenzione della celluloide, il primo prodotto sintetico industriale. Nei suoi 137 anni di storia, lo stesso mondo sintetico è diventato una sorta di territorio selvaggio. Con l’eccezione degli altri esseri umani e degli animali domestici, gli oggetti che compongono il mondo intorno a noi sono quasi tutti prodotti dall’uomo. In natura, tanto per fare un esempio, ci sono 142 specie conosciute di Anatidi, la famiglia a cui appartengono anatre, cigni e oche. Solo una di queste specie, l’anatra bianca di Pechino, produce anatroccoli gialli senza macchie. Da quando è stata inventata la plastica, quattro specie di Anatidi si sono estinte e molte altre sopravvivono solo in riserve naturali create per salvarle. Nel frattempo, secondo i calcoli di un collezionista, i fabbricanti di ninnoli e giocattoli hanno ideato più di 5.000 varietà di paperelle: quasi tutte sono gialle e realizzate per lo più non in gomma ma in polivinilcloruro plastificato, un derivato del carbone. Perché l’uomo si circonda proprio di queste paperelle di gomma, potrebbe chiedere un novello Thoreau, come se nient’altro potesse stare altrettanto bene a mollo con lui in una vasca da bagno?

Proviamo a disegnare una vasca da bagno e una paperella di gomma che galleggia sull’acqua. Immaginiamola ballonzolare qua e là. Quale misantropo, quale tetro e imbronciato musone, nell’osservare una paperella galleggiante, non sentirebbe un raggio di pennarello giallo scaldare il suo gelido cuore? Dal punto di vista grafico, il parente più stretto di una papera di gomma non è un uccello o un giocattolo ma la faccia gialla e allegra di uno smiley. Una papera di gomma in effetti è una faccia allegra con corpo e bocca, perché il becco si è trasformato in due grosse labbra carnose coperte di rossetto. Lo smiley e la paperella riducono le espressioni facciali a una sorta di pittogramma. Sono due emoticon. E sono, ovviamente, dello stesso colore: il giallo di un tuorlo d’uovo o del centro di una margherita, una tonalità più scura di un impermeabile giallo e più chiara di un taxi.

Come gli occhi di altri animali, i conigli o i cerbiatti per esempio, e a differenza di quelli di uno smiley, gli occhi di una paperella di gomma sbirciano con aria indifesa dai lati della sua testa sferica. Anche i suoi movimenti sono espressivi, gioiosamente imprevedibili come quelli di una palla che rimbalza o di un ubriaco che balla. Sempre che non si rovesci e non galleggi come un pesce morto, come succede alle paperelle fabbricate più di recente. Si può discutere se queste bestiole ubriache meritino di essere definite giocattoli. Hanno conservato la stessa forma ma hanno perso la loro funzione. Il loro valore è esclusivamente simbolico. Non sono papere di gomma ma la loro rappresentazione in plastica. Sono creature di laboratorio, chimere sintetizzate dal capriccio e dall’avidità negli alambicchi del mercato.

Nei suoi 137 anni di storia il mondo sintetico è diventato una sorta di
territorio selvaggio

Gli apologeti della plastica in certe occasioni sfumano la linea semantica che separa gli antonimi “sintetico” e “naturale”. Tutto è chimico, osservano giustamente, anche l’acqua, anche noi, e la plastica, come ogni creatura vivente, si basa sul carbonio e quindi è “organica”. Ma per me la vera differenza tra sintetico e naturale è di natura più filosofica che chimica. Un babbeo può simboleggiare la pazzia e una papera dondolante può farci ridere, ma la papera e il babbeo esistono al di là dei significati di cui li carichiamo. Un babbeo in realtà non è un pazzo, e una papera in realtà non è un pagliaccio, ha un’andatura poco elegante perché il suo corpo si è evoluto per nuotare. Una paperella di gomma, invece, non è caricata di pensiero: è il pensiero, l’immateriale reso materiale, un oggetto soggettivo, una fantasia tridimensionale.

Primo giorno di viaggio
Una sera, durante la sua trentatreesima settimana di gravidanza, mia moglie e io andammo a un’esercitazione di rianimazione cardiopolmonare pediatrica. Ci sedemmo con gli altri genitori intorno a un tavolo da conferenze pieno di bambini: bambini di polietilene a grandezza naturale, tutti uguali e posati sulla formica come aragoste. La pelle di questi piccoli manichini era color grafite. Persino gli occhi erano grigi e lucenti. Avevano tutti la bocca aperta, e sembrava che annaspassero. Per affrontare un immaginario pericolo di soffocamento, dovevamo tenere il bambino a pancia in giù sul braccio sinistro e dargli dei colpetti sulla schiena con la mano destra. Se i colpi erano troppo forti, la testa vuota si staccava dal collo e rotolava sul linoleum. La mattina dopo la mia visita a Ebbesmeyer, percorrendo la sponda orientale del Puget Sound a bordo del treno diretto a Bellingham, mi venne da pensare che garbage patch somigliava al nome dei pupazzi cabbage patch, e per un attimo mi immaginai migliaia di teste di bambola con la bocca spalancata che ballonzolavano sull’acqua.

L’anziana signora seduta di fronte a me, un’insegnante di chimica del Montana in pensione, mi raccontò che lei e il marito stavano facendo il giro del mondo. Erano stati in tutti i continenti tranne l’Antartide. Mi insegnò a dire “non ho soldi” in norvegese. Mi disse che a Belfast aveva visto un murale che raffigurava un uomo mascherato con un kalashnikov. Mi parlò di suo nipote, che all’Antartide invece c’era stato. Aveva passato una notte a dondolare sulla banchisa in una specie di amaca. Il National Geographic lo aveva definito uno dei più grandi scalatori del mondo. Poi era stato travolto da una valanga in Tibet. Aveva lasciato tre bambini. Mentre ne parlava, la signora sorrise. Dal finestrino dietro di lei, le acque azzurre del Puget Sound balenavano tra le chiazze verdi degli alberi.

Il treno imboccò una curva. Improvvisamente apparvero i container verdi, azzurri e arancione ammucchiati nei vagoni merci fermi sul binario accanto al nostro. I nomi delle compagnie di spedizione erano in tutte le lingue: Evergreen, Uniglory, Maersk. Poi, in una radura, vedemmo una gigantesca gru sovrastare un cargo russo pieno di quelli che sembravano prefabbricati. port of seattle, annunciava un’insegna sulla gru.

Eravamo da qualche parte a est dello stretto di Juan de Fuca. Una volta avevo letto un libro che parlava di Juan de Fuca. Era un marinaio greco della marina spagnola e il suo vero nome era Apostolos Valerianos. Nel 1592 sostenne di aver scoperto l’imboccatura del passaggio a nordovest sul 47° parallelo. Ci aveva messo solo venti giorni per passare dal Pacifico all’Atlantico, dichiarò, e le terre tra i due oceani erano piene di ricchezze. Sebbene la sua storia avesse tutta l’aria di una frottola, per secoli la gente gli credette davvero.

Nessuno sa per certo se il marinaio greco abbia mai visto il Pacifico del nord, ma la sua descrizione del passaggio, allora conosciuto come stretto di Anian, somigliava vagamente all’entrata del Puget Sound, e così oggi lo stretto di Juan de Fuca immortala la memoria di un leggendario bugiardo.

La traversata della Malaspina
Vista dal terminal dei traghetti di Bellingham, la motonave Malaspina è un vero spettacolo, con i suoi candidi ponti scintillanti, una striscia gialla che attraversa lo scafo blu e il suo unico fumaiolo dipinto come la bandiera dell’Alaska, le stelle d’oro dell’Orsa maggiore e la Stella polare sullo sfondo blu. Tutte le motonavi dell’Alaska Marine Highway prendono il nome dai ghiacciai dell’Alaska, e la Malaspina si chiama così in onore del più grande, un altopiano di 2.400 chilometri quadrati che a sua volta prende il nome da un navigatore spagnolo del settecento, Alejandro Malaspina, la cui ricerca del passaggio a nordovest si concluse nel 1791 sul 60° parallelo, in un’insenatura ghiacciata che ribattezzò Bahía del Desengaño, baia della delusione. Mentre trascino la mia valigia sulla passerella, lo splendore della Malaspina diminuisce a ogni passo. Il traghetto, me ne accorgo salendo a bordo, è una carcassa arrugginita ridipinta più volte. In una bacheca accanto alla sala da cocktail si può leggere una sconcertante lettera aperta in cui “i membri dell’equipaggio di ieri e di oggi… danno l’addio a questa nave coraggiosa”. Ammiraglia della flotta quando fu varata, nel 1963, la Malaspina “andrà in disarmo il 27 ottobre 1997”, spiega la lettera. Perché il vecchio traghetto sia ancora in servizio otto anni dopo, il documento nella bacheca non lo spiega.

I motori diesel della Malaspina prendono vita rombando. Sto per salpare! Chi può resistere al fascino dell’imbarco? Al brivido delle avventure sul mare? Non io. La serata è fresca e rinvigorente, il cielo terso tranne una nuvoletta lontana. Le increspature sulla baia di Bellingham sono fitte come un pied-de-poule, complicate da brezze incrociate e da piccole onde che si irradiano dagli scafi delle barche all’ancora. La banchina cade a pezzi. Mi appoggio al parapetto e penso tra me e me: “parapetto”, assaporando l’unione di una cosa e del suo nome. Sul ponte, accanto al solarium in plexiglas dove passerò le prossime tre notti dormendo gratis su una sdraio di plastica, i saccopelisti montano le loro tende e le fissano a terra con del nastro isolante in modo che il vento non le sbatta in mare. In poco tempo sorge un frusciante villaggio di cupole di nylon colorato. Dalle boscose colline di Bellingham, le case guardano verso il porto. Come deve sembrare festoso il traghetto da lassù. Mentre la nave vira e scivola verso l’orizzonte, il sole basso si sposta tra le finestre della città accendendole una dopo l’altra.

La prima notte, davanti alla costa orientale dell’isola di Vancouver, la temperatura scende, cala la nebbia e il mio cellulare non ha più campo. Addio telefonate quotidiane alla moglie incinta. Una sdraio di plastica, scopro, è un pessimo materasso, l’aria fredda filtra tra le assicelle e la coperta militare di cotone che ho affittato per un dollaro è decisamente troppo leggera. Alcuni dei miei vicini di sdraio si trasferiscono all’interno per dormire come profughi sul pavimento coperto di moquette. Affitto una seconda coperta per la seconda notte, ma la differenza non si nota neppure. Tremante e raggomitolato in posizione fetale, penso allo scalatore che si dondolava in amaca sulla banchisa dell’Antartico e mi sento un po’ ridicolo. Dopo due notti nel solarium di una nave da crociera – una nave da crociera per poveri gestita dallo stato, ma pur sempre una nave da crociera – ho già fatto il pieno di avventure.

Joshua il topo
Cos’è l’infanzia? Gli psicologi dell’età evolutiva vi diranno che prima infanzia, infanzia e adolescenza sono stati mentali neurologicamente determinati. Sociologi e storici, invece, ci dicono che l’infanzia è un concetto, diverso dall’immaturità biologica, il cui significato cambia nel tempo. Nel suo fondamentale studio del 1960, lo storico francese Philippe Ariés sostenne che l’infanzia come noi la conosciamo è un’invenzione moderna, in larga misura un sottoprodotto dell’istruzione scolastica. Nel medioevo, quando a scuola non ci andava quasi nessuno, i bambini erano trattati come adulti in miniatura. Nel lavoro e nel gioco, quasi non esisteva una segregazione basata sull’età. “Tutto era permesso in loro presenza”, perfino “il linguaggio volgare, atti e situazioni scabrosi: avevano sentito tutto e visto tutto”. Era il potere, non l’età, a determinare se una persona veniva trattata come un bambino. Fino al diciassettesimo secolo, l’idea europea di infanzia “era legata all’idea di dipendenza: i termini ‘figli’, ‘valletti’ e ‘ragazzi’ erano usati anche nel vocabolario della sottomissione feudale. Si poteva lasciare l’infanzia soltanto lasciando lo stato di dipendenza”. La nostra idea dell’infanzia come di un periodo protetto di innocenza comincia a emergere con il moderno sistema di istruzione, sostiene Ariés. Poiché tra le classi istruite il periodo di dipendenza economica si allungava, si è allungata anche l’infanzia. Ai nostri giorni l’istruzione e la puerilità che ne consegue spesso durano ben oltre i vent’anni.

Dubito che l’infanzia sia mai stata il porto sicuro e baciato dal sole che sognano gli adulti

Ventidue anni dopo la pubblicazione dello studio di Ariés, lo studioso dei mezzi d’informazione Neil Postman nel suo libro La scomparsa dell’infanzia annunciò che l’infanzia moderna come l’aveva descritta lo storico francese si era estinta, uccisa dai mass media che fornivano a tutti i bambini, istruiti o meno, una via d’accesso precoce al mondo violento e sessualmente illecito degli adulti. I bambini esistevano ancora, naturalmente, ma si erano “adultizzati”. Avevo dieci anni quando Postman pubblicò il suo libro e per molti versi la mia biografia è in linea con il suo poco lusinghiero ritratto generazionale. Secondo Postman, l’aumento dei divorzi indicava “una caduta precipitosa dell’impegno degli adulti nell’educazione dei bambini”. I miei genitori si separarono proprio negli anni in cui la percentuale di divorzi in America toccava il suo tetto massimo. Quando mia madre se ne andò definitivamente, io e mio fratello dopo la scuola tornavamo in una casa vuota dove passavamo ore e ore a guardare i programmi televisivi di cui parla Postman. Leggendo la sua diagnosi, mi chiedo se non avesse ragione. Forse la mia infanzia è andata smarrita.

Ma poi penso a Joshua il topo. Un giorno nella scuola dove insegno mi sono fermato ad ammirare una bacheca decorata con topi di carta fatti da una classe di prima. Sopra uno dei topi c’era questa didascalia: “Il nome del mio topo è Joshua. Ha vent’anni. Ha paura di tutto”. Quella didascalia mi ha colpito. Mi piace il modo in cui le due prime frasi, banali, non fanno nulla per prepararci alla rivelazione emotiva della terza. E poi c’è l’età: vent’anni. Che significato occulto possedeva questo numero per il creatore di Joshua? Quando hai sei anni, perfino quelli di otto ti sembrano giganteschi. Un ventenne deve sembrarti misterioso come un dio. E contemplando il povero, omnifobo Joshua, mi sono convinto che i bambini possono impersonare gli adulti, ma non possono mai essere davvero tali. Dubito che l’infanzia sia mai stata il porto sicuro e baciato dal sole di cui sognano gli adulti nei momenti di nostalgia. Sospetto piuttosto che sarà sempre un territorio selvaggio.

“Perché come questo oceano spaventoso circonda la terra verdeggiante”, filosofeggia Ismaele durante la caccia alla balena, “così nell’anima umana esiste una Tahiti insulare, piena di pace e di gioia, ma circondata da tutti gli orrori della vita a metà sconosciuta. Dio ti conservi! Non allontanarti da quell’isola, non potrai tornarci mai più!”. Non potremo tornarci mai più, ma quanto ci proviamo, quanto ci proviamo!

Secondo Postman la televisione non produce solo “bambini adultizzati” ma anche, paradossalmente, “adulti bambinizzati”. A riprova, cita l’assenza di personaggi televisivi che abbiano “un vero interesse per la musica seria” o per “l’apprendimento dai libri” o “perfino il minimo segno di un atteggiamento contemplativo”. Viene da chiedersi cosa direbbe della cultura popolare dei secoli scorsi: le scenette pornografiche dal buco della serratura, i vaudeville grossolani, le danze degli orsi e i combattimenti di galli, i romanzi e i settimanali da un soldo. La grande differenza non mi sembra tanto di qualità, ma piuttosto di quantità: l’intrattenimento oggi è così economico e onnipresente da diventare inesorabile. Perfino il mondo materiale si è trasformato nei “Sargassi della fantasia”. La vita è ancora a metà sconosciuta.

Tra i canali di giada
Il cosiddetto Inside Passage dell’Alaska serpeggia attraverso l’arcipelago di Alexander, una catena di circa mille isole coperte di foreste, alcune piccole come fazzoletti, altre grandi come le Hawaii. In realtà sono le vette di montagne sommerse appartenenti alla stessa catena innevata che si vede sulla terraferma a est. Alcune salgono verticali dall’acqua e si slanciano altissime verso le nuvole. Prima di andarci, pensavo che il sudest dell’Alaska fosse una specie di enorme parco a tema in stile terra di frontiera, e i quartieri commerciali delle città dove si fermano le colossali navi da crociera confermano i miei peggiori timori. Le compagnie turistiche possiedono molte delle aziende in quei quartieri e presto saranno in grado di “immaginovrare”, così dicono quelli della Disney, ogni aspetto della nostra vacanza. Ma le acque stagnanti dell’Inside Passage, troppo basse per i supertransatlantici, ospitano ancora mondi perduti.

Dove il passaggio è particolarmente stretto sembra di navigare lungo un fiume dell’entroterra, una specie di Rio delle Amazzoni del nord. Anche se siamo sul Pacifico, l’acqua non ha l’aspetto, l’odore o il rumore del mare. Non ci sono onde o detriti galleggianti che riescano a superare le isole per penetrare in questo placido specchio segreto. D’estate, correnti di ghiaccio fuso rinfrescano i canali e i minerali che trasportano, danno qui e là ai canali una sfumatura color giada stranamente luminosa. La costa a volte è così vicina che si potrebbe giocare a frisbee con qualcuno sulla riva. Passano ore senza che si vedano altre navi o tracce di civiltà, fatta eccezione per le boe che segnano il passaggio tra le secche.

La mattina presto la nebbia sale a tratti dalle foreste di abeti canadesi, cedri e abeti rossi. Sembra che stiano bruciando dei boschi, se non fosse che la nebbia si muove molto più lentamente del fumo. All’estremità di una montagna, una densa colonna bianca si innalza come un geyser al rallentatore, confluisce in un fiume trasportato dall’aria e poi sbocca in un mare di nubi.

Comincio a notare correnti dappertutto, un universo di vortici e mulinelli. Il fitoplancton segue le stesse correnti oceaniche che hanno portato i giocattoli galleggianti fino a Sitka. Lo zooplancton segue il fitoplancton. I leoni marini, le balene e gli uomini seguono il pesce. Dopo aver risalito i fiumi, quando i salmoni si riproducono e muoiono in massa, le loro carcasse – distribuite da orsi, aquile e altri animali saprofagi – fertilizzano le foreste che creano la nebbia, che cade come pioggia, che cambia la salinità dell’oceano. Tutta l’acqua profonda viaggia lungo quello che gli oceanografi chiamano “il nastro trasportatore”, che comincia con la corrente calda del Golfo e sfocia nell’Atlantico del nord. Qui l’evaporazione aumenta la salinità e fa affondare il nastro sul letto dell’oceano, da dove striscia a sud per confluire nella corrente circumpolare antartica. E dopo mille anni – mille! – il nastro trasportatore finisce qui, nel Pacifico del nord, dove l’acqua millenaria sgorga a fiotti portando con sé sostanze nutritive. Gli oceanografi hanno imparato molto studiando gli isotopi radioattivi rilasciati in mare dagli esperimenti nucleari. Sto diventando un appassionato di derivologia. In piedi sul ponte della Malaspina, perfettamente sobrio, osservando la nebbia che crea forme graziose sugli alberi, decido che l’unica differenza fondamentale tra roccia, acqua, aria, vita, galassie, economie, civiltà e plastica è la velocità di flusso.

Dovunque cerchino, gli archeologi li trovano: bufali dipinti con pigmenti sulle pareti delle grotte, orche intagliate nel legno di cedro o nella pietra, cavalli modellati in terracotta o in paglia intrecciata. La nostra ancestrale paura dei predatori e la nostra fame di prede non bastano a spiegare questo zoo. Tremila anni fa, in Persia, qualcuno intagliò un porcospino nel calcare e lo attaccò a un carrettino. Quattromila anni fa, in Egitto, qualcuno scolpì un topo e lo coprì di smalto azzurro. Perché azzurro? Chi ha mai sentito parlare di un topo azzurro? Sarà per caso l’antenato del castoro rosso e della paperella gialla? Di fatto, molte figurine che oggi ci sembrano giocattoli una volta erano divinità totemiche o semidei usati nelle cerimonie religiose e nei riti funerari. Per confondere ulteriormente i dati archeologici, in certe culture alcuni totem dopo la fine delle festività venivano dati come giocattoli ai bambini.

Una cosa è chiara: gli animali avevano una posizione di rilievo nella vita di bambini e adulti. Anche quando arrivarono i missionari e le tolsero dai templi, le divinità animistiche non sparirono, ma si adattarono al nuovo panorama culturale. Nell’Europa dei secoli bui, uno dei libri più popolari dopo la Bibbia era il “bestiario”, una sorta di guida illustrata all’immaginario medievale in cui gli animali della fiaba e del mito rinascevano come allegorie cristiane. Dai bestiari veniva l’idea che dopo tre giorni un pellicano poteva far risorgere un cucciolo morto con il suo sangue, e sempre dai bestiari si apprendeva che solo una vergine poteva domare un unicorno. E non è un caso se Esopo, sebbene fosse pagano, rimase l’autore prediletto di grandi e piccini fino al seicento inoltrato.

A poco a poco, quando l’allegoria cedette il passo alla zoologia e l’agricoltura all’industria, decidemmo che gli animali erano roba da bambini. “I bambini delle società industrializzate sono circondati da immagini di animali”, osserva John Berger nel suo Sul guardare (Mondadori 2003). Malgrado l’antichità dei giocattoli zoomorfici e “l’interesse apparentemente spontaneo dei bambini per gli animali”, solo nell’ottocento “le riproduzioni di animali diventarono una componente abituale della scenografia dell’infanzia borghese e poi nel novecento, grazie a un’offerta su vasta scala e a sistemi di vendita come quello della Disney, di tutta l’infanzia”. Berger fa risalire questo fenomeno all’emarginazione degli animali, che nell’età dell’industrialismo erano imprigionati come fenomeni da baraccone negli zoo, trattati come materia prima da sfruttare, lavorati come merci negli allevamenti industriali, oppure addomesticati come cuccioli da compagnia. Nel frattempo, gli “animali della mente” che dagli albori della coscienza umana erano stati centrali per le nostre cosmologie venivano mandati a letto senza cena. Animali viventi e immaginari non sembravano più divinità misteriose. Sembravano, sempre più spesso, giocattoli.

Birdwatching nel bosco delle fiabe
Se andiamo a fare birdwatching nelle biblioteche preindustriali della letteratura e del mito, troveremo pochissime papere, ed è sorprendente se si pensa a quanto sono diventate popolari da allora tra gli autori di libri per bambini. Perlustriamo, per esempio, i campi e le foreste di Esopo, dove le bestie parlanti sono gli antenati dei protagonisti delle favole di oggi: troveremo dieci galli, uno stormo di colombe, varie pernici, un uccello canoro in gabbia, sei cornacchie, tre corvi (tra cui uno portentoso e un altro che si detesta), una decina di aquile, cinque taccole (una delle quali però vorrebbe essere un’aquila), molti nibbi, branchi di gru, due cicogne, tre falchi, uno stormo di piccioni, tre galline, un passero affetto da una grave forma di sadismo, cinque rondini, molti pavoni, una ghiandaia che vorrebbe essere un pavone, parecchi cigni, due usignoli, due allodole, due civette, un gabbiano goloso, un tordo intrappolato nel vischio, e neppure una papera.

L’unica differenza tra roccia, acqua, vita, civiltà, galassie e plastica è la velocità di flusso

Le favole di Esopo, come pure quelle di Fedro, dimostrano notevoli conoscenze ornitologiche, ma il loro obiettivo principale è quello di tramutare i comportamenti animali in azioni umane, di caricarli, come avrebbe detto Thoreau, di una parte del nostro pensiero. “Il destino di ciascuno è stato deciso dalla volontà dei Fati”, spiega la dea Giunone a un pavone insicuro in una favola di Fedro: “A te la bellezza, all’aquila la forza, all’usignolo il canto, al corvo auspici favorevoli e alla cornacchia sfavorevoli”. La cosa più simile a una papera a cui si avvicina Esopo è la gallina, che finisce invariabilmente nel piatto.

Perfino la gallina più famosa di Esopo, quella che depone l’uovo d’oro, soccombe al coltello da tavola. In una versione della stessa fiaba raccontata nel Kashmir, la varietà di volatile citata da Esopo diventa l’uccello fortunato Humá, proveniente dal magico mondo aviario di Kob-i-Qáf. Una versione buddista sostituisce la gallina che depone l’uovo con una delle sole papere mitiche che io sia riuscito a trovare, un germano dalle piume d’oro che si rivelerà poi una reincarnazione del Bodhisattva.

In tutte e tre le versioni della fiaba, i beneficiari umani sacrificano il magico uccello sull’altare della loro avidità. Il contadino uccide la gallina, le apre il ventre e non trova nessun uovo. Sognando rupie e rupie, un taglialegna del Kashmir soffoca incidentalmente l’uccello fortunato Humá mentre lo porta al mercato in un sacco. Una famiglia di donne bramine decide di spennare il Bodhisattva e le sue piume d’oro si trasformano in quelle di una gru. A differenza delle altre, la versione buddista racconta la favola dal punto di vista dell’uccello e proprio per questo è particolarmente efficace. La fiaba di Esopo e quella del Kashmir ci mostrano la follia del desiderio umano, e leggendole ci immaginiamo i protagonisti malvagi e maldestri mentre subiscono drammatici rovesci di fortuna. Anche la favola buddista mostra la follia del desiderio umano, ma nello stesso tempo ci fa vivere il prezzo di quella follia, tutta la sofferenza che i nostri appetiti possono causare. Il tono delle frasi finali è più triste che ironico. Cercando di fuggire, l’ex germano d’oro dispiega le sue ali spennate, ma scopre che senza piume non può volare. Chi lo ha catturato lo getta in un barile. Con il tempo le sue piume ricrescono, ma sono semplici e bianche. Così la papera vola via per non tornare mai più.

L’isola degli animali
Quando sbarco dalla Malaspina a Sitka, Tyler e Dean Orbison sono appena tornati da una spedizione di 300 miglia durata due settimane per ripulire Latuya Bay. Fanno queste spedizioni ogni estate spingendosi sempre più lontano, frugando in bunker abbandonati alla fine della seconda guerra mondiale e percorrendo spiagge dove le uniche impronte sulla sabbia sono quelle degli animali. Hanno un cabinato grande appena per dormirci e un canotto per raggiungere la riva. Dalla barca avvistano una costa a forma di V che incanala la marea e si avvicinano per cercare “lo sciangai”, dei tronchi trasportati dalla corrente ammucchiati alla rinfusa come bastoncini. Ma soprattutto cercano un “bel colore”: dei detriti di plastica ben visibili da lontano. Dove c’è un bel colore c’è sicuramente molto da setacciare.

Il lavoro si fa in due. Uno deve restare sul canotto per impedire che si sfracelli contro gli scogli, mentre l’altro raggiunge la riva e la ripulisce. Fanno a turno. Dean preferisce setacciare in superficie, dove cresce il fiore di fuoco e dove le tempeste scagliano gli oggetti così lontano che le maree non riescono a raggiungerli. Invece Tyler, il figlio di Dean, è uno “scavatore”. Come un metal detector umano, ha imparato a intuire la posizione degli oggetti sepolti leggendo il terreno. Quest’anno, per la prima volta Tyler e Dean hanno cominciato a ripulire le grotte vicino al mare, dove i pezzi di legno alla rinfusa formano quasi delle trappole. Nelle grotte è buio e bisogna usare una torcia. È anche freddo, ma sollevare i tronchi è un lavoro che scalda. E comunque ne vale la pena. Ogni grotta perlustrata dagli Orbison conteneva un mucchio di relitti: una bottiglia di detersivo per i piatti, galleggianti da pesca in vetro, giocattoli galleggianti. In una grotta hanno trovato mezza pistola ad acqua, in un’altra la metà mancante. Gli oggetti che trovano più spesso sono le bottiglie d’acqua in polietilene. Conservano i tappi per catalogare le marche. In quest’ultimo viaggio ne hanno individuate 75, molte delle quali straniere. A Latuya Bay hanno visto un lupo nero e le ossa di una balena e hanno raccolto fragoline selvatiche. E per riempire la borsa termica hanno fiancheggiato un ghiacciaio e ne hanno staccato un pezzetto. Ora sono venuti a prendermi in albergo. “Se cresci qui, sei in mezzo al niente”, mi dice Tyler dal sedile posteriore del furgone del padre mentre aspettiamo che i genitori emergano dall’unico supermercato di Sitka. “Voglio dire, non c’è neppure un centro commerciale. Così mi sono dedicato alle attività all’aria aperta”. È chiaro che Tyler non ha mai pensato troppo all’emarginazione degli animali descritta da Berger. Non ci pensereste molto neanche voi se foste cresciuti nel sudest dell’Alaska, dove gli orsi decimano gli animali domestici, i corvi si appollaiano sui cavi facendo saltare la corrente e le aquile a volte piombano sulle finestre della sala da pranzo mandandole in frantumi. Semmai qui sono le persone a sentirsi emarginate. Date un’occhiata alla mappa: Sitka si inerpica sulla punta estrema dell’isola di Baranoff, tra un deserto di montagne a est e un deserto d’acqua a ovest. Gli abitanti di Sitka vivono sull’isola con quasi 1.200 grizzly: più che in tutto il resto degli Stati Uniti. A maggio e a giugno aquile e corvi, le massime divinità del pantheon del popolo tlingit, volteggiano sulle loro teste. A luglio e agosto i fiumi si riempiono di salmoni rossi che vengono a riprodursi. A novembre arrivano le balene e gli studiosi di balene. Quelli come me si addolorano per le lontre marine, un milione e duecentomila, che la Russian American Company separò dalla loro pelliccia nei primi anni dell’ottocento, ma le lontre di Sitka hanno ripopolato il posto con tale entusiasmo procreativo che i pescatori del luogo, a cui distruggono le reti e rubano il pescato, le considerano un autentico flagello.

Il selvaggio di Cape Cod
Come molti setacciatori del Pacifico, gli Orbison hanno cominciato collezionando galleggianti da pesca giapponesi, quelle palle di vetro che a volte si vedono tra le reti appese ai soffitti dei ristoranti di pesce o nelle vetrine delle boutique. La popolarità dei galleggianti di vetro è dovuta in parte alla loro bellezza delicata come una bolla di sapone, in parte alla corrente Kuroshio che le trascina attraverso il Pacifico e le fa rotolare sulle spiagge della costa occidentale degli Stati Uniti, e in parte ad Amos L. Wood, ingegnere aeronautico e setacciatore entusiasta, che con i suoi libri Beachcombing for Japanese floats e Beachcombing the Pacific è diventato quello che Audubon e le sue guide sono per gli appassionati di birdwatching.

Pensarono che il castoro fosse un naufrago solitario, ma in città già si parlava di invasione

Un secolo e mezzo fa i setacciatori erano in genere dei tipi eccentrici e misticheggianti come Ellery Channing ed Henry Thoreau. A quei tempi il litorale del New England era selvaggio come l’Alaska di oggi e ben più infido per le navi di passaggio. Poco prima che Thoreau arrivasse a Provincetown nel 1849, una nave che trasportava emigranti irlandesi affondò davanti a Cohasset. I corpi degli annegati, allineati sulla spiaggia, erano maciullati dalle onde e dai pesci.
“Un naufragio ha più conseguenze di quante possa calcolarne un assicuratore”, osservava Thoreau. “La corrente del Golfo può riportare alcuni sventurati sulle rive del loro paese o lasciarli in qualche grotta sperduta dell’oceano, dove il tempo e gli elementi scriveranno nuovi enigmi con le loro ossa”. Anche se non si erano verificati naufragi, nel 1849 una spiaggia di Cape Cod era “un luogo fetido e selvaggio” ingombro di “granchi, zoccoli di cavallo, cannolicchi e tutto quello che il mare scaglia a riva, un grande obitorio dove i cani affamati scorazzano in branchi e i corvi vengono a spigolare i resti lasciati dalla marea”.

Quando fu coniato, nel 1849, il termine beachcomber, setacciatore, indicava pressappoco quello che noi intendiamo per barbone: evocava un personaggio come il narratore del melvilliano Omoo, un vagabondo buono a nulla fuggito dalla civiltà nella speranza di godersi donne e frutti tropicali e oziare all’ombra delle palme. “Pigro, ubriaco, perdigiorno”, scriveva nel 1845 Edward J. Wakefield, “vaga qua e là senza una meta, non riesce a procurarsi un impiego su una baleniera e da nessun’altra parte perché non è in grado di fare un solo giorno di lavoro e tutti lo conoscono come il Setacciatore”. Gli abitanti di Cape Cod che Thoreau incontrava durante le sue lunghe passeggiate in riva al mare di solito lo prendevano per un venditore ambulante. Cos’altro poteva essere quel vagabondo con un bastone da passeggio e un sacco da montagna pieno di libri?

Gli Orbison si trasformarono da semplici collezionisti in esperti derivologi nell’estate del 1993, quando trovarono i primi giocattoli galleggianti. Tyler all’epoca aveva solo dodici anni. Ma fu lui a trovare il primo animaletto, un castoro, e ricorda con precisione quel momento. “Eravamo sull’isola di Kruzof e cercavamo palle di vetro”, dice. “Non sapevamo cos’altro cercare. Il tempo era bello. Eravamo andati a Kruzof perché la riva è difficile da raggiungere e quando il mare è calmo ne approfittiamo. Eravamo oltre la linea dell’alta marea. Doveva essere lì da un pezzo. E io pensai: che forza! Era scolorito, proprio come i castori che troviamo ora. Probabilmente c’era arrivato con le tempeste dell’inverno”.

Pensarono che il castoro fosse un naufrago solitario, ma quando tornarono in città si sentiva già parlare di una misteriosa invasione. Dean e Tyler andarono a cercare altri animali di plastica e li trovarono. Annotavano scrupolosamente ogni dettaglio, per poter riferire i dati a Ebbesmeyer. Circa tre anni dopo, l’oceanografo cominciò a pubblicare Beachcomber’s Alert! e gli Orbison furono tra i primi abbonati. Conservano ogni numero.

“Curt ci dice cosa cercare e noi lo troviamo”, spiega Dean. Quest’anno su richiesta di Ebbesmeyer hanno cercato e trovato un monitor di computer, guanti da hockey, “antisandali” (un foglio di gomma da cui vengono ritagliate le sagome delle infradito), parte del sonar di una nave e sei nuovi giocattoli galleggianti, compresa una tartaruga che hanno dovuto liberare dal ghiaccio. Dopo aver catalogato i ritrovamenti nella loro veranda e averli fatti vedere a Ebbesmeyer, li porteranno quasi tutti in una disca-rica.

Negli anni settanta, quando ero bambino, le anatre di gomma erano più selvatiche di oggi. Non avevano nulla di iconico o di nostalgico. Alcune anatre di gomma dell’era Nixon erano bianche, altre gialline. Alcune avevano colli come cigni e cerchi rosa sulle guance, altre avevano piume rococò stampate sulle ali e sulla coda. Nessuno le usava per vendere abiti da bambini o sapone. Gli adulti normali non se le regalavano e non le usavano per decorare le scrivanie. Per quel che ricordo, nessuno dei miei conoscenti aveva una paperella di gomma. Io invece ne avevo una, per via del nomignolo che mi aveva dato mia madre: Donovan il paperottolo. La mia paperella era un esemplare piuttosto antipatico, con le piume bianche, una giacca verde, la testa grossa e l’atteggiamento di un pinguino.

Una paperella a Sesame Street
Non molto tempo fa, mia madre mi ha mandato una foto di quando avevo otto mesi: sono seduto nella vasca da bagno nudo di fronte a mio fratello e cerco di rosicchiare il cranio della mia paperella di gomma. La foto è datata gennaio 1973. Da allora gli esemplari più esotici di paperella si sono estinti e le nuove varietà hanno tutte un antenato comune che nel gennaio del 1973 era già avviato alla sua apoteosi popolar-culturale. Tre anni prima, nel 1970, un pupazzo arancione di nome Ernie era apparso sulla Pbs e aveva detto: “Eccomi qua nella vaschetta. E la mia vaschetta è tutta piena d’acqua e soffice schiuma. E ho il sapone e la spugna per lavarmi. E ho una bella spazzola per strofinarmi la schiena. E ho un bellissimo accappatoio morbido per asciugarmi quando avrò finito. Ma c’è un’altra cosa che fa del bagnetto il momento più bello della giornata. E sapete cos’è? È un mio amico molto speciale. Il mio amichetto preferito”, e a questo punto Ernie cercava tra la schiuma e, tenendo tra le braccia la sua paperella gialla, cominciava a cantare.

Su internet si trova un breve video di questa scena. Sulla sinistra dell’inquadratura c’è un palo di legno a cui è appeso un accappatoio rosa. Il palo sembra uscito da un vecchio western. Non c’è altro. Dietro la vasca, che è enorme, decorata con tre margherite rosa e che probabilmente ha le zampe, c’è un fondale azzurro cielo. Bolle di sapone salgono su dal fondo dello schermo e il gorgoglio dell’acqua accompagna la musica. Anch’io da piccolo guardavo sempre i Muppets di Sesame Street, ma preferivo di gran lunga i capitomboli eroicomici di Super Grover alla sorridente bonomia di Ernie, e non ricordo affatto la scenetta con la paperella. Mia moglie, invece, sa ancora a memoria la canzoncina.

“Rubber duckie, joy of joys”, canta Ernie, “When I squeeze you, you make noise/ Rubber duckie, you’re my very best friend, it’s true” (Paperella di gomma, gioia delle gioie, quando ti premo fai rumore/ Paperella di gomma, sei il mio migliore amico, davvero). È tutto così sintetico, così solitario, così immaginario, così pulito. E a quanto pare ai bambini piaceva moltissimo. Nell’episodio pilota di Sesame Street, del 1969, in cui c’era una prima versione della canzoncina della papera, il pubblico di bambini reagì con tanto entusiasmo agli sketch di Ernie e Berte e in modo così freddo alle parti con gli attori in carne e ossa che i creatori del programma rifecero tutto da capo dando il ruolo delle star ai Muppets.

Il bagnetto borghese
Anche se il mezzo era nuovo e i pupazzi di Jim Henson erano capolavori di inventiva, la serenata nella vasca da bagno di Ernie si rifà a un archetipo figurativo che può essere fatto risalire al settecento, quando i ritrattisti britannici smisero di dipingere i bambini come piccoli adulti e li trasformarono in personificazioni dell’innocenza con gli occhi da cucciolo. In epoca romantica l’innocenza non era solo l’antitesi della colpa, era anche l’antitesi dell’età adulta e della modernità. I bambini si trasformarono in piccoli selvaggi nobili e l’infanzia diventò un luogo oltre che un’età, un regno pastorale perduto e immaginario.

È incredibile quanto la storia moderna dell’infanzia somigli a quella degli animali. “Nelle prime fasi della rivoluzione industriale”, scrive John Berger, “gli animali erano usati come macchine. E così i bambini”. Nelle fasi successive dell’industrializzazione i bambini poveri che sfuggivano alla fabbrica spesso finivano in strada, dove formavano quelli che i sociologi della storia chiamano “società infantili”, bande di monelli che – come gatti selvatici – inventavano un ordine sociale tutto loro. In parte per paura delle società infantili, i genitori borghesi cominciarono a trattare i loro figli come cuccioli domestici. Si diffusero le camerette dei bambini, le stanze da gioco e i bauli straripanti di giocattoli.

Nel 1869 John Wesley Hyatt, un tipografo di Albany, nello stato di New York, mescolò della canfora alla nitrocellulosa e inventò la celluloide. Nel 1873 furono importate negli Stati Uniti le prime anatre di Pechino. E negli anni ottanta dell’ottocento le vasche da bagno cominciarono ad apparire nelle case borghesi insieme ai sanitari e agli impianti idraulici. La celluloide finì col diventare l’industria della plastica, l’anatra di Pechino finì col diventare la varietà preferita dagli allevatori e gli anatroccoli gialli diventarono un simbolo familiare della nascita e della primavera. Il bagno americano medio, che una volta consisteva in un mastello e un gabinetto esterno, fu consacrato a tempio della pulizia. Proprio come le moderne camerette dei bambini proteggevano i più piccoli dalla contaminazione sociale della strada, le moderne stanze da bagno proteggevano dai germi i loro corpicini nudi e fragili. Nei primi decenni del novecento, le associazioni per la sanità pubblica e i produttori di sapone, reclamizzato di solito con immagini di bambini grassottelli, esortavano i genitori a lavare spesso i loro piccolini. I maschietti, si pensava, erano istintivamente ostili ai bagni. E i giocattoli non solo rendevano più divertente la pulizia, ma aiutavano a vincere i bassi istinti che il bagnetto poteva suscitare: “Vostro figlio non passerà tanto tempo a manipolarsi i genitali se ha altre cose interessanti da fare”, spiegava nel 1942 un manuale per la cura del bambino pubblicato dal governo. “Fate in modo che abbia un giocattolo e non dovrà usare il suo corpo per svagarsi”. Così entra in scena la paperella di gomma.

È incredibile quanto la storia moderna dell’infanzia somigli a quella degli animali

Gli anatroccoli sono gli equivalenti acquatici di micetti e coniglietti. In effetti, è difficile pensare a un animale capace di nuotare che sia più piccolo e più tenero. La maggior parte delle rane e delle tartarughe della letteratura per l’infanzia sono creature di mezza età, mentre anche in natura gli anatroccoli sono una prole modello: obbedienti, dipendenti, vulnerabili come preda, goffi, morbidi, un po’ tonti. Pensateli mentre dondolano in fila dietro a mamma papera, un’immagine familiare immortalata dal famoso libro per bambini di Robert McCloskey, Largo agli anatroccoli. Le paperelle di McCloskey, disegnate a matita in bianco e nero, sembrano paperelle vere, un po’ stilizzate ma reali. Come le anatre di altri celebri libri per l’infanzia, non somigliano molto alla papera di Ernie. Jemima di Beatrix Potter è un’anatra pechinese bianca con scialle e cappellino. Anche Paperino, il più famoso uccello acquatico di metà secolo, era un’anatra pechinese bianca, ma la papera giocattolo più comune era ancora un vecchio uccello di legno con le ruote al posto delle zampe.

La paperella di gomma riuscì a eclissarlo solo quando la plastica rimpiazzò il legno come materiale più usato per i giocattoli, grazie alle innovazioni tecniche favorite dalla seconda guerra mondiale.

McCloskey pubblicò il suo libro nel 1941. Quello stesso anno, all’inizio della guerra, i due chimici britannici V.E. Yarsley e E.G. Couzens profetizzarono con sorprendente precisione e innocenza curiosamente utopica come sarebbe stata l’infanzia borghese degli anni settanta. “Proviamo a immaginare un abitante dell’era della plastica”, scrivevano nella rivista britannica Science Digest. “Questa creatura della nostra fantasia, questo uomo di plastica, vivrà in un mondo di superfici colorate e vivaci dove le mani dei bambini non troveranno niente da rompere, senza bordi taglienti o angoli che possano graffiare, senza fessure che ospitino sporco o germi, perché i suoi genitori faranno in modo che sia sempre circondato da questo materiale solido, pulito e sicuro creato dalla mente umana. Le pareti della sua cameretta, tutti gli oggetti per il bagno e certe altre necessità della sua piccola vita, tutti i suoi giocattoli, il lettino, il passeggino in cui prende aria, il ciuccio che morde, il biberon infrangibile da cui succhia il latte… tutto sarà di plastica, avrà colori vivaci e sarà decorato con ogni disegno capace di allettare la mente infantile”.

Utopia di plastica
Ecco dunque uno dei significati della paperella. Rappresenta la visione di un’infanzia sicura, a colori vivaci, in cui tutto, perfino gli oggetti per il bagnetto, è stato concepito per attirare i bambini, proprio come il frutto dorato nel famosissimo mito del paradiso “era allettante agli occhi” di un’Eva bambina. Yarsley e Couzens immaginarono anche il resto dell’esistenza dell’uomo di plastica ed è impressionante come la sua vita di adulto non fosse molto diversa dall’infanzia. Crescendo, l’uomo di plastica avrebbe vissuto in una casa arredata con “materiali belli, trasparenti, simili al vetro, di ogni forma immaginabile”, avrebbe avuto giocattoli di plastica (racchette da tennis e attrezzi da pesca) e, “come un mago”, sarebbe stato capace di creare “qualunque cosa”. Eppure c’era un’imperfezione, una smagliatura in questo sogno di nylon. La plastica poteva forse far durare per sempre i piaceri dell’infanzia, ma non poteva rendere immortale l’uomo di plastica. Alla sua morte sarebbe affondato “nella sua tomba, igienicamente racchiuso in una bara di plastica”. Era un’immagine inquietante anche nel 1941: questa morte sterilizzata ricordava troppo la vita sterilizzata che la precedeva. Per cancellare l’immagine di quella tomba di plastica dai pensieri dei loro lettori, i due chimici utopisti iniettarono ancora un po’ di resina in technicolor nelle ultime battute del loro libro. Quando “la polvere e il fumo” della guerra fossero svaniti, la plastica ci avrebbe liberati “dalle tarme e dalla ruggine”, proiettandoci in un mondo “pieno di colori… un mondo nuovo, più brillante, più pulito e più bello”.

Sui genitori cresciuti durante la depressione e la guerra, la fantasia di un’infanzia come paradiso consumistico esercitava un fascino profondo. Sfogliando i numeri di Parents Magazine del 1950, ho trovato una campagna pubblicitaria dei prodotti alimentari per l’infanzia Heinz: “La cucina scientifica dà più gusto, colore e consistenza al passato di carote Heinz”. In una pubblicità rivolta alle neomamme, disegni di farfalle, fate e bambole circondano la foto di una bambina. “Noi creature fatate voliamo su ali di farfalle”, recita il testo, “le bambole parlano una lingua tutta loro e dovunque un bambino posi lo sguardo succede qualcosa di nuovo e meraviglioso… Tuo figlio vive in un mondo magico dove tutto è incantato”. Poi arrivò la televisione, l’incantesimo in scatola. In America le vendite annuali di giocattoli balzarono da 84 milioni di dollari nel 1940 a 1,25 miliardi di dollari nel 1960. Le perline vendute alle bambine per fabbricare gioielli nel 1956 consumarono 20 tonnellate di resina polietilenica al mese. Nel 1958 gli hula-hoop consumarono settemila tonnellate e mezza dello stesso materiale. Il polistirene sostituì il legno di balsa per automobiline e aeroplanini. Il polivinilcloruro plastificato, il materiale delle nuove Barbie, fornì un’alternativa economica e più resistente al lattice, rendendo obsolete le bambole e gli animali di gomma tradizio-nali.

Il giallo della papera gialla
Dopo l’interpretazione di Ernie alla Pbs, la canzone della paperella di gomma si piazzò al sedicesimo posto della classifica. Le radio la trasmettevano, gli adulti la compravano. E a differenza dagli altri personaggi di Sesame Street, la paperella di Ernie non era protetta dal copyright. I produttori l’avevano trovata in un negozio qualsiasi, perciò anche se era diventata un personaggio famoso e un fenomeno musicale, poteva essere usata liberamente da chiunque senza pagare diritti d’autore. Questo significa forse che se Ernie avesse fatto il bagno con una paperella bianca o verde, le paperelle nelle nostre vasche sarebbero bianche o verdi? Non lo so. I fili del caso e quelli del significato sono difficili da sbrogliare. Sulla copertina del disco, Ernie per qualche motivo tiene in mano una paperella bianca a macchie arancioni. Forse, quindi, il messaggio di questa particolare bottiglia è più importante del mezzo. Forse Ernie da solo non basta a spiegare il giallo della paperella.

“Gli ideali di bellezza innocente e di ciò che è adorabile sono cambiati molto poco negli ultimi cento anni”, scrive lo storico Gary Cross. “Oggi molti hanno in comune con la borghesia vittoriana un’attrazione per i bimbi biondi e pasciuti, con gli occhi azzurri e la pelle chiara, e si sentono turbati, indifferenti e persino ostili davanti a bambini scuri, sporchi ed emaciati. Quando le associazioni umanitarie cercano di farci vergognare e strapparci dei soldi per le popolazioni povere, di solito ci mostrano l’immagine di una bambina sorridente con la pelle olivastra, non nera: più vicina al nostro ideale di innocenza”. Perciò forse è proprio come suggeriva Ebbesmeyer. Forse c’è un pregiudizio razziale. È troppo vedere nel giallo della paperella di gomma un ricordo visivo di quell’ideale vittoriano grassottello, con gli occhi azzurri, la pelle chiara e i capelli biondi? Dopo tutto, i veri anatroccoli hanno occhi piccoli e neri, non azzurri come le papere del libro di Eric Carle. Le parole della serenata di Ernie ci dimostrano che la sua paperella è molto simile a un bambino: “Every day when I/ Make my way to the tubby”, canta il coro, “I find a little fellow who’s/ Cute and yellow and chubby!” (Ogni giorno quando faccio il bagnetto/ ho con me un caro amichetto/ tenero, giallo e rotondetto!). Rotondetto o grassottello, giallo o biondo, qual è la differenza?

Tutti i martedì del settimo mese di gravidanza, mia moglie e io frequentavamo un corso di preparazione al parto nel reparto maternità del nostro ospedale. A una parete della stanza era appeso il manifesto di un uovo semischiuso. Contemplandolo nelle lunghe e noiose ore di lezione, cominciai a chiedermi perché avessero appeso proprio quel poster. Doveva confortarci? Preferivamo la sfera bianca e pulita di un uovo al sanguinoso caos mammifero di un corpo che fuoriesce dal grembo ferito di un altro? Sulla parete opposta era appeso un ingrandimento fotografico color seppia di bambini nudi di razze diverse: in fila come una squadra di pompieri lungo uno steccato, sembrava che volessero scavalcarlo, mostrando alla nostra ammirazione i loro sederini grinzosi. I bambini sono sostanzialmente tutti uguali, suggeriscono immagini come quella, indistinguibili come anatroccoli malgrado il colore della loro pelle. Abitano in un mondo prima del sesso, prima della razza, prima della storia, prima del sé, prima dell’umanità. Anche i bambini allora sono bestie da soma, anatroccoli e coniglietti da soma, caricati con gli indispensabili sogni a occhi aperti degli adulti. L’apoteosi della paperella di gomma non sarebbe stata veramente completa fino a quando i bambini che nel 1970 avevano visto quell’episodio di Sesame Street non fossero diventati abbastanza grandi da voltarsi indietro con un senso di desiderio e di perdita.

La folle ciurma del Morning Mist
Stiamo andando a setacciare le coste dell’isola di Kruzof, lungo una spiaggia di pomice alla foce del Fred’s Creek, che nasce in alto sui pendii perennemente imbiancati del monte Edgecumbe e si versa nel Sitka Sound. Anche Curtis Ebbesmeyer è con noi a bordo del Morning Mist, con la sua collana di fagioli di mare e un berretto da baseball decorato con gli adesivi dei bar di Seattle. C’è anche Dean Orbison, con la sua solita felpa a scacchi e un paio di stivali di gomma alti fino al ginocchio. Purtroppo manca suo figlio Tyler, doveva lavorare. Al timone del Morning Mist c’è Larry Calvin, un vivace pescatore con i capelli bianchi e le bretelle.

Quello che gli oceanografi cercano di leggere nelle rotte dei giocattoli è il futuro dell’umanità

È un piccolo imprenditore di sinistra che finanzia il suo hobby della pesca con i profitti ricavati da un’azienda di materiale edilizio. Calvin incarna un individualismo americano che sembra fiorire rigoglioso in quello strano rompicapo demografico che è l’Alaska costiera, un posto rurale e al tempo stesso marittimo, democratico e repubblicano, occidentale e tlingit, industriale e selvaggio. Sul berretto nero di Calvin un pesce guizza sopra il motto freschezza assoluta.

Insieme a noi sul Morning Mist ci sono una decina di studiosi – oceanografi, archeologi, antropologi, linguisti, storici – che sono venuti a Sitka per la conferenza annuale del Path across the Pacific, un convegno accademico che coincide con la fiera dei setacciatori. La teoria alla base della conferenza è questa: il Pacifico fu attraversato in barca decine di migliaia di anni fa, molto prima di quanto si pensava. Alcuni immigrati asiatici arrivarono negli Stati Uniti per sbaglio perché il vento li portò fuori rotta. Alcuni ci arrivarono di proposito a colpi di pagaia costeggiando lo stretto di Bering, spingendosi un po’ più a est a ogni generazione. Si sa relativamente poco di queste antiche migrazioni e sulla rotta per l’isola di Kruzof un oceanografo di nome Thomas Royer mi spiega perché: il livello del mare si è talmente alzato dai tempi dell’ultima glaciazione che i primi insediamenti in Alaska ora si trovano a cento metri di profondità sotto il livello del mare.

Un altro passeggero, un archeologo, ci interrompe per contestare le cifre di Royer. La sedimentazione aggiunge circa un centimetro all’anno al fondo dell’oceano, sostiene l’archeologo, perciò bisognerebbe andare molto più in profondità. Bisognerebbe scendere ad almeno quattrocento metri per trovare i primi manufatti. Le chiacchierate a bordo del Morning Mist sono per lo più cavillose, interdisciplinari ed esoteriche. Quando vennero usate le prima barche? Quarantamila anni fa? Cinquantamila? Come comincia una migrazione, con una massa critica o con pochi esploratori? Come cominciò la prima migrazione? La ricchezza, la fame, un esilio forzato? Le simulazioni al computer di Ebbesmeyer e Ingraham possono aiutare gli archeologi marini a ricostruire le rotte delle migrazioni transoceaniche, la cui storia è inseparabile da quella dei cambiamenti climatici globali. In altri termini, gli oceanografi cercano di leggere il passato e il futuro dell’umanità nelle rotte ingarbugliate dei giocattoli alla deriva.

Guardando da un oblò della mia cabina, Royer mi insegna a leggere la superficie del mare. “Vedi quel tratto calmo laggiù? La temperatura o la salinità cambiano la tensione superficiale dell’acqua, perciò lo stesso vento può incresparla in un punto, ma non in un altro”. Tutte le variazioni sulla superficie sono l’effetto di cause nascoste. Quella che a me sembra semplicemente una distesa d’acqua in realtà è una sorta di topografia acquatica mutevole, come un’enorme lava lamp, però molto più complessa e sottile. Invece di un liquido sospeso in un altro, ci sono pendii di acqua densa e salata e fiumi di acqua leggera e salmastra, e tutto quanto nel corso dei secoli finirà col rimescolarsi. Come in ogni sistema complesso, i minuscoli cambiamenti dell’oceano – nella salinità, nella temperatura e nella pressione – possono provocare eventi climatici grandiosi e imprevedibili. A causa dello scioglimento dei ghiacciai, per esempio, sta diminuendo la salinità della corrente costiera larga 18 miglia che oggi scorre a nord lungo il litorale dell’Alaska, e questo rende l’acqua più fresca e leggera. Ma il livello del mare in Alaska sta scendendo, o così sembra, perché la terra senza il peso del ghiaccio si solleva, come un materasso ad aria che riprende la forma quando vi alzate.

La deriva della modernità
Nella mezz’oretta che ci vuole per arrivare a Kruzof mi sembra di tornare indietro nei secoli. Sitka scompare in una macchia azzurra all’orizzonte. Il mondo qui non doveva essere troppo diverso mille anni fa, penso. Mi ricorda i primi versi della Genesi. Ci sono solo la terra, l’acqua, gli alberi. E poi, al limite della mia visione periferica, una figura arancione piomba giù e si tuffa in mare. È un aquilone. Un aquilone a forma di uccello, e sulla spiaggia ci sono tre figure, un padre e i suoi bambini, con costumi da bagno colorati. Hanno affittato una delle quattro capanne che il National forest service ha costruito sull’isola. Adesso posso vederne anche il tetto, seminascosto tra gli alberi. Qui, nella foresta primigenia ai piedi di un vulcano addormentato, c’è una scena da spiaggia del New Jersey. Larry Calvin ancora il Morning Mist lontano dalla secca rocciosa e fa avanti e indietro per trasportarci a terra un po’ alla volta con la sua barca. Il padre che fa volare l’aquilone lancia un grido di saluto, i bambini ci guardano sospettosi. Ebbesmeyer distribuisce sacchetti dell’immondizia bianchi in cui raccogliere le nostre scoperte. Dean Orbison guiderà un gruppo verso sud. Io mi unisco al gruppo di Ebbesmeyer, diretto a nord.

Cerco di ricordare quello che mi hanno insegnato gli Orbison e Amos Wood. Più avanti, dove la spiaggia curva e forma una mezzaluna, avvisto un bel po’ di sciangai e perfino un po’ di colore: una chiazza di azzurro, una macchia di rosso. Per arrivarci dobbiamo attraversare il Fred’s Creek, che scorre tra gli alberi ricadendo su terrazze di roccia prima di scavare un delta tra gli scogli e la sabbia. Il delta è largo una decina di metri, e chi non ha gli stivaloni ha qualche problema ad attraversarlo. Io salto da una pietra all’altra. Ebbesmeyer, che sembra seguirci con un certo sforzo, non ce la fa a saltare. Si inoltra tra gli alberi e attraversa dove il torrente si restringe. Dopo esserci riuniti, ci avviamo in fila indiana perlustrando la sabbia. Ebbesmeyer si lancia in una delle sue litanie di dati. Le palle da bowling galleggiano, ci informa, o almeno quelle da nove, dieci e undici libbre. Quelle più pesanti affondano. E sapevate che le valve dei molluschi non sono simmetriche? Un suo collega una volta ispezionò i gusci su un miglio di spiaggia. A un’estremità c’erano soprattutto le valve destre, all’altra quelle sinistre. “Le correnti sanno distinguere”.

In Beachcombing the Pacific, Amos Wood raccomanda di “volgere lo sguardo all’orizzonte e di non tenere gli occhi fissi sulla sabbia, perché dopo qualche ora il collo può stancarsi”, un consiglio che sono contento di seguire. Per la prima volta da quando sono arrivato in Alaska a bordo della Malaspina, una settimana fa, le nuvole si sono diradate. Una forte brezza soffia tra le onde spumeggianti. Alla nostra destra sentiamo il suono della risacca, alla sinistra il mormorio degli alberi. Sbirciando in quella direzione, vedo soltanto diverse sfumature scure di verde. Sulla spiaggia ci sono molti sassi. È come camminare su grani di pepe. Gli stivali scricchiolano e io cado in una specie di trance. Anche se la marea lascia solo delle porcherie, anche se i rompicapo nascosti sotto la sabbia possono rivelarsi spesso molto macabri, setacciare le spiagge ha il suo fascino. È piacevole lasciare liberi i sensi. Scoprendo qualcosa sepolto a metà nella sabbia, l’occhio sussulta e l’immaginazione sobbalza. Sulle onde guizza una fiammella d’argento. A un centinaio di metri di distanza, sotto un mucchio di legna portata dalla marea, brilla un piccolo sole caduto. Poi, quando si distinguono meglio gli oggetti si prova un brivido di soddisfazione. La fiammella argentata? Un sacchetto di patatine vuoto. Il piccolo sole? Un frisbee rosso, masticato da un cane. Le stranezze diventano improvvisamente familiari, eppure mai del tutto. Gli oggetti sono irriconoscibili o esotici o misteriosamente incongrui. A volte si scopre che quella bottiglia sbattuta dalle onde non è stata lasciata lì da un campeggiatore ma gettata da una barca della Malesia che attraversava il mare delle Andamane.

Mi rendo conto che è proprio questo che ho cercato negli ultimi mesi, che trovavo incantevolmente enigmatico nell’immagine di quelle paperelle di plastica sul mare: l’incongruità. Dal nuovo mondo abbiamo ricavato un diorama gigantesco, un habitat sintetico, ma viaggiate oltre i suoi margini o guardate con gli occhi di un setacciatore, ed ecco che l’illusione comincia a sgretolarsi.

Secondo Ebbesmeyer quest’anno il setaccio delle spiagge non è andato bene. Dipende tutto dalle tempeste invernali. Ma a me sembra che qui la robaccia abbondi. Mi arrampico sui mucchi di legname trovando il prevedibile assortimento di bottiglie d’acqua, ma anche una vaschetta di gelato in polistirolo, un tubo di plastica, reti di nylon ed enormi pezzi di styrofoam. Ficco tutto nella borsa di Ebbesmeyer.

L’albatro predatore
“Ehi”, dice Ebbesmeyer dello styrofoam, “questo si romperà in miliardi di pezzi. È la roba peggiore. A Seattle non si può riciclare lo styrofoam. Mi fa così incazzare. E allora che ci fai? Vedi tutte quelle piccole celle? Il paradosso è che è fatto di polistirene, che affonda, e loro lo fanno schiumare perché galleggi. È a questo che penso quando vedo quella roba, tutte le montagne di styrofoam, tazze da caffè con lepadi che ci crescono sopra. Vorresti ripulire le spiagge, ma non c’è modo”. Mi parla di un container che ha perso un carico di sigarette con filtro. “Ci sono circa diecimila fibre di polimeri per ogni mozzicone: quanto fa? Dieci alla… circa dieci miliardi di fibre per un solo container”. Le sue sopracciglia si inarcano dietro agli occhiali.

L’uomo di plastica vivrà in un mondo di superfici colorate dove i bambini non potranno rompere nulla

Questo, quindi, è il destino degli animali giocattolo che i setacciatori non riescono a recuperare: cotti dal sole, finiranno in pezzi. I pezzi si ridurranno in schegge, le schegge in particelle, le particelle in polvere, e la polvere in molecole che circoleranno nell’ambiente per secoli. Le stesse caratteristiche che fanno della plastica un materiale superlativo per i giocattoli da bagnetto – così galleggiante! così flessibile! così liscia! così colorata! così igienica! – la rendono anche un inquinante perfetto per i mari. Nessuno sa esattamente quanto tempo può sopravvivere in mare un polimero sintetico. Cinquecento anni è un’ipotesi ragionevole. In tutto il mondo oggi si producono 200 milioni di tonnellate di plastica all’anno, e nessun organismo può digerire una sola molecola di questa roba, anche se sono in molti a provarci, compresi diversi simpatici organismi descritti da Eric Carle nel suo Dieci paperelle in alto mare.

Fortunatamente per loro, nessuna delle paperelle di Carle si imbatte in un albatro di Laysan. Non sarebbe un incontro piacevole. L’albatro di Laysan è probabilmente il plastivoro suicida più vorace di tutto il pianeta. Anche se preferisce i calamari, ingurgita qualunque cosa colorata riesca ad avvistare sulla superficie del mare. I luoghi del Pacifico del nord dove depone le uova sono pieni di detriti di plastica defecati quasi intatti. Nelle aree dove gli albatri fanno il nido sono stati trovati dai tre ai quattro milioni di accendini. Ci sono piccoli di albatro che muoiono di fame a causa dei residui di plastica che i genitori rigurgitano nei loro becchi, e l’intestino degli uccelli adulti può contenerne solo una certa quantità prima di un’indigestione fatale. I naturalisti qualche tempo fa hanno individuato 700 residui di plastica nella carcassa di un albatro trovato nel Pacifico. Dopo aver catalogato i residui, li hanno disposti in un mosaico, un grande mandala di detriti in technicolor che è una meraviglia da osservare. L’altro giorno, durante una conferenza al Rotary Club di Sitka, Ebbesmeyer lo ha fatto vedere in diapositiva. In controluce su uno schermo bianco, sembrava una vetrata. Poi, guardando da vicino, si riconoscevano oggetti familiari disseminati fra le schegge. Due accendini e una dozzina di tappi sembravano quasi nuovi. Fra questi 700 residui potrebbero esserci i resti degli animali di plastica naufragati.

Resti immortali
Da dove viene tutta questa plastica? Container finiti in mare, pescherecci, spiagge invase dai turisti, ma anche fogne e sistemi di drenaggio che scaricano in mare. I tappi abbondano particolarmente nel Pacifico del nord perché sono piccoli e passano attraverso le grate. I palloni che ho smarrito durante l’infanzia, oggi potrebbero rimbalzare nella macchia della spazzatura. Secondo la California coastal commission, un’agenzia di stato indipendente, in ogni miglio quadrato di oceano ci sono 46mila pezzi di plastica visibili, senza contare quelli invisibili cercati da Charlie Moore. Basandosi sui campioni che ha raccolto, Moore calcola che nel gyre subtropicale del Pacifico del nord ci siano tre chili di plastica per ogni mezzo chilo di zooplancton. Zooplancton come la salpa, una specie di pesciolino trasparente e gelatinoso che si alimenta pompando l’acqua ed estraendone le sostanze nutritive, che ingerisce pezzetti di plastica troppo piccoli per catturare l’attenzione degli albatri.

Ma il viaggio dei giocattoli non finirà nel ventre acquoso di una salpa. Molto tempo dopo che la mia chimica organica avrà fertilizzato l’erba, i resti polverizzati di quella mia paperella continueranno a vivere, chimicamente parlando, distribuendo tossine lungo la catena alimentare.

Troviamo i resti di una barca a motore. La barca era già qui l’anno scorso, dice Ebbesmeyer, abbandonata ma ancora intatta. Un anno di onde e di vento ha distrutto il suo scafo in fibra di vetro, e ora sembra che qualcuno l’abbia fatta saltare in aria. Troviamo un grosso pezzo di fibra di vetro e poi, a una ventina di metri, un altro frammento. Mi piacerebbe piazzare una videocamera su una spiaggia come questa e vedere cosa succede in un anno, guardare i tronchi giganteschi che schizzano qua e là e i pezzi di legna che esplodono. Non lontano dal serbatoio della barca troviamo un guantone da baseball che sembra nuovo e poi, vicino al guantone, nella sabbia bagnata riconosciamo la traccia fresca di un orso. La spiaggia finisce in un labirinto di massi bagnati dalle onde, dove le tracce continuano. “Stonehenge per orsi”, dice Michael Wilson, un geoarcheologo canadese. Wilson ci guida tra i massi, parlando ad alta voce. Il vento è alle nostre spalle e immaginiamo che l’orso si terrà a distanza, ma si capisce che Ebbesmeyer è nervoso. E io pure. Cominciamo a lanciare occhiate tra gli alberi. Wilson ha visto qualcosa di grande e azzurro, e corre a vedere cos’è. È un barile di plastica vuoto con la parola “tossico” stampata sul coperchio. Sembra impermeabile. Wilson lo batte come se fosse un tamburo, poi lo solleva in alto e ruggisce come una delle scimmie di 2001 Odissea nello spazio. Vorremmo portarlo con noi invece di lasciarlo qui a decomporsi, ma questo maledetto barile è troppo grosso, e finiamo per abbandonarlo tra le rocce.

L’età della plastica
Un’altra incongruità: nel 1878, nove anni dopo l’invenzione della celluloide, un opuscolo la magnificava come la salvezza del mondo: “Se il petrolio è arrivato in aiuto alla balena”, diceva, ora “la celluloide darà respiro all’elefante, alla tartaruga e al corallo, e non sarà più necessario saccheggiare il pianeta alla ricerca di sostanze che diventano sempre più scarse”. Cento anni dopo, da sostanza miracolosa la plastica si era trasformata in una maledizione tossica. Nel 1968, agli albori del moderno movimento ambientalista, il direttore di Modern Plastics sostenne che la sua industria era stata ingiustamente calunniata. La plastica non era la causa principale del degrado ambientale, scriveva, solo il suo sintomo più visibile. Il vero problema era “la nostra civiltà, la nostra popolazione che scoppia, il nostro stile di vita, la nostra tecnologia”. Paradossalmente, sia l’opuscolo del 1878 sia l’editoriale del 1968 avevano in parte ragione. Il petrolio ha veramente salvato la balena, la plastica ha davvero salvato l’elefante, per non parlare della foresta. Senza di loro la medicina moderna non esisterebbe. I personal computer non esisterebbero. Le auto sicure e a basso consumo non esisterebbero. Per di più, si consumano meno risorse per fabbricare e trasportare tutte queste cose di quante ne sarebbero necessarie con molti materiali alternativi. Perfino gli ambientalisti oggi hanno cose più importanti di cui preoccuparsi. Nell’era dell’informazione la plastica ha vinto. Abbiamo cancellato tutte le preoccupazioni per le reti pelagiche derivanti e i sacchetti della spesa, e le ansie che ancora ci restano le lasciamo al cassonetto con la raccolta differenziata.

Poco importa se solo il 5 per cento della plastica viene riciclato davvero. Poco importa se la plastica consuma circa 400 milioni di tonnellate di petrolio e gas all’anno e se il petrolio e il gas in un futuro non troppo lontano si esauriranno. Poco importa se la cosiddetta plastica verde realizzata con sostanze biochimiche ha bisogno di combustibile fossile per essere prodotta e rilascia gas serra quando si rompe. La cosa più nefasta della plastica è il suo potere di seduzione sulla fantasia, il modo in cui finge di negare le leggi della materia dando la sensazione che qualsiasi cosa si possa creare dal nulla, il fatto che è concepita per essere gettata via ma chimicamente strutturata per durare. Offrendo la falsa promessa dell’usa e getta, di un consumo senza costi, ha contribuito a creare una cultura di dispendiosa finzione, un’economia dell’oblio.

I relitti trovati da Ebbesmeyer e i suoi ripulitori di spiagge non sono solo incongrui, sono misteriosi nel senso freudiano del termine: ci turbano come il ricordo di qualcosa che avevamo rimosso. Come vi diranno Charlie Moore e gli altri oceanografi, il mare non dimentica tanto facilmente. A livello chimico, ricorda. Uno specialista di geochimica ambientale dell’università di Tokyo ha dimostrato che in mare aperto il polietilene si comporta come una spugna tossica che attira e concentra sostanze chimiche galleggianti non idrosolubili come il Ddt e i Pcb, e la plastica stessa contiene una serie di cancerogeni come i Pcb, innocui soltanto finché rimangono inerti. Di recente si è scoperto che alcuni di questi composti sono anche distruttori endocrini, cioè provocano il cambiamento di sesso.

L’American plastics council ha definito “affascinanti” ma non conclusive queste scoperte e molti scienziati condividono questa tesi. Una paperella in Pvc nella vasca da bagno potrebbe essere innocua per vostro figlio, ma nessuno sa come la plastica che sfugge alle discariche stia alterando la chimica dell’ambiente. L’esperimento iniziato oltre un secolo fa è ancora in corso. Intanto Ebbesmeyer teme che la plastica possa fare alla nostra civiltà quello che il piombo fece agli antichi romani. Pensa che la macchia di spazzatura lasci addirittura presagire “la fine dell’oceano”. I mari sono diventati sintetici. Il pianeta è malato. Non può più riciclare i suoi ingredienti o liberarsi degli inquinanti.

Il nuovo mondo è un habitat sintetico, ma oltre i suoi margini l’illusione si sgretola

Alcuni archeologi della nostra spedizione hanno studiato i cumuli di conchiglie che i navigatori preistorici lasciarono sulle coste del Pacifico. L’immondizia spesso dura più dei monumenti e se tra diecimila anni gli archeologi verranno a cercarci troveranno una scia di indizi di plastica. Sarà facile datarci usando i nostri manufatti. Alla velocità con cui bruciamo combustibile fossile, l’era della plastica petrolchimica promette di essere relativamente breve.

Al rientro dalla deriva
Ma io devo ancora arrivare alla fine della mia personale scia di indizi. Vorrei continuare. Vorrei che Larry Calvin mi portasse duemila miglia più a ovest, fino a quel posto al centro del Pacifico del nord dove tredici anni fa un container di giocattoli si rovesciò in mare. Vorrei viaggiare su un cargo durante una tempesta invernale per tornare nella provincia di Guangdong dove operai malpagati fabbricano il 70 per cento dei giocattoli comprati dagli americani – per un valore di circa 22 miliardi di dollari – il 71 per cento dei quali sono di plastica. Ho letto notizie inquietanti sull’industria dei giocattoli cinese, e ora quando leggo Dieci paperelle in alto mare di Eric Carle, che è stato confezionato in Cina, e arrivo alla scena della donna con il vestito color rosso mattone che dipinge becchi color rosso mattone con il suo pennellino, non posso fare a meno di pensare alla fabbrica di giocattoli numero 2 di Huangwu dove, secondo l’associazione non profit China labour watch, per guadagnare il salario legale minimo di 3,45 dollari ogni otto ore di lavoro, un operaio a cottimo del dipartimento verniciatura “deve dipingere 8.920 pezzetti di giocattolo al giorno”, cioè 1.115 l’ora, cioè uno ogni 3,23 secondi.

Gli operai avevano fabbricato le paperelle galleggianti in condizioni paragonabili a queste? Prima di partire per Sitka avevo telefonato alla The First Years, che recentemente è stata venduta. La nuova direzione sembrava essere meno informata di me sui giocattoli galleggianti, o almeno fingeva di esserlo. Non avevano modo di dirmi quale fabbrica avesse prodotto la mia paperella gialla, dissero. Vorrei conoscere la provenienza di tutto. Vorrei seguire a ritroso le paperelle fino alla macchina che le ha stampate, fino all’estrusore di resina, fino alla raffineria di petrolio, fino ai giacimenti petroliferi o alla miniera di carbone all’origine. Ma per il momento devo interrompere la caccia. Nel 1827, tornando da un altro tentativo fallito di trovare il passaggio a nordovest, il tenente Parry apprese che sarebbe presto diventato padre e mandò una lettera alla moglie: “Il successo della mia impresa non è certo essenziale per la nostra gioia, anche se avrebbe potuto aggiungervi qualcosa, ma noi non possiamo, non dobbiamo avere tutto quello che desideriamo”.

Sull’isola di Kruzof mi accorgo che per la prima volta da quando ho lasciato Bellingham il mio cellulare riceve un segnale. Telefono a mia moglie e le dico che ho deciso di tornare a casa prima del previsto, per sicurezza. A una settimana dal mio ritorno, dopo un travaglio difficile durato trenta ore, mia moglie darà alla luce un maschietto, e vederlo e toccarlo farà svanire le mie solite preoccupazioni egoistiche causandomi una sciocca, mistica euforia insonne. Mia moglie piangerà e io con lei. Saranno lacrime di gioia, naturalmente, ma anche di stanchezza e di paura e, a dire la verità, di tristezza. Tenendo per la prima volta mio figlio fra le braccia mi sentirò più piccolo di fronte al mistero della sua nascita e al terribile peso dell’amore. È un peso che richiede fiducia e speranza, e che per questo mi sembrerà troppo pesante da portare, ma me ne farò carico lo stesso.

Nel frattempo sull’isola di Kruzof bisogna attraversare il Fred’s Creek. Stanco e appesantito dalla borsa con i nostri ritrovamenti, Ebbesmeyer fa molta fatica ad attraversare il torrente. Si fa strada con cautela tra gli alberi, appoggia il piede su una pietra semisommersa, ma esita. Ha il respiro corto e non trova l’equilibrio. Il resto del gruppo è andato avanti senza di noi. Io aspetto. “Tirami la borsa”, gli grido. Lui obbedisce e la borsa atterra con un tonfo sulla riva del torrente. Ho conosciuto l’anziano oceanografo solo una settimana fa, ma mi sento stranamente protettivo nei suoi confronti, stranamente filiale. Guardo gli alberi temendo che spuntino degli orsi. Finalmente Ebbesmeyer mi raggiunge e torniamo insieme sulla spiaggia ad aspettare che Larry Calvin venga a prenderci.

(Traduzione di Giuseppina Cavallo)

Questo articolo è uscito il 3 agosto 2007 nel numero 704 di Internazionale. L’originale era uscito sul mensile statunitense Harper’s Magazine, con il titolo Moby-Duck.

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