17 aprile 2020 11:29

Mi chiedevo quando avrebbe riaperto la palestra dove sono iscritto, a Pechino. Ho sempre pensato che sarebbe stato il segnale più chiaro del superamento della crisi sanitaria, o quanto meno della percezione da parte delle autorità che il peggio fosse passato, dato che in quel luogo si suda, si sbuffa, si condividono materassini, attrezzi, spogliatoi, docce.

Ha riaperto il 3 aprile, ma con alcune regole nuove. Innanzitutto non si può essere presenti in palestra più di dieci alla volta, quindi ti arriva quotidianamente, via WeChat, un miniprogramma che consiste nell’orario del giorno dopo, in cui ti inserisci quando vuoi o trovi spazio. Poi bisogna mantenere almeno due metri di distanza all’interno della palestra, indossare la mascherina, spruzzare con il disinfettante l’attrezzo prima e dopo l’utilizzo, non si può fare la doccia. Infine, sono state rimosse tutte le macchine per gli esercizi aerobici – pedalare, correre, camminare, remare – e si possono solo sollevare pesi. Vietato grondare sudore, vietato ansimare.

Così, sono improvvisamente sparite tutte le frequentatrici dedite allo snellimento e sono rimasti solo i frequentatori più nerboruti, nella fattispecie culturisti cinesi e australiani. I cinesi indossano in genere magliette con slogan motivazionali o patriottici, gli australiani con marche di birra, riferimenti al rugby o alla spiaggia: il più coerente tra loro ne indossa una di un torneo di beach-rugby organizzato dalla Qingdao, la marca di birra cinese.

Distanziamento sociale
Visito una fabbrica di attrezzature medicali alla periferia di Pechino, loro hanno riaperto subito dopo la fine del capodanno cinese, a metà febbraio, nel bel mezzo dell’emergenza sanitaria, sebbene gli ordini fossero discontinui e buona parte del personale fosse sparso in tutta la Cina, impossibilitato a rientrare dopo le vacanze.

Combattuta tra esigenze economiche e il terrore di una recrudescenza epidemica, la leadership di Pechino ha molto insistito affinché la macchina industriale cinese riprendesse il prima possibile. I dati sulla crescita del primo trimestre registrano la prima contrazione dal 1976, ultimo anno della rivoluzione culturale: -6,8 per cento, un dato anche peggiore di quanto gli economisti si aspettassero.

Si guarda con preoccupazione a una probabile recessione globale e il governo ha già deciso alcune misure per proteggere l’industria: riduzioni fiscali che dovrebbero alleggerire l’onere per le imprese di 1.600 miliardi di yuan (circa 215 miliardi di euro); sostegno finanziario per 3.550 miliardi di yuan (circa 46 miliardi di euro) da veicolare tramite le banche di stato sotto forma di capitale a basso costo. Tuttavia, secondo 62 analisti intervistati da Reuters, la crescita cinese a fine 2020 sarà al massimo del 2,5 per cento, il dato peggiore dal 1976.

Il fatto è che forse non c’è più tanto bisogno di istruzioni. Il distanziamento sociale ti è già entrato dentro

Qui, in questa fabbrichetta dei sobborghi meridionali di Pechino, il titolare, il signor Zhao Guangyu, naviga a vista, in attesa di avere indicazioni più chiare, un messaggio politico che indichi la direzione da seguire. Passa il tempo esercitandosi con la calligrafia nel suo ufficio, visto che – dice – “non posso viaggiare e non posso andare alle feste”. Mentre su una pergamena scrive in bello stile Yidali jiayou – “forza Italia” – rivendica il fatto che fin dall’inizio lui e la sua azienda fossero preparati ad affrontare la “nuova normalità” dettata dall’epidemia: “La guardia all’ingresso misura la temperatura a tutti e poi bisogna indossare sempre la mascherina”, spiega. “Tutti hanno il dovere di disinfettare la propria postazione di lavoro, la sedia, il tavolo. I reparti e gli uffici sono costantemente ventilati. Abbiamo affisso ovunque i manifesti con le regole sanitarie da seguire e quando i lavoratori sono riusciti gradualmente a tornare, dopo il capodanno, li abbiamo messi in quarantena per una settimana, estendendo poi a due settimane”.

Un po’ meno scienza
La sua assistente mi accompagna in giro per lo stabilimento. Tutto il personale indossa tute protettive e le immancabili mascherine. In mensa, gli operai mangiano con la testa in scatoloni da imballaggio, che sono stati tagliati in due e trasformati in pannelli divisori. Solo quando prendono posto dietro al cartone, possono togliere la mascherina e nutrirsi. Il tasto dell’ascensore si schiaccia usando degli stuzzicadenti infilati in un artigianale supporto di spugna di fianco alla pulsantiera. Piccoli accorgimenti fai-da-te e molto pratici.

La vita sta tornando nel segno di questo “insieme di azioni di natura non farmacologica per il controllo delle infezioni volte a rallentare o fermare la diffusione di una malattia contagiosa” – recita Wikipedia – che a Singapore sembrerebbero diventate una scienza vera e propria, come riporta un articolo di Nikkei Asian Review.

La Cina non è Singapore, anche se forse qualche alto papavero della leadership di Pechino lo vorrebbe, perché qui in fin dei conti è tutto chabuduo, “più o meno”. Il termometro a ultrasuoni con cui mi misurano la temperatura all’ingresso del supermercato segna 33 gradi. All’uscita me la faccio rimisurare per timore di essere morto mentre mi aggiravo tra gli scaffali: 35.9. C’è un forte sospetto che tutti i termometri in giro per la Cina siano tarati al ribasso o non tarati del tutto – siano chabuduo – per evitare scocciature: tai mafan – “che menata”, diremmo noi – è un’espressione sulla bocca di tutti. Bisogna sì, attenersi alle regole che arrivano dall’alto, purché non siano troppo mafan.

E quindi anche il distanziamento sociale che è scienza a Singapore, in Cina è un po’ meno scienza, come i cartoni nella mensa e gli stuzzicadenti di fianco alla pulsantiera dell’ascensore, nella fabbrica del signor Zhao.

Averle viste tutte
L, la mia amica di Wuhan, si è fatta due mesi di isolamento in casa, dal 23 gennaio alla settimana precedente all’8 aprile, quando la città focolaio dell’epidemia è stata di nuovo riaperta al resto della Cina. Suo padre è medico in uno degli ospedali che tra dicembre e gennaio sono stati investiti dal Sars-cov-2, lavora come anestesista, non era a diretto contatto con i malati. Eppure se l’è preso, il virus. Quando l’hanno dimesso dall’ospedale non era ancora completamente fuori pericolo – per sé e per gli altri – ma era necessario fare spazio ad altri malati più gravi. Così, a mali estremi, L ha piazzato il babbo nella panetteria che lei ha aperto come attività collaterale al proprio lavoro in uno studio legale. A serrande chiuse.

Le ho detto che dopo essere stato chiuso a doppia mandata in una panetteria, io uscirei dalla quarantena pesando 120 chili suppergiù. “Ma no“, ha risposto seria, “non c’era il pane, quell’attività è solo una specie di hobby”. Lei e la madre facevano recapitare del cibo all’anestesista recluso con i servizi di pronta consegna. All’inizio di aprile la famiglia si è ricongiunta e sono perfino andati a passeggiare lungo lo Yangtze, portandosi anche la nonna.

In molti negozi di Pechino ci sono segni per terra fatti con il nastro adesivo che marcano le distanze da tenere tra persona e persona, per esempio quando si è in fila alla cassa. Ma se all’inizio dell’epidemia tali distanze erano rigidamente mantenute, ora nessuno ci fa veramente caso. I due metri di distanza in palestra non sono quasi mai rispettati, ma la mascherina, quella sì, se provi a toglierla ti richiamano all’ordine.

Il fatto è che forse non c’è più tanto bisogno di istruzioni. Il distanziamento sociale ti è già entrato dentro, non stai più vicino agli altri, non stringi mani, non abbracci. I cinesi hanno ancora un po’ paura a uscire, mandano avanti noi, gli incauti laowai, e poi naturalmente i vecchi, quelli che non hanno rinunciato al tavolo del mahjong neanche a gennaio, all’apice della crisi. Loro le hanno già viste tutte, hanno sofferto la fame, cosa sarà mai un virus?

Nel 2010, Martín Caparrós scriveva in Non è un cambio di stagione che l’idea egemonica di ordine, nell’epoca che abbiamo vissuto finora, è nordeuropea: “Un ordine di individui. Un ordine di mormorii. Un ordine di colori soavi. Un ordine di silenzi rispettosi. Un ordine di movimenti controllati, moderati”.

Caparrós si chiedeva: “Come sarà, quando arriverà, l’ordine cinese, di grida e spintoni, di moltitudine, di mascheramenti e tranelli, di ori e di rossi?”. Forse il virus ha imposto anche ai cinesi un’idea di ordine nordeuropea, fatta di distanze più che di spintoni? Non lo credo e non lo spero, quindi nella mia Pechino guardo con un misto di timore e speranza alle piccole violazioni del distanziamento sociale.

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