26 giugno 2020 10:49

“Gli parve che la fuga del tempo si fosse fermata, il mondo ristagnava in una orizzontale apatia e gli orologi correvano inutilmente”.
Il deserto dei Tartari, Dino Buzzati

C’è una vecchia barzelletta che descrive bene il rapporto tra l’Italia e le sue carceri. La storia ha per protagonista un detenuto. Da anni l’uomo prova ad ammaestrare due pulci perché spera che lo aiutino a guadagnare qualcosa quando sarà libero. Il giorno che i cancelli si aprono, mette i due animali in una scatola e va in un bar. Seduto a un tavolino, l’ex detenuto prova il suo numero. Funziona. Quando arriva il cameriere, gli dice: “Le vedi queste due pulci?”. Il cameriere non capisce, si mortifica. Pensa che l’uomo voglia rimproverarlo per la poca pulizia del locale. “Mi scusi”, dice. E uccide le pulci.

Tra le migliaia di persone che ogni anno entrano ed escono dal carcere, qualcuno ha un suo numero da provare una volta in libertà; qualcun altro i numeri comincia a darli in cella; certi non hanno mai avuto granché da giocarsi. A tutti viene detto che non ci sono alternative alla prigione. Glielo dicono nella stragrande maggioranza delle carceri, glielo dice la stragrande maggioranza dei politici, glielo dice la stragrande maggioranza della società. E così negli anni le celle si sono riempite fino a contare più di 60mila detenuti per 50mila posti disponibili. Quattro, cinque, sei persone sono state ammassate in pochi metri quadri, mentre fuori un gran coro ha ripetuto che non c’erano alternative.

La pandemia ha mostrato che non è vero. La paura che le prigioni si trasformassero in focolai ha spinto il governo ad approvare in fretta e furia un decreto che ha consentito a chi aveva pochi mesi ancora da scontare, o a chi era stato condannato per reati non gravi, di accedere a pene alternative alla detenzione. L’alternativa, dunque, c’era: c’è sempre stata. In due mesi si sono registrate circa ottomila presenze in meno negli istituti, senza che questo trasformasse l’Italia – come qualcuno ha sempre detto per ingrossare la bolla della paura e del risentimento – in un paese in mano alla criminalità. Dal 1 gennaio al 31 marzo 2020 i delitti sono diminuiti del 29,2 per cento rispetto allo stesso periodo del 2019, a parte l’usura che durante il lockdown è cresciuta del 9,6 per cento.

Il caso di Civitavecchia
Le alternative al carcere ci sono, ma bisogna volerle vedere. Una la porta avanti chi si sforza di trasformare il tempo vuoto passato nelle celle – spesso rabbioso, sicuramente controproducente –, in qualcosa di più produttivo, di più umano. Qualcosa che prepari, accompagni e sostenga il ritorno in libertà di una persona che ha commesso un reato. È un’alternativa difficile da costruire, perché in quasi tutte le 191 carceri in Italia il sistema non fa che perpetuare se stesso – il rumore degli ingranaggi che non funzionano e che stritolano le persone non si sente neanche più, né dentro né fuori. Ecco come funziona: si aprono le celle, si chiudono le celle, si chiedono permessi, si rifiutano richieste. Si alimentano depressioni e si distribuiscono psicofarmaci. In generale si aspetta che i giorni, i mesi e gli anni passino, e infine si liberano persone che si sono incattivite o annichilite. Salvo pochissime eccezioni, questo è la norma della galera in Italia.

Entrambe le cose, la norma e l’eccezione, si possono osservare a Civitavecchia. Nella piccola cittadina sul mare a cinquanta minuti di treno da Roma ci sono due carceri nel giro di sei chilometri e mezzo. Una è una casa circondariale, cioè un posto dove finiscono le persone ancora in attesa di giudizio, quelle condannate a pene inferiori ai cinque anni e quelle che devono scontarne ancora cinque. L’altra è una casa di reclusione, dove vanno i condannati in via definitiva.

Il primo lo chiamano Nuovo complesso, anche se in realtà risale al 1992. Formato da enormi blocchi e lame di cemento, mura alte e recinzioni di ferro, occupa 193mila metri quadrati lungo la via Aurelia. Per raggiungerlo o si prende la macchina o si aspetta un autobus che parte dalla stazione di Civitavecchia ogni due ore e mezza. Avrebbe posto per 350 persone, ma in media negli ultimi anni ce ne sono sempre state più di 500. Nel 2018 duecento si sono fatte male con atti di autolesionismo.

Il secondo porta il nome di Giuseppe Passerini, appuntato ucciso da un detenuto nel 1974. È in via Tarquinia, a pochi passi dal centro e si affaccia sul porto. Voluto da papa Pio IX nel 1864, è uno dei primi penitenziari realizzati nel Regno d’Italia, e ne porta tutti i segni. L’architettura rispecchia infatti i panottici che si costruivano allora, con tanti bracci intorno a un nucleo centrale dal quale si potevano tenere sott’occhio tutti gli ambienti. Ci sono 140 posti, ma i detenuti sono una settantina. Negli ultimi anni non ci sono stati atti di autolesionismo.

Parlando con alcune delle persone che sono state in entrambi gli istituti – la direttrice, due ex detenuti, un poliziotto, una regista teatrale – succede che tutte a un certo punto scuotano la testa. Le architetture e i numeri non gli bastano per esaurire le differenze tra i due luoghi. Devono ricorrere alle proprie storie e alle proprie esperienze per spiegare il tentativo di mettere in pratica delle alternative a un sistema che così per com’è stato ideato e per come ancora si tiene in piedi è inefficace, costoso e lontano dalla funzione riabilitativa della pena prevista dalla costituzione italiana.

Le differenze
Patrizia Bravetti, direttrice dei due istituti di Civitavecchia

Io sono diventata direttrice della Passerini nel 2009, e dal 2017 dirigo anche il Nuovo complesso, che si trova nella periferia della città. Le due strutture sono diverse per molti aspetti.

Nella prima ci sono circa settanta detenuti, mentre nella seconda sono circa 400. Nella Passerini c’è solo chi ha avuto condanne definitive, mentre nel Nuovo complesso tanti stanno attraversando la fase critica del processo, durante la quale devono affrontare spese anche ingenti, oltre che possibili rotture con i propri familiari o amici. È una fase turbolenta, che può durare anche anni, e durante la quale si ingigantiscono ed esasperano i problemi che hanno portato una persona in carcere, che siano legati alla tossicodipendenza o alla violenza.

Un’altra differenza tra le due strutture è negli spazi. Il Nuovo complesso è un carcere classico, la camera rimane aperta per almeno otto ore al giorno. Ci sono orari per tutto, e non si può fare altrimenti.

La regista Ludovica Andò con alcuni detenuti che recitano nel film Fortezza, girato nella casa di reclusione Passerini di Civitavecchia. (Danilo Garcia Di Meo)

Alla Passerini c’è più flessibilità. Un detenuto può scegliere quando andare in palestra o in biblioteca, in barberia, nella sala hobby. E tutti devono prendersi cura di questi spazi. Nell’insieme, questi luoghi formano quasi un piccolo borgo. Un’architettura che ha degli effetti positivi. Il clima è più disteso e collaborativo. Non è che non ci siano regole, anzi, chi sbaglia sa che sarà trasferito. Si lavora molto sulla responsabilizzazione di una persona, aiutandola a fare i conti con la propria storia, con i delitti commessi e con le loro conseguenze. Lo si fa con psicologhe ed educatrici. E poi si fanno corsi, laboratori e collaborazioni con realtà esterne. Alcune delle persone che sono uscite dalla Passerini sono poi rimaste a vivere a Civitavecchia, dove si erano fatte conoscere attraverso progetti di formazione e lavoro. Altre sono tornate dalle loro famiglie.

Naturalmente, ci vuole una scelta di base da parte loro. Se non gli si fa vedere un’alternativa, se non la si costruisce, tenderanno a replicare gli stessi comportamenti che li hanno portati in carcere.

Il lavoro su di sé
Marco Elia, ex detenuto, venditore ambulante

Io sono stato alla Passerini per tentato omicidio. Mi ero separato da mia moglie e c’erano sempre liti tra di noi. Una sera del 2013, alla fine dell’ennesima discussione, le ho tamponato l’auto mentre era a bordo. Non andavo veloce, ma le ho rotto un piede. Il processo è andato male e sono finito in carcere, a 54 anni.

Non era la prima volta. Sono cresciuto nel quartiere Prati, a Roma, in una famiglia senza problemi, i miei genitori lavoravano ed erano affettuosi. I problemi sono cominciati quando ci siamo trasferiti a Ostia e ho conosciuto dei ragazzi con cui ho cominciato a provare di tutto. Per anni mi sono fatto di eroina, e per pagarmela ho fatto furti e rapine. Sono andato avanti così fino ai 18 anni, quando mi hanno beccato e arrestato per furto d’auto. Erano gli anni ottanta, la droga era dappertutto. A tirarmi fuori mi ha aiutato la comunità di don Pierino a Benevello, in provincia di Cuneo. Uscii da lì nel 1987 e cambiai vita.

Marco Elia durante le prove dello spettacolo Fortezza nel teatro della casa di reclusione Passerini di Civitavecchia. (Danilo Garcia Di Meo)

Lavoravo e intanto mettevo su famiglia. Il carcere era un ricordo lontano, ma la verità è che in tutti quegli anni non avevo risolto i problemi che mi ci avevano portato. Li avevo solo sepolti dentro di me, tant’è vero che sono riesplosi nel 2013. Questa cosa, naturalmente, non l’ho capita subito. Quando sono tornato in cella, prima a Regina Coeli e poi al Nuovo complesso, per anni ho avuto degli incubi. Ero grande, intorno a me vedevo tanti ragazzi che facevano gli sbagli che avevo compiuto anche io alla loro età, che si riempivano la testa di stronzate. Non pensavano ad altro che a fare il prossimo reato. Ma del resto, in carceri come quelle, non è che c’è molto altro da fare: il tempo si ferma, la vita diventa una palude, i problemi non si affrontano.

Io ho cominciato a farlo lavorando con la psicologa e con l’educatrice della Passerini. Mi spronavano – a volte provocandomi – ad analizzare la mia storia e i miei errori. Mi facevano vedere le cose da una prospettiva diversa. Un altro tassello importante è stata l’esperienza con la compagnia teatrale di Ludovica Andò.

Il trailer del film Fortezza

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Quando abbiamo lavorato su Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati, mi sono accorto che la storia del sottotenente Giovanni Drogo che passa la vita chiuso in una fortezza, da guardiano e da recluso allo stesso tempo, aveva molti punti in comune con la nostra situazione e a me personalmente mi ha spinto a riflettere parecchio sul passare del tempo in prigione.

Naturalmente, la spinta per fare tutto questo deve venire da dentro e poi bisogna essere forti quando si esce. Spesso si è soli. Per me, per esempio, a 57 anni è durissima. Ma chi mi sta vicino sa che sono cambiato. Il teatro mi ha aiutato a spogliarmi della corazza con cui sono entrato in carcere. Ho imparato a gestire il giudizio degli altri, la mia chiusura, la mia rabbia.

La sfida
Ludovica Andò, regista teatrale

Il teatro sfida le persone che lo fanno. In un ambiente come il carcere può sembrare un’attività marginale, ma in realtà è uno strumento molto utile, che insieme ad altri può costruire un’alternativa educativa e riabilitativa per una persona. È quello che posso dire dopo undici anni di esperienza.

Certo, anche le strutture contano. Lavorare al Nuovo complesso significa farlo con centinaia di persone in attesa di giudizio, quasi sempre in condizioni emergenziali, un vero marasma. Quel carcere, con i suoi colori grigi e le sue linee solo rette, è come se plasmasse il modo di pensare delle persone, irrigidendolo.

La Passerini è un altro mondo, tanto che prima della chiusura per via della pandemia, siamo riusciti a girarci anche un film.

Durante lo spettacolo teatrale Fortezza

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L’idea di lavorare su Il deserto dei Tartari, da cui prima avevamo tratto uno spettacolo teatrale, è stata di Emiliano Aiello ed è stata un’idea un po’ pazza, ma alla fine ha permesso ai detenuti di misurarsi con temi anche non facili, dalla reclusione alla solitudine, dall’assurdità dei regolamenti al confronto con il mondo di fuori.

Il film l’abbiamo girato in 17 giorni ed è la dimostrazione di quello che si può fare in un carcere più aperto. Non trovandosi di fronte a numeri mastodontici, la psicologa e l’educatrice possono seguire meglio le persone, e i progetti per il reinserimento sono più solidi: molti passano la loro giornata fuori a lavorare e poi rientrano la sera, per esempio. E anche le misure alternative sono importanti, perché prevedono un confronto continuo con il mondo esterno e maggiore responsabilizzazione. Per permettere tutto questo è fondamentale anche l’impegno degli agenti. Alla Passerini la polizia penitenziaria collabora con le altre figure perché sa che ci saranno effetti positivi sull’intera struttura, e quindi anche sulle loro giornate.

Regole e responsabilizzazione
Pasquale Olivieri, agente di polizia carceraria

Io ho 48 anni e 29 di servizio. Di carceri ne ho visti tanti. Ho lavorato ad Asti, a Rebibbia, al circondariale di via Aurelia. La giornata lavorativa in strutture grandi è sempre faticosa. Le tensioni con i detenuti sono tante e continue, le cose da fare molte, l’attenzione deve essere sempre al massimo.

Naturalmente l’attenzione è massima anche in strutture come la Passerini, e anche lì ci sono delle regole da rispettare. Ma tutto questo si accompagna a un lavoro di responsabilizzazione.

Il fatto che puoi frequentare la palestra, la sala musica o la biblioteca in orari meno rigidi, e che di questi spazi ti devi prendere cura, rispettando sia i tuoi compagni sia l’amministrazione, aiuta il detenuto a cambiare il modo che ha di pensare. Tanti non ci sono abituati, e questa cosa li destabilizza. Psicologi, operatori e professionisti li aiutano. E poi li preparano a ritornare in libertà.

I conti con il passato
Francesco Montella, ex detenuto, elettricista e autista di mezzi pesanti

È una cosa complicata. Non è che un carcere più aperto risolve tutti i problemi. Non è che il teatro, il gruppo di musica, la psicologa, i corsi di formazione fanno i miracoli. Però sono tutte cose che messe insieme – con il presupposto che dentro di te qualcosa ha cominciato a dire basta, e magari con il pensiero che fuori c’è ancora una famiglia o qualcuno che ti vuole bene – ti fanno crescere e ti fanno cambiare. Di sicuro, il carcere normale non fa niente per evitare di tornare a fare cazzate, anzi.

Prima di andare in scena con lo spettacolo Fortezza nel cortile della casa di reclusione Passerini di Civitavecchia. (Danilo Garcia Di Meo)

Io la prima volta che c’ho messo piede era il 1988, condannato per possesso di droga e di un’arma da fuoco. Avevo 27 anni e quando sono uscito ero ancora più matto. Non ero un santo, ma il carcere ti cambia. È anche una questione di sopravvivenza. Stringi amicizie, parli con gli altri, ti difendi e ti esalti. Impari dai tuoi compagni come si fa questo o si fa quello, fai una specie di gavetta. Quando sono uscito, ero ancora più incazzato di quando sono entrato, e questo ti fa sbagliare. Ho fatto rapine, furti, ricettazioni. Naturalmente m’hanno beccato e le condanne si sono sommate fino ad arrivare a quasi 25 anni di carcere.

Da marzo 2016 sono libero, ma faccio ancora i conti con questo passato, me lo ritrovo davanti ogni giorno. Se mi fermano a un posto di blocco mi smontano la macchina perché dal casellario giudiziario vedono la mia situazione e si insospettiscono. Se mi presento a un colloquio di lavoro mi chiedono il certificato penale. Racconto sempre la mia storia, ma non tutti si fidano.

Se sono cresciuto, in parte è stato anche merito del lavoro con il gruppo di Ludovica Andò. Alla Passerini di Civitavecchia ho dato una mano a realizzare la sala musica. E poi al teatro c’è ancora l’impianto di luci che ho fatto io. Ho anche recitato, e questa cosa ti mette a nudo, devi smettere di fare il duro, lo spavaldo, sei più fragile. E ci devi fare i conti.

I progetti ti aiutano a superare certi momenti duri, a non andare in depressione, a scaricare la rabbia e quello che hai dentro. Sono pezzi di un percorso. La famiglia è un pezzo importante. Per me sono stati fondamentali mio figlio e mia madre. È per loro che ho detto davvero basta, che sono riuscito a sistemarmi da solo questa piccola casa a Torre Spaccata e che penso che anche se certi giorni non mangio, va bene lo stesso, ma non torno a fare la vita di prima.

Certo, bisogna considerare una cosa. In galera tutti ti tendono la mano, ma appena metti un piede fuori, sei di nuovo da solo con te stesso. Sì, ci sono le cooperative che magari all’inizio ti danno una mano. Trovi un lavoro part-time, ma sono 300-400 euro al mese, come vivi? La situazione è complicata per tutti, ma tanti di noi sono persone a rischio, come si dice. Allora ci dovrebbe essere un’attenzione in più. Bisognerebbe che certi percorsi che cominciano in strutture come quella di Civitavecchia poi proseguissero pure fuori.

Da sapere
Fortezza

Girato da Ludovica Andò ed Emiliano Aiello nella casa di reclusione di Civitavecchia, Fortezza (Italia, 2019, 72’) è la rilettura del romanzo Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati. La pellicola è stata selezionata alla Festa del cinema di Roma, al festival di Rotterdam nei Paesi Bassi e a quello di Olhão in Portogallo. Le foto di questo articolo sono state scattate sul set e dietro le quinte dello spettacolo teatrale che ha preceduto le riprese.


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