09 marzo 2021 13:39

Quando a gennaio l’attrice serba Milena Radulović ha parlato pubblicamente degli abusi sessuali subiti da minorenne in una prestigiosa scuola di recitazione di Belgrado, non aveva idea che oltre alle espressioni di solidarietà la sua testimonianza avrebbe provocato una fortissima reazione: la nascita di un corrispettivo balcanico del movimento #MeToo. Anche se nei Balcani occidentali non ci sono ancora né un vero e proprio dissenso organizzato né risposte realmente adeguate a pratiche comunemente accettate di violenza sessuale, il movimento, a poco più di un mese dalla nascita, non mostra segni di indebolimento. La condivisione di esperienze di violenza sessuale potrebbe aiutare a modificare il discorso pubblico su questo problema, ed è anche espressione di una sempre più urgente necessità di cambiamenti di ordine legislativo.

Nella scuola di recitazione frequentata da Milena Radulović si applicavano metodi controversi, era regno di una cultura della brutalità e di regole severe, e agli studenti si richiedeva una dedizione assoluta verso l’insegnante, che diventava una specie di sostituto della figura paterna. Accurate tecniche di grooming (una forma di manipolazione psicologica), che si sono consolidate negli anni, facevano sì che gli studenti fossero pronti, davanti a uno stupro, a negare la propria individualità fisica. Radulović raccontando la sua storia ha scioccato la Serbia e merita un plauso per essere stata disposta, dopo otto anni, a parlare pubblicamente dell’esperienza che la accomuna a molte altre studenti di questa scuola. Lo scorso gennaio a uno degli insegnanti, Miroslav Aleksić, sono stati mossi ben quindici capi d’imputazione dal procuratore capo di Belgrado: otto accuse di stupro e sette di molestia sessuale.

Lo scandalo, al centro dell’attenzione dei mezzi d’informazione, non si è concluso con il caso individuale di Milena Radulović. Si sono scatenati anche i giornali scandalistici che hanno etichettato la scuola di recitazione come “la casa degli orrori”. L’ondata di storie di molestie sessuali che hanno cominciato a moltiplicarsi in rete dopo la confessione dell’attrice suggerisce che questa casa degli orrori è ben lungi dall’essere un caso isolato nel panorama di Belgrado e del paese.

Da più di un mese, ormai, dolorose confessioni di attrici molestate e maltrattate non solo in Serbia, ma in tutti i Balcani occidentali stanno riempiendo le pagine dei giornali. In risposta a questa ondata di notizie, Asja Krsmanović, Ana Tikvić, Nadine Mičić e Matea Mavrak – quattro attrici bosniache e studenti dell’Accademia delle arti dello spettacolo di Sarajevo – hanno dato vita a un’iniziativa Facebook chiamata Nisam tražila (Non l’ho chiesto io). La pagina doveva originariamente raccogliere, sotto forma di contributi anonimi, le testimonianze di esperienze di molestie sessuali di donne (e uomini) che lavorano nel campo delle arti o di qualsiasi altra professione. In pochi giorni, però, decine di migliaia di persone hanno cominciato a seguirla e la pagina ha raccolto un numero senza precedenti di storie individuali di abusi e molestie sessuali commessi non solo nel mondo dello spettacolo, ma anche in numerose istituzioni pubbliche, luoghi di lavoro e università, dalla Croazia al Montenegro. I social network hanno permesso alle persone di esprimersi e condividere la propria storia in modo anonimo. Contemporaneamente, il focus si è rapidamente ampliato ed è passato, partendo dai casi individuali, all’analisi dei problemi più profondi: in una società contraddistinta dalla mancanza di parità tra i sessi, l’abuso sessuale appare come una cosa normale.

Le istituzioni tacciono, ma non le vittime
Non sorprende tuttavia la reazione corale di un’opinione pubblica abituata a pensar male, che preferisce non credere alle vittime e ritenere le loro denunce illegittime perché “tardive”. Questo tipo di atteggiamento non tiene conto del fatto che una vittima è in grado di fare una denuncia solo nel momento in cui si sente pronta e al sicuro. D’altra parte però, lo sviluppo di questo dibattito in Croazia sta mostrando che la tempestività della denuncia da parte della persona abusata non è il problema più urgente. Si scopre che la pratica del silenzio è condivisa dalle istituzioni, come la più grande università nazionale o la televisione pubblica.

Oltre al fatto che segnalare abusi o molestie sessuali è un processo complesso per le persone che li hanno subiti, il tutto è notevolmente complicato da leggi e protocolli obsoleti e inappropriati, a causa dei quali denunciare diventa un vero e proprio terno al lotto. La denuncia penale per molestie sessuali presentata da quindici dipendenti contro l’ex vicedirettore dell’Associazione dei datori di lavoro croata, Bernard Jakelić, è stata respinta perché presentata oltre la scadenza del periodo di tre mesi da quando si erano svolti i fatti. È tuttavia abbastanza chiaro che spesso novanta giorni non sono sufficienti perché la vittima si riprenda, figuriamoci per trovare la forza di denunciare.

Pristina, Kosovo, 8 marzo 2021. Il corteo per la giornata internazionale dei diritti della donna. (Armend Nimani, Afp)

In un contesto del genere, in cui è molto facile respingere le testimonianze delle vittime, si colloca il caso del controverso rettore dell’università di Zagabria, Damir Boras. Come rivelato dalla testata croata Telegram, Boras non solo ha ignorato una dichiarazione scritta da parte di una studente che denunciava di essere vittima di ripetute molestie sessuali, ma ha anche premiato con un’onorificenza il professore accusato. Il rettore sapeva perfettamente chi era la studentessa molestata e chi il professore in questione. Il rettore, già noto per le sue dichiarazioni spesso controverse e misogine, ha prevedibilmente negato e ha colto la palla al balzo per molestare la giornalista che aveva rivelato il caso. Non è arrivato ad accusare pubblicamente la reporter e le vittime (cinque attualmente) di aver architettato insieme il caso, ma ha banalizzato pubblicamente le testimonianze delle donne e si è definito lui stesso vittima di abusi, “non sessuali, grazie a Dio!”.

Altro esempio eloquente è quello del capo della stazione di polizia di frontiera nel villaggio di Konavle, nel sud della Croazia. A sostegno dell’agente di polizia – accusato di molestie sessuali e di atteggiamento discriminatorio da più di cinque colleghe a lui subordinate – si è addirittura svolta una manifestazione a Dubrovnik. Di episodi in cui si crede più ai complotti che alla parola delle vittime è testimone una giornalista, molestata presso la televisione pubblica croata Hrt. La televisione continua a non voler affrontare il caso e considera l’accusa come un deliberato tentativo di danneggiare la sua immagine, presumibilmente in seguito al recente aumento di telespettatori.

All’università di Zagabria, che nel bel mezzo dei recenti eventi ha ricevuto oltre sessanta segnalazioni di abuso sessuale, fortunatamente si possono osservare reazioni diverse e cambiamenti in senso positivo. Per esempio, l’Accademia di arte drammatica di Zagabria e l’Accademia di belle arti hanno pubblicamente incoraggiato le studenti a segnalare i casi di abuso attraverso moduli anonimi. Inoltre, hanno istituito un apposito gruppo di lavoro per raccogliere dati sui casi di abusi e molestie, violazioni dei princìpi di uguaglianza tra donne e uomini con le conseguenti forme di discriminazione. Dallo scoppio della campagna Nisam tražila diversi docenti sono stati sospesi da alcune facoltà, come per esempio un professore della facoltà di veterinaria di Zagabria, accusato di molestie sessuali da nove studenti.

Non è solo un momento
Alcuni mezzi d’informazione locali stanno cercando di paragonare l’attuale dibattito sulle molestie sessuali alla pandemia di coronavirus o al terremoto che più volte nell’ultimo anno ha colpito la Croazia. Ma non è possibile parlare della violenza sessuale come di una pandemia o di una catastrofe inaspettata o del vaso di Pandora. Sarà possibile parlarne in modo appropriato solo del momento in cui questa bomba a orologeria esploderà. “Di momenti simili negli ultimi anni, in cui le persone sono state disposte a parlare di abusi sessuali, ce ne sono stati altri”, dice Lana Bobić, teologa e attivista femminista croata che da molto tempo è in prima linea nel sottoporre all’attenzione pubblica il tema delle molestie sessuali.

Tarana Burke, che è stata la prima a usare la frase MeToo molto prima che fosse trasformata nel famoso hashtag, non ne parla come di un momento, ma come di un movimento (”MeToo is a movement, not a moment”). È opportuno chiedersi dove dovrebbe trasferirsi nei Balcani questo movimento per non estinguersi non appena si sarà placato il vento dello scandalo e quando di conseguenza i giornalisti torneranno a occuparsi d’altro. Oltre a ricordare che la Croazia (così come una serie di paesi vicini) ha firmato diverse convenzioni internazionali in base alle quali la violenza sessuale dovrebbe essere prevenuta, Bobić insiste sulla necessità che tutto ciò sia accompagnato da una forte volontà politica, strumento principale perché si arrivi a una soluzione sistematica del problema.

Bobić elenca tre aree chiave in cui la società dovrebbe essere sistematicamente trasformata. Secondo lei, sono innanzitutto i dipendenti della pubblica amministrazione – polizia, centri di assistenza sociale e tribunali – a non essere sufficientemente informati sul problema della violenza di genere, il che comporta che le vittime spesso vengano di nuovo traumatizzate dall’insensibilità degli operatori. Inoltre, i mezzi di comunicazione, che traggono vantaggio dalle tragedie personali e banalizzano la violenza attraverso un approccio predatorio alle notizie, dovrebbero essere sottoposti a una formazione. In terzo luogo, la Croazia manca completamente di un’educazione sessuale completa e scientificamente fondata, il che, secondo Bobić, potrebbe essere la chiave per prevenire la violenza sessuale e il modo per rendere consapevoli dei meccanismi che la innescano. Sulla spinta dell’iniziativa Nisam tražila, all’inizio di febbraio più di sedici associazioni croate hanno aderito alla petizione per l’introduzione dell’educazione sessuale come materia obbligatoria nelle scuole.

Trasformazione del silenzio
All’inizio del telegiornale della sera, la conduttrice del notiziario in serbo della tv Newmax Adria ha tenuto un simbolico minuto di silenzio per le vittime di violenza sessuale e lo ha concluso dichiarando che nessuno ha il diritto di chiedere alle vittime perché hanno taciuto per così tanto tempo. E ha poi sottolineato che spesso nella vita accettiamo il peso del silenzio, che si tratti di richieste di pagamenti oltre il dovuto, della violenza della polizia durante le proteste o di fiumi avvelenati, e ha quindi invitato il pubblico a sostenere le persone che si sono fatte avanti con le loro testimonianze.

La poeta e femminista afroamericana Audre Lorde ha parlato del potenziale rivoluzionario della trasformazione del silenzio in linguaggio e azione. Nello spirito dell’internazionalismo femminista, nell’ultimo mese i social network hanno di nuovo aiutato a rompere il silenzio, anche in un momento in cui incontrarsi e organizzarsi è più che mai difficile. La campagna Nisam tražila, la cui traiettoria è simile al movimento #MeToo, ha consentito la condivisione democratica e collettiva di esperienze di violenza sessuale non solo da parte di volti noti e mediatici, ma anche da parte di studenti e lavoratori per dare il nome giusto alla natura universale dello sfruttamento.

Coloro che rifiutano il cambiamento per paura di perdere i propri privilegi lo chiamano, per esempio, linciaggio, caccia alle streghe o anche fine del romanticismo. La riflessione seguita alle azioni del movimento #MeToo mostra quanto sia dannoso questo modo di pensare bigotto, che punisce i più deboli – chi osa parlare – e finisce per confermare il dominio dei potenti.

Per questi motivi, la violenza sessuale deve essere ridefinita, perché vengano contemplate tutte le sue forme: dalle molestie in strada a quelle sul posto di lavoro allo stupro. Ma bisogna anche costruire una cultura in cui le vittime e il pubblico siano consapevoli, bisogna lavorare a un linguaggio che permetta loro di articolare chiaramente la propria esperienza dolorosa, e creare le condizioni in cui non abbiano paura di parlare.

La società dovrà farlo per ogni vittima che non ha la stessa forza psicologica ed economica e il sostegno familiare di Milena Radulović: la prima donna a rendere pubblica la sua storia. Serve un supporto sociale per ogni vittima che non è abbastanza forte psicologicamente, come Marija Lukić, che ha lavorato duramente per due anni per dimostrare di essere stata abusata sessualmente, umiliata e manipolata come segretaria del sindaco di una piccola città nel sud della Serbia. Va fatto per ogni madre single che non si può permettere di lasciare il lavoro e che può quindi restare più facilmente imprigionata in un circolo vizioso di sfruttamento da parte del capo-predatore.

Quando la violenza sessuale non sarà più “l’aria che respiriamo”, come ha detto benissimo l’attrice croata recentemente scomparsa Mira Furlan, cioè dove le molestie sessuali sono ritenute la norma e codificate come accettabili; quando non solo permetteremo alle vittime di parlare, ma saremo anche capaci di ascoltarle; quando non sarà più necessario lottare affinché le ingiustizie che subiamo vengano riconosciute come tali; in quel momento allora domande come “perché non l’ha denunciato prima” non si sentiranno più.

(Traduzione di Alessandra Bertuccelli)

L’originale di questo articolo è apparso sul sito di A2larm.

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