06 maggio 2015 16:21
Il regista iraniano Abbas Kiarostami, il 16 marzo 2014. (Joaquin Sarmiento, Afp)

Censurare il cinema, mi dice una nota regista iraniana, “è come cercare di fermare un fiume con il filo spinato”.

Siamo a Teheran, in Iran, nel modernissimo multisala dove si è appena concluso un festival del cinema che ha visto qualche novità. La più visibile è la presenza di Abbas Kiarostami, che ha tenuto il discorso d’apertura in un teatro gremito. È una notizia: cinque anni fa il regista iraniano più noto nel mondo aveva deciso di non girare più film nel suo paese. Aveva perfino chiuso i suoi seminari di cinema e ogni intervento pubblico, contro la censura e le angherie inflitte ai cineasti dal governo dell’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad.

Ora invece Kiarostami accetta l’invito del Fajr international film festival, il più importante (e ufficiale) appuntamento del cinema in Iran, quest’anno sdoppiato con una nuova edizione internazionale. E per la prima volta è stato proiettato ufficialmente a Teheran il suo Copia conforme, girato in Toscana (benché con qualche intervento censorio: le generose scollature di Juliette Binoche sono state sempre sfocate).

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L’intenzione è chiara, l’Iran vuole mostrare al mondo che è capace di dialogare con le sue voci critiche, “riabilitare” i registi colpiti da censura. Il ministro della cultura, Ali Jannati, ha parlato di “diplomazia culturale”: ecco molti film da Asia, Africa, Cina, Russia, qualche film occidentale non hollywoodiano, oltre a molte opere prime di giovani artisti iraniani.

Qui tutti, dal ministro della cultura all’ultimo spettatore, pensano che un accordo con le potenze mondiali sul dossier nucleare sia l’inizio di nuove aperture verso il mondo, anche nella cultura. “Ci sono le sanzioni politiche ed economiche, ma ci sono anche quelle mentali”, mi dice il viceministro della cultura e capo dell’ente di stato per il cinema, Hojatollah Ayoubi: “Molti non vogliono lavorare con l’Iran anche laddove non ci sono embarghi. Ora queste ‘sanzioni mentali’ sono cadute. Tutti lavorano con noi: è una novità”.

In un nuovo segnale d’apertura, da mercoledì è nei cinema di tutto il paese il film Ghesse-ha (Racconti), della regista Rakhshan Bani Etemad, nota per l’attivismo sociale e delle donne: negli ultimi sei anni è stata boicottata dalla censura.

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E però il cinema, la vita culturale, le libertà pubbliche – perfino i centimetri di capelli che spuntano dai foulard femminili – sono da sempre il terreno di scontro privilegiato tra le correnti più conservatrici della Repubblica islamica dell’Iran, e i sostenitori di riforme democratizzanti. Più il governo del presidente Hasan Rohani porta una ventata di apertura nella società, più altri poteri chiudono giornali, censurano libri o film, perseguono giornalisti (il corrispondente iraniano-americano del Washington Post è agli arresti da otto mesi e solo di recente è stata formalizzata un’accusa). I difensori dei diritti civili restano sotto tiro: lunedì è tornata in carcere Narges Mohammadi, avvocata dei diritti civili già condannata per “attentato alla sicurezza nazionale”: era in libertà provvisoria.

“Non lo nego, il cinema iraniano è sottoposto a limiti, ci sono linee rosse invalicabili”, ribadisce il viceministro Ayoubi. “Ci sono problemi. Magari il ministero della cultura autorizza un film e altri gruppi cominciano a dire che non è islamico, che non è accettabile…”. È un’ammissione, ma anche un attacco insolitamente esplicito alle correnti oltranziste.

Ayoubi parla di Jafar Panahi, il regista di recente premiato a Berlino, a cui però è stato ritirato il passaporto dopo un breve arresto nel 2010, seguito da una condanna a sei anni ora sospesa (aveva espresso sostegno alle proteste dopo la rielezione di Ahmadinejad). “C’è un problema con il potere giudiziario. Ma sono in contatto con lui: Panahi fa vita normale, gira i suoi film e li manda ai festival; ma resta il problema con la magistratura, e stiamo cercando di risolverlo”. Ha ragione Fereshteh Taerpour, non si ferma un fiume con il filo spinato.

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