14 maggio 2016 10:53

Tetyana, Svlitana e Marianna stanno per laurearsi in sociologia alla Pontificia università gregoriana. Sono nate e cresciute in Ucraina e hanno vinto una borsa di studio per stranieri grazie a un progetto della facoltà di scienze sociali chiamato Studio Realtà.

Tetyana e Svlitana fanno parte della prima generazione di donne che hanno lasciato il loro paese alla fine degli anni novanta quando, qualche tempo dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica, insegnanti, avvocati, ingegneri, operai, hanno cominciato a percepire salari molto bassi, molto al di sotto del costo della vita, a causa di un’inflazione sempre maggiore. D’altra parte erano anche, per la prima volta, liberi di viaggiare, di conoscere il mondo. Sono partite soprattutto le donne, la maggior parte di loro dirette in Italia, per prendersi cura dei nostri nonni, dei nostri figli, delle nostre case. Donne, in molti casi, con un’istruzione superiore e già un lavoro da professioniste o insegnanti, che spesso lasciavano a casa i loro mariti e i loro figli.

Quando Tetyana mi racconta questa parte di storia e parla dell’emigrazione delle sue connazionali, un’emigrazione al 90 per cento femminile, dettata dall’emergenza economica, usa la parola diaspora, “la diaspora ucraina”.

Tetyana Kuzyk-Tarasenco, laureata in lingue straniere all’università di Gorlivka, quando ha deciso di partire aveva trent’anni e insegnava letteratura inglese a scuola, era separata e aveva una figlia. “Lo stipendio della scuola era di 40 dollari al mese, una lavatrice ne costava 500. Insegnavo inglese e non avevo mai fatto un viaggio in Inghilterra, non potevi neanche permetterti gli strumenti per il tuo lavoro: ho comprato il mio primo computer nel 2003, qui in Italia”.

I primi tempi, a Roma, dava lezioni di inglese e faceva la babysitter. Ma ha da subito usato il suo tempo libero per coltivare altri progetti, continuare a studiare e insegnare. Nel 2006 è stata eletta consigliera aggiunta del comune di Roma per il continente Europa dell’est, ha fondato l’Associazione delle donne ucraine lavoratrici in Italia e la Scuola per bambini ucraini, e ora sta per prendere la sua seconda laurea.

I corsi della scuola si tengono di sabato mattina nelle aule della scuola Luigi Rizzo, vicino alla metro Cipro, e contano circa novanta iscritti: dieci classi che vanno dalla scuola materna alle scuole superiori. Tetyana ci tiene a sottolineare la generosità della scuola (prima li ospitava la Regina Elena) perché i corsi esistono grazie alla volontà delle famiglie e al lavoro volontario delle insegnanti, che durante la settimana fanno le badanti, le domestiche, le segretarie.

Tetyana Tarasenko con sua figlia nella Scuola per bambini ucraini che ha fondato a Roma, aprile 2016. (Simona Pampallona per Internazionale)

Quando è nata, sei anni fa, la scuola era rivolta soprattutto ai figli che alcune mamme erano riuscite a far arrivare in Italia con il ricongiungimento familiare, dopo anni di lavoro qui. Era molto difficile per loro inserirsi, a quell’età, in questo nuovo contesto. Era stato difficile vivere senza le madri, difficile ritrovarle dopo anni, difficile, per molti di loro, vederle nel ruolo di domestiche, spesso ad abitare nella casa delle famiglie per cui lavoravano.

Così la scuola permette di continuare a studiare nella loro lingua, di avere alla fine anche il diploma ucraino, mentre frequentano la scuola italiana. Tetyana è convinta dell’importanza del mantenimento dei rapporti con il paese d’origine perché, dice, non è detto che la scelta fatta dalle madri vada bene anche ai figli, che hanno il diritto di poter scegliere dove stare. Sua figlia, che è riuscita a portare in Italia dopo tre anni, quando ne aveva 13, oggi ne ha 26 e per il momento sembra intenzionata a restare. La scuola è stata creata anche in altre città italiane: Caserta, Avellino, Reggio Emilia; per gli esami, che sono semestrali, gli studenti si ritrovano tutti nella sede di Roma, dove arriva una commissione apposita dall’Ucraina.

Le donne ucraine trovano che l’italiano sia una lingua relativamente facile da imparare

Il sabato in cui andiamo a trovarli a scuola si festeggia il compleanno del poeta nazionale: Taras Ševčenko. I bambini e le bambine indossano le camicie tradizionali, bianche con dei fiori colorati ricamati, recitano le sue poesie, ridono e scherzano con noi. Tranne uno, che passa tutto il tempo con la testa appoggiata sul banco, le mani a coprirgli la faccia, perché sua madre si è scordata di portargli la camicia.

Poi, nel piccolo teatro della scuola, si radunano alunni e madri, per un momento di riflessione sul conflitto che lacera il paese dal novembre del 2013. Si ricorda Nadezhda Savchenko, pilota ucraina che nel marzo scorso è stata condannata a 22 anni di carcere, in Russia, perché accusata di aver partecipato all’uccisione di due giornalisti russi. Tetyana, che è appena stata lì per una conferenza, mi dice che “adesso in Ucraina quando viaggi in treno dal finestrino vedi ragazzi giovani senza gambe e senza braccia, non ci eravamo mai ritrovati, dopo la seconda guerra mondiale, in una situazione del genere, nessuno sa cosa succederà domani”.

Gli allievi della scuola ucraina di Roma con le camicie tradizionali, aprile 2016. (Simona Pampallona per Internazionale)

I ragazzi delle superiori, arrivati da grandi, la lingua italiana la stanno imparando, quelli che sono cresciuti qui la conoscono, ovviamente, molto bene. Nella classe delle medie che recita Shevchenko, sotto la guida di Napiya, che ha 24 anni e insegna lingua e letteratura, mi dicono che amano leggere, sono tutti d’accordo sul fatto che il loro libro preferito è Harry Potter, che hanno letto in italiano.

Le donne ucraine la trovano una lingua relativamente facile, almeno da parlare, e la imparano in fretta e bene.

Trovare un’altra opportunità

Svlitania Kovalska, che ha 51 anni ed è laureata in letteratura russa all’università di Chmel’nyc’kyi, quando è arrivata in Italia si è messa a leggere Dante, Manzoni, Verga. La lingua di Dante ammette di non averla capita granché, con tutte quelle parole che non si trovano nemmeno nel vocabolario, ma per il resto ama l’italiano e la sua letteratura. Nel suo appartamento nel quartiere Prenestino le librerie sono affollate di titoli in italiano, in russo e in ucraino.

Oggi, oltre a studiare sociologia, fa la mediatrice culturale all’ospedale San Camillo. I primi tempi ha fatto la badante a una signora anziana. Dice “ho comprato una nonna”, mi spiega che è così che dicono tra loro, per via della prassi diffusa di alcuni connazionali o italiani di vendere i posti di lavoro presso le famiglie, come un ufficio di collocamento parallelo (e illegale). Con la nonna “che aveva comprato” ha avuto un bel rapporto, anche conflittuale a volte, ma rispettoso e affettuoso. Vivere con lei le ha permesso di imparare molto sulle famiglie italiane, di migliorare l’italiano e di risparmiare abbastanza da potersi permettere un master in mediazione culturale all’università di Roma Tre e di andare a vivere da sola.

Svlitania, grazie all’attività dell’Associazione delle donne ucraine lavoratrici in Italia, che ora dirige, prova a indirizzare le sue connazionali anche ad altri lavori, liberarle dall’idea che l’unica opportunità sia quella di fare la domestica.

Mary, per esempio, che ha quarant’anni, ha fatto la domestica per i primi otto qui in Italia. Per lei la cosa brutta di questo tipo di lavori è il fatto di dover vivere in casa d’altri, non avere uno spazio proprio, non avere momenti di stacco, di libertà. Racconta la sensazione di isolamento che la faceva piangere e dimagrire, dimagrire e piangere. I due figli lontani, lei chiusa in una casa senza parlare con nessuno per giorni. Pregava anche, che le cose migliorassero. È riuscita prima a trovare una casa, ha trovato un uomo da amare e ha portato qui i figli. Ma il suo compagno si è ammalato di tumore, per due anni ha vissuto prendendosi cura di lui, fino a che poi è morto.

Ora lavora in un’azienda che vende prodotti per il benessere, è chiacchierona e solare, felice del suo lavoro che è di responsabilità e in più aiuta gli altri, aspetta di riaccogliere sua figlia, che, tornata in Ucraina assieme al fratello maggiore nel periodo della malattia del compagno, ha scelto di stare di nuovo qui con lei.

Il parcheggio della stazione Ostiense da dove partono i pullman e i furgoncini con i pacchi che vengono mandati in Ucraina, aprile 2016. (Simona Pampallona per Internazionale)

Svlitana ci offre il caffè e i dolci di Pasqua che, secondo il calendario della chiesa greco cattolica, cadeva il giorno prima, il 1 maggio, domenica in cui, nelle chiese romane di Santa Sofia e della Madonna dei Monti, centinaia di ucraine e ucraini si sono riuniti per la messa e il pranzo. I dolci si chiamano pascua, sono dei piccoli panettoni ricoperti di glassa e palline di zucchero colorati, il cesto con cui Svlitana li serve è decorato con i classici motivi primaverili di rondini e fiori e dentro ci sono anche delle uova di un colore rosso scuro, alcune con strisce a spirale più chiare.

Mi spiega che le fanno bollire assieme alle cipolle, ne colorano i gusci arrotolando intorno una foglia, che una volta staccata lascia delle striature chiare.

Spesso i mariti rimasti in Ucraina hanno un’immagine della moglie legata solo ai soldi

Marianna Soronevych, con i suoi trentasei anni, è la più giovane delle tre studenti. Cresciuta a Drogobych, cittadina dell’Ucraina occidentale, si è laureata in chimica all’università di Leopoli e poi è partita per Roma, dove aveva già degli amici, a 22 anni. I primi tempi ha fatto, anche lei, la badante, la domestica e la babysitter, poi le sue ricerche di un’altra occupazione le hanno portato un primo lavoro da giornalista. Oggi è caporedattrice della Gazzetta ucraina, sezione del sito web stranieri in italia, che fornisce notizie e informazioni agli stranieri residenti in Italia.

Nel frattempo ha sposato un italiano, si prepara a concludere la laurea triennale e sa che la sua vita ora è qui. Parliamo della condizione del migrante, che diventa, negli anni, quasi uno straniero a casa propria, o comunque deve rapportarsi a una realtà che cambia in sua assenza. Lei è riuscita a tornare a casa dopo cinque anni, la prima volta, “non conoscevo più le persone che incrociavo per le strade”. Ora, per fortuna, ci torna una volta all’anno, in vacanza.

Parliamo anche con lei della particolare situazione di un paese in cui i mariti sono rimasti e da dove le donne sono partite per andare all’estero a lavorare. A lei non piacciono granché, questi mariti, che spesso, dice, in realtà lasciano crescere i figli ai nonni, e non hanno avuto la forza di partire insieme alle loro mogli. E che spesso, come i figli, hanno un’immagine della madre legata solo ai soldi, “la mamma bancomat”, la chiama. Parliamo di quanto sia un fenomeno difficile da valutare se guardato in una prospettiva femminista, ovvero cercando di capire se è un bene per le donne oppure no. Ma quando le cose sono necessarie, come lo è la migrazione economica, si cerca più che altro di provare a fare bene, il meglio possibile, e a limitare il male.

Questa è la terza tappa del viaggio. Le tappe precedenti.

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