Una mattina di dicembre del 2024, Bruno Carnevali riceve una raccomandata dal rappresentante di una ditta di Milano che non ha mai sentito nominare. Dopo aver presentato l’azienda come “un primario operatore del settore delle energie rinnovabili”, la lettera indica che “da alcune ricerche catastali” Carnevali risulta proprietario “di svariati lotti di circa (sic) 11.646 metri quadrati censiti al catasto di terreni del comune di Rubiera”, in provincia di Reggio Emilia. “Detti terreni”, prosegue il documento, “potrebbero essere di nostro interesse e pertanto vorremmo avere l’opportunità di entrare in contatto con voi per discutere e valutare un’eventuale operazione di compravendita immobiliare”. Seguono email e numero di telefono del rappresentante.

Pur non avendo alcuna intenzione di vendere i terreni su cui la sua famiglia coltiva uva da lambrusco da tre generazioni, Carnevali è incuriosito e decide di chiamare il numero indicato nella lettera. Un signore gentilissimo gli conferma la proposta: l’azienda è interessata a comprare il vigneto vicino all’autostrada per sostituire la coltivazione con pannelli fotovoltaici. E gli dà un’idea del prezzo: “Noi paghiamo dal 40 al 60 per cento in più del valore agricolo. Cioè le garantiamo un guadagno ben più alto di quello che potrebbe darle un altro agricoltore o un’azienda agricola”. Il vigneto, specifica il rappresentante, dovrà essere espiantato e, una volta ottenuta l’autorizzazione dal ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica (Mase), l’azienda completerà l’acquisizione del terreno e installerà i pannelli.

Da quella telefonata è passato qualche mese e oggi, davanti alle sue vigne dove si cominciano a vedere i primi frutti, Carnevali è perentorio: “La proposta è allettante dal punto di vista economico, ma per me è irricevibile. Ti pare che vendo le terre a un’azienda sconosciuta di Milano che le trasforma in un parco energetico? Secondo me c’è un piano per convertire le campagne in distese di pannelli in mano a grandi gruppi economici. Approfittano della crisi agricola per svuotare la terra dai contadini”.

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Difficile dire se ci sia un piano o meno. Ma di certo è in atto una corsa a comprare o prendere in affitto terreni dove installare impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili. Una corsa favorita dalla possibilità di ottimi guadagni e determinata dagli obiettivi di decarbonizzazione dell’Unione europea: coprire il 42,5 per cento del consumo energetico con fonti rinnovabili entro il 2030 e raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Prima ha investito diverse regioni dell’Italia del sud, e ora si sta diffondendo anche nella pianura padana.

“Da queste parti ci sono diversi procacciatori con società costituite da un giorno all’altro che cercano di convincere gli agricoltori a vendere la terra o a dare il cosiddetto diritto di superficie, cioè il diritto a usare i campi per installare i pannelli”, racconta l’avvocata Meri Baraldi, che sta seguendo alcuni di questi casi in provincia di Modena, cercando di tutelare gli agricoltori. “Spesso i contratti offerti sono preliminari di preliminari, utili solo a presentare la richiesta al ministero. Si tratta in diversi casi di società di intermediari, costituite con l’unico scopo di ottenere terreni e autorizzazioni e poi rivendere i progetti ai grandi gruppi che ci sono dietro”.

Al telefono con Carnevali, il rappresentante della ditta ci ha tenuto a specificare che “loro non sono dei procacciatori” e che sarà l’azienda stessa a costruire l’impianto, confermando indirettamente quanto detto dall’avvocata Baraldi. E, alla domanda dell’agricoltore sul tipo di terreni che l’azienda sta cercando, ha risposto: “La dimensione minima è cinque ettari. Una dimensione massima non c’è: più grandi sono, meglio è”.

La corsa alle rinnovabili sui terreni agricoli ha una precisa data d’inizio: l’8 novembre 2021, quando il governo presieduto da Mario Draghi ha emesso il cosiddetto decreto energia, un decreto legislativo che doveva servire a stimolare la produzione di energia da fonti rinnovabili. Il decreto prevedeva una serie di sussidi per la costruzione di impianti di energia da fonti rinnovabili, dava il via libera a una procedura semplificata per le autorizzazioni e fissava a 180 giorni dalla sua approvazione il termine per stabilire “principi e criteri omogenei per l’individuazione delle superfici e delle aree idonee e non idonee all’installazione” degli impianti.

Il testo ha ottenuto il suo scopo: subito dopo la pubblicazione si sono moltiplicate le richieste al ministero dell’ambiente. La transizione energetica è stata giustamente stimolata dal governo. L’azione politica ha messo in moto diversi soggetti, dai tradizionali produttori e fornitori di energia a una folla di aziende create apposta per beneficiare della nuova gallina dalle uova d’oro. Risultato: oggi sul sito della Terna, l’azienda che gestisce la rete elettrica, ci sono richieste di connessione di nuovi impianti per 355 gigawatt, cioè più di quattro volte la quantità prevista dal decreto Draghi sulla base degli obiettivi europei (che si fermava a 80 gigawatt entro il 2030).

A sinistra, Massimo Fabbri, agricoltore nella campagna di Argenta, Ferrara, maggio 2025. A destra, Bruno Carnevali, che gestisce la Cantina Carnevali a Rubiera, dove produce uva e lambrusco. (Michele Lapini)

I numeri più importanti riguardano regioni come Sardegna, Sicilia e Puglia. Ma negli ultimi tempi stanno crescendo le richieste anche nella pianura padana, e in particolare in Emilia-Romagna, dove i piani di connessione si attestano su 10 gigawatt. Nella sola provincia di Ferrara, ci sono richieste per 4,55 gigawatt. E in mezzo a quella grande area di bonifica che va dalla città estense fino al mare, c’è un comune che appare il cuore del nuovo boom del solare: Argenta. “Abbiamo un record di richieste: dal sito del ministero emerge che ci sono provvedimenti autorizzativi che riguardano mille ettari di terreno. Qui cambierà tutto il paesaggio”, tuona Andrea Panizza, presidente e fondatore dell’associazione Terra Argenta, nata proprio per stimolare un dibattito critico intorno allo sviluppo delle rinnovabili nel territorio comunale.

Panizza ricorda come abbia scoperto per caso che vari terreni, tra cui anche uno proprio di fronte alla casa di campagna che aveva appena comprato, sembravano destinati a ospitare degli impianti fotovoltaici. “L’ho saputo da un articolo sulla Nuova Ferrara nel marzo 2024. Una volta letto, ho chiamato il giornalista e ho cercato di avere maggiori informazioni”. Insieme agli altri membri dell’associazione ha creato una mappa degli impianti autorizzati o in via di autorizzazione, cercando di ricostruire anche gli interessi che ci sono dietro. “Siamo convinti che l’energia rinnovabile sia una grande sfida per il futuro. Ma deve essere fatta con criterio, rispettando l’equilibrio ambientale e senza compromettere l’uso agricolo”, dice Panizza.

Il comune di Argenta sembra avere tutte le carte in regola per diventare un centro importante delle rinnovabili: ha un’enorme estensione, molta terra a disposizione e cabine elettriche ben posizionate, un elemento che permette di contenere i costi degli impianti. Non è un caso che oggi ci siano 16 richieste per altrettanti impianti sparsi in tutto il comune.

E potrebbero aumentare. “La mia principale preoccupazione la mattina quando arrivo in comune è capire se durante la notte sono arrivate nuove richieste”, dice il sindaco Andrea Baldini. Una volta creata un’infrastruttura di gestione dell’energia, con una cabina elettrica costruita appositamente come prevede uno di questi progetti, sarà più facile installare nuovi impianti, in una specie di processo cumulativo. Allarmato dagli effetti che alcune di queste distese di pannelli possono avere sul paesaggio, Baldini si è unito a un gruppo di circa duecento sindaci andati in delegazione a Roma per chiedere maggiore potere di intervento per gli enti locali. “I comuni possono esprimere rilievi di merito e pareri negativi, che però non sono vincolanti”, spiega.

Per velocizzare le procedure, il decreto energia ha centralizzato il processo, affidando però alle singole regioni il compito di definire le cosiddette aree idonee. Le regioni a loro volta si sono mosse in ordine sparso: alcune non l’hanno mai fatto, altre hanno emanato norme restrittive, come la Sardegna che ha limitato le aree idonee per l’eolico e il fotovoltaico all’1 per cento del territorio regionale. La giunta regionale dell’Emilia-Romagna ha dato il via libera alla norma il 13 maggio 2025, prevedendo un meccanismo di valutazione dei cosiddetti impatti ambientali cumulativi. Ma proprio il giorno dopo il tribunale amministrativo regionale (Tar) del Lazio ha annullato il decreto che dava alle regioni la funzione di identificare le aree idonee, sostenendo che c’era eccessiva discrezionalità. “La verità è che i comuni investiti dalle richieste possono fare ben poco. Possiamo chiedere delle compensazioni maggiori, ma sempre entro un certo limite. E, anche quando dovessimo decidere di opporci a un impianto che riteniamo abbia un impatto eccessivo, non abbiamo le risorse finanziarie per sostenere le spese di un ricorso”, sostiene Baldini.

Ma chi c’è dietro questo boom? La maggior parte dei progetti approvati o in via di discussione ad Argenta sono stati avanzati da tre grandi gruppi. Una serie di richieste è stata presentata dall’Enfinity, che fa capo alla multinazionale statunitense Enfinity Global di Miami, in Florida. Dal bilancio societario emerge che la sussidiaria italiana Enfinity Solare è detenuta al 100 per cento dalla EG Europe Holco BV, una società con sede nei Paesi Bassi, a sua volta legata alla Enfinity global.

Andrea Panizza, presidente di Terrargenta, mostra i progetti di fotovoltaico e agrivoltaico nel territorio di Argenta, Ferrara, 15 aprile 2025. (Michele Lapini)

La Enfinity solare ha costituito una serie di società di scopo (cioè create per gestire progetti specifici), con cui ha presentato diverse richieste al ministero dell’ambiente, in totale 84 in tutta Italia. Solo nel territorio di Argenta e nel vicino comune di Portomaggiore ha messo in campo 7 progetti, per un totale di 203 megawatt di potenza. Sei di questi sono già stati approvati, un settimo è pendente al ministero. Come si legge nel sito dell’azienda, l’Italia è uno dei paesi chiave in Europa per la strategia della Enfinity, che ha appena annunciato il collocamento di un prestito obbligazionario da 100 milioni di euro attraverso il gruppo d’investimento francese Eiffel investment group. Le obbligazioni fanno seguito a vari finanziamenti ottenuti nel 2024 da istituti bancari e fondi di investimento.

Altri tre progetti presentati ad Argenta attraverso tre società di scopo, per un totale di 472 ettari, fanno capo alla Wood italiana srl. L’azienda risulta avere sede a Corsico, in provincia di Milano, ed è legata al John Wood Group Plc di Aberdeen, in Scozia, che si definisce una “società di ingegneri e consulenti globali, la cui missione è progettare il futuro dell’energia e dei materiali”. Il gruppo è quotato alla borsa di Londra, dove negli ultimi tempi ha conosciuto un calo considerevole: il valore delle azioni è crollato nell’ultimo anno del 90 per cento, passando da due sterline a poco più di venti centesimi. La ragione sarebbe una verifica indipendente che ha portato alla necessità di operare “significative modifiche agli stati patrimoniali e agli utili degli ultimi tre esercizi”. Secondo quanto annunciato dallo stesso gruppo, sarebbero in corso dei colloqui per un’acquisizione da parte della Sidara, un’azienda di ingegneria e progettazione con sede a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti.

Da una visura camerale, la Wood Italiana risulta di proprietà dello Fw Investment Holding sarl, un fondo di investimento con sede in Lussemburgo. La Wood Italiana ha diversi progetti in corso in Italia, sia nel solare sia nell’eolico. Ad Argenta, ha un progetto approvato in via definitiva per 168 megawatt e un altro da 68 megawatt in corso di approvazione al ministero. Ne aveva presentato un terzo per un impianto da 57 megawatt su 116 ettari in località Consandolo, proprio a ridosso di un centro abitato, attraverso una società di scopo chiamata Newagro. Ma, nel settembre 2024, lo ha ceduto a un’altra società, la Exus italia srl.

Exus è il terzo grande gruppo attivo ad Argenta. Oltre all’impianto di Consandolo, ne ha in progetto un altro da 24 megawatt, abbinato a un sistema di accumulo a batteria (Bess) da 12 megawatt. E questo sembra essere il principale settore d’affari della Exus in Italia: l’azienda ha chiuso accordi per costruire 800 megawatt di Bess in Puglia.

La Exus Italia srl è posseduta al 100 per cento da un’azienda con sede in Spagna chiamata Exus Renewable srl, a sua volta di proprietà del fondo d’investimento Partners Group, con sede in Svizzera e un portafoglio di attività in gestione per un valore di 152 miliardi di dollari.

“Siamo diventati terreno di conquista di fondi d’investimento stranieri. Gli stiamo cedendo le nostre terre, senza preoccuparci delle conseguenze a medio termine”, commenta Panizza.

Ma perché multinazionali e fondi esteri sono così interessati a lanciarsi in questo settore? L’investimento garantisce guadagni molto alti, ma non può essere fatto da chiunque, perché servono capitali iniziali rilevanti. Per ogni megawatt di potenza, bisogna investire circa 700 mila euro. Per ognuno di questi impianti servono quindi milioni di euro. Il gioco vale senz’altro la candela: ai prezzi attuali dell’energia, si rientra dell’investimento nel giro di quattro o cinque anni, mentre gli impianti restano in vita almeno vent’anni. Se si considera che ogni megawatt di potenza può garantire utili anche di 150 mila euro all’anno e che le potenze medie delle richieste presentate al ministero dell’ambiente sono di decine di megawatt, si capisce perché tra i protagonisti di questa corsa all’oro ci sono dei colossi finanziari.

Il decreto Draghi del 2021 era l’unica strada percorribile per stimolare la quanto mai necessaria transizione energetica? Paolo Pileri, docente di pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano, è convinto di no. “Invece d’incoraggiare l’uso di aree dismesse e superfici abbandonate per produrre energia rinnovabile, si è scelto di favorire gli investitori finanziari e il loro desiderio di minimizzare i costi e massimizzare i profitti”. Questo, secondo il docente, avrà una conseguenza duratura e nefasta: produrrà ulteriore consumo di suolo in un paese che su questo punto già detiene il primato in Europa. “Senza contare un altro aspetto tutt’altro che secondario: stiamo affidando tutto ai privati. Abbiamo rinunciato all’idea che la produzione di energia possa essere pubblica”.

Tra gli affreschi suggestivi della sala del consiglio di palazzo Naselli Crispi, sede del Consorzio di bonifica pianura di Ferrara a due passi dal castello estense della città, Stefano Calderoni è dello stesso avviso. Presidente del consorzio e imprenditore agricolo della provincia, anche lui osserva con preoccupazione l’avanzata di queste multinazionali dell’energia. “Delegando a un soggetto privato un tema d’interesse pubblico come l’energia, si è creata una grande spirale speculativa”, osserva. Le conseguenze, secondo Calderoni, possono far precipitare in modo irreversibile la crisi dell’agricoltura, che è già molto grave. “Si sta determinando una distorsione del mercato fondiario talmente importante da rendere inaccessibile la terra a chiunque voglia fare l’agricoltore, in particolare ai giovani”.

Un impianto di fotovoltaico nel territorio di Argenta, Ferrara, maggio 2025. (Michele Lapini)

La grande corsa all’acquisizione di terreni da destinare alla produzione di energia è facilitata dalla bassa redditività dell’agricoltura. La proposta che ha ricevuto Carnevali al telefono non è l’eccezione: i prezzi di acquisto o di locazione offerti dall’industria dell’energia sono assai più alti di quelli di mercato. E in Italia sono un incentivo a cui è difficile resistere, anche in un’area tradizionalmente produttiva come la pianura padana.

Ma il punto è proprio questo: qui la terra non è più produttiva come una volta. In Emilia-Romagna, che un tempo era il cuore della frutticoltura europea, la crisi picchia duro da anni. L’instabilità climatica, insieme all’arrivo di parassiti aggressivi come la cimice asiatica, ha portato a un tracollo della produzione: secondo i dati presentati dal Centro servizi ortofrutticoli (Cso Italy, un’associazione di operatori della filiera) tra il 2013 e il 2024 gli ettari coltivati a pere in Emilia-Romagna si sono praticamente dimezzati, passando da 21.300 a 11.300. Nella sola provincia di Ferrara, si è passati negli ultimi cinque anni da ottomila a quattromila ettari. Stesse cifre drammatiche per pesche e nettarine. Un crollo verticale determinato, oltre che dai consistenti cali di produzione, anche dai prezzi bassi pagati dalla grande distribuzione organizzata (Gdo).

Lo sa bene Massimo Fabbri, proprietario di uno dei pochi frutteti rimasti ad Argenta. Il suo campo, intorno alla casa dove vive, rischia di diventare come il villaggio di Asterix. Se un progetto presentato dal gruppo Enfinity otterrà il via libera, sarà completamente circondato da pannelli solari. “Sono venuti anche da me a capire se ero interessato a cedere la terra. Ma io non ci penso neanche”. Fabbri è riuscito a garantirsi un guadagno cambiando il modo di fare affari: vende la frutta direttamente ai clienti, senza passare per le cooperative e per la Gdo. Ma è rimasto l’unico in zona. Intorno a lui, ci sono distese a seminativo. Molte delle quali ospiteranno presto grandi campi di pannelli fotovoltaici.

Si tratta di una specie di circolo vizioso: l’agricoltura che dà poco reddito spinge gli agricoltori a cedere i terreni al settore dell’energia, che crea una bolla sul valore fondiario, rendendo ancora meno redditizio il lavoro agricolo. “Oggi il prezzo della terra è tenuto alto proprio da questa speculazione”, analizza Calderoni.

Proprio per rimediare a questo problema e anestetizzare l’eventuale concorrenza tra produzione alimentare ed energia, nel maggio 2024 il governo è intervenuto con una norma che vieta il fotovoltaico a terra sulle aree agricole. Nel cosiddetto decreto agricoltura si stabilisce che i pannelli non possono poggiare a terra, a meno che non siano a una distanza inferiore a 500 metri da un’area industriale o a 300 metri dall’autostrada. In caso contrario devono essere sollevati a un’altezza tale che consenta di continuare l’attività agricola nel terreno sottostante. Tutti i progetti presentati successivamente al decreto agricoltura devono quindi essere di tipo “agrivoltaico”.

L’obiettivo è creare una “sinergia positiva” tra produzione di energia e alimentare, come si è sottolineato in un incontro promosso a Ferrara il 19 maggio scorso da Legambiente e dalla Fondazione per l’agricoltura fratelli Navarra. “Dobbiamo produrre energia rinnovabile in modo significativo per contrastare il cambiamento climatico”, ha sottolineato in quell’occasione Angelo Gentili, responsabile agricoltura dell’associazione ambientalista. “Senza contare”, ha aggiunto, “che l’agrivoltaico può migliorare i redditi di un’agricoltura in ginocchio”.

Non è un’osservazione fuori luogo: la produzione di energia può effettivamente garantire un guadagno extra agli imprenditori agricoli in difficoltà. Ma è lecito chiedersi: è una vera sinergia? Gli impianti costruiti finora sono pochissimi, quindi è difficile capire se è possibile continuare a coltivare i campi sotto i pannelli. E che rese avranno quei campi. Alcuni studi della fondazione Navarra, che è in prima fila nel sostenere l’agrivoltaico, affermano che le distese di pannelli rialzati potrebbero essere anche una protezione contro le alte temperature in estate e le grandinate.

Ma non tutti concordano su questo punto. “Bisognerebbe essere più onesti e dire semplicemente: in una parte del campo produco energia invece di generi alimentari”, dice un agricoltore della provincia di Pavia che ha chiesto l’autorizzazione per installare un impianto nei suoi terreni. “Ora la nuova normativa mi costringe all’agrivoltaico, con un aggravio di costi. Ma a me interessa poco quello che coltiverò sotto i pannelli. Nell’area dove li metto, il mio business è l’energia”. L’imprenditore preferisce rimanere anonimo perché “il tema è controverso e non voglio suscitare reazioni inappropriate finché non avrò ottenuto le autorizzazioni”. Ma pone anche lui la questione chiave: “Dal momento che le mie coltivazioni non mi garantiscono un reddito adeguato, che male c’è a produrre energia invece di cibo?”.

A qualche centinaio di chilometri di distanza, nella sua azienda agricola proprio a ridosso dell’autostrada del Sole, Bruno Carnevali non è dello stesso avviso. Mentre si aggira per il suo vigneto e valuta lo stato dell’uva, “che quest’anno è partita in ritardo per le gelate”, continua a scuotere la testa. “Non voglio vedere la pianura padana trasformata in una distesa di pannelli. Noi abbiamo un compito: produrre cibo e custodire il territorio. Se diamo via le nostre terre per fare energia, alla fine cosa mangeremo?”.

Questo articolo fa parte dell’indagine coordinata da Internazionale con il supporto della borsa di studio Bertha challenge. La versione inglese dell’articolo è pubblicata dal Green european journal.

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