C’è una targa di marmo che accoglie chi entra nel complesso di case popolari tra viale Lombardia, via Porpora e via Lulli, a cinque fermate di metropolitana dal Duomo di Milano. “Nel centenario del II quartiere operaio”, recita la scritta del 2009, “gli abitanti tutti e la Società umanitaria ne riaffermano i principi di socialità e integrazione, da sempre cuore pulsante di queste case”. In queste parole si respira lo spirito socialista delle prime lotte per il diritto alla casa in città: all’epoca la popolazione di Milano era in espansione vertiginosa per la crescita industriale, e per lavoratrici e lavoratori la crisi abitativa – fatta di scarsità e prezzi inarrivabili – era perfino peggiore di quella attuale.
La Società umanitaria fu uno dei principali attori della soluzione, costruendo quartieri tanto moderni e generosi da apparire, un secolo dopo, ancora esemplari. Questo complesso – i cui limiti sfiorano la zona che il marketing urbano milanese ha ribattezzato NoLo, e che ha conosciuto la crescita dei prezzi più rapida e violenta della città – si compone di quattrocento appartamenti divisi in varie palazzine basse, con fregi liberty, graniglie, imponenti magnolie nella rete di larghe vie interne e spiazzi comuni. Sono “modelli concreti”, nelle parole del presidente della Società umanitaria, “di come il problema dell’abitazione a basso costo potesse trovare soluzioni, sia dal punto di vista architettonico, sia da quello dell’investimento di capitali con rendita equa”.
Cento anni dopo, uno spirito simile sembra animare i progetti di edilizia sociale che si propongono come soluzione alla drammatica crisi abitativa che investe Milano, in cui lo stipendio medio, circa 1.800 euro, non basta ad affittare un monolocale al capolinea della metropolitana. Il progetto – rilanciato nel nuovo piano casa presentato dal comune lo scorso 21 ottobre – prevede migliaia di appartamenti a prezzi calmierati per lavoratrici e lavoratori. Dove un secolo fa le ultime scoperte infettivologiche portavano a esaltare la salubrità delle case popolari, oggi si parla di efficienza energetica e sostenibilità; se la Società umanitaria includeva nei suoi quartieri delle biblioteche, in quelli di oggi si prevedono spazi di coworking. Anche per questo, ma non solo, il quartiere Lombardia-Porpora-Lulli è un ottimo punto di osservazione per capire le proposte portate avanti dal settore pubblico nell’affrontare la crisi. Delle sue cause – dovute in larga misura alla mano libera lasciata per decenni al privato – abbiamo già parlato.
Nonostante l’origine storica e la generosità architettonica, questo quartiere è per molti versi un esempio tipico delle case popolari milanesi, lontano dagli stereotipi che li vogliono in mano a oscure cosche o a minacciose schiere di occupanti. Otto abitanti su dieci sono anziani in condizioni di povertà, spesso residenti da decenni; pagano tra i sessanta e i centottanta euro al mese, un terzo della loro pensione. È tipico anche per un’altra ragione: cade a pezzi.
“Vedi lì, al civico 47: nel 2020 sono comparse delle crepe strutturali di vari centimetri, hanno sgomberato tutti gli appartamenti, e da allora è rimasto vuoto, con i fessurimetri sulla facciata”. Gianfranco è un fotografo in pensione, durante il primo lockdown si è unito alle brigate volontarie che distribuivano prodotti alimentari alle persone vulnerabili o non autosufficienti. I lockdown sono finiti e la distribuzione è andata avanti grazie all’associazione Mutuo soccorso Milano, che ora affitta anche un magazzino in uno dei seminterrati del complesso: un sabato di ottobre, un’ora prima dell’apertura, molti abitanti già gironzolano nei pressi della serranda abbassata.
Con il tempo i volontari si sono anche fatti portavoce degli inquilini rimasti senza interlocutori istituzionali; mentre aspettiamo gli altri, Gianfranco mi fa fare un giro.
Gli abitanti che mi vedono prendere appunti mi guardano spesso con diffidenza. C’è chi mi crede un ispettore del comune o della regione, e mi intima a male parole di andarmene; e c’è chi, per la stessa ragione, mi insegue nella speranza di riuscire finalmente a parlare con qualcuno di un ascensore fermo, di una scala a rischio crollo, di un soffitto da cui da mesi piove. La spiegazione di Gianfranco prosegue: lì ci sono 25 appartamenti chiusi perché le scale sono instabili. Là, nel 2023, il tetto è andato a fuoco. La proprietà – l’Aler, l’ente regionale per le case popolari, che possiede metà del complesso – non ha neanche accennato a ripristinarlo; però la scorsa estate hanno inaspettatamente installato una recinzione che costringe chi non cammina bene a fare il giro di tre isolati per poter uscire dal quartiere. Sono anche comparsi dei nuovi citofoni, spesso collegati ad appartamenti con porte e finestre bloccate con lamiere elettrosaldate. La lista è lunga, integrata dalle puntualizzazioni di un drappello di abitanti che ci segue. I portoni non si chiudono. Una cantina è crollata. Una grondaia perde da anni, ora piove dentro. E ancora, e ancora, e ancora. Quando arrivano gli altri volontari di Mutuo soccorso Milano per cominciare la distribuzione abbiamo visto solo due edifici su otto.
“A Milano i soggetti pubblici possiedono quasi l’8 per cento degli immobili”, mi spiega a Bruxelles, in Belgio, Pierfrancesco Maran, oggi europarlamentare del Partito democratico ma fino a pochi mesi fa assessore alla casa del capoluogo lombardo. “Non è il 60 per cento di Vienna, in cui la pubblica amministrazione è in grado di influenzare i prezzi del mercato, ma non è poco”. Il fenomeno delle occupazioni – riemerso pretestuosamente per danneggiare la candidatura al parlamento europeo di Ilaria Salis, attivista arrestata a Budapest, in Ungheria, e poi eletta tra le file di Alleanza verdi e sinistra– incide solo su una quota minima del totale. Molto più significativa è la quantità di alloggi – quasi 15mila – che sono sfitti perché inabitabili, come, appunto, nel caso del secondo quartiere della Società umanitaria.
Il problema, sostiene Maran, è doppio. Da una parte, “il sistema delle case popolari non è finanziato dallo stato, ma è tutto a carico del comune e della regione, che non hanno le risorse per ristrutturare”. Dall’altra, le case popolari si rivolgono a una fascia di popolazione per cui si usano parole come “a rischio”, “fragile”, “in difficoltà”: una categoria molto più ristretta di quella che ora non riesce a permettersi di abitare a Milano, che ormai include lavoratori con anni di carriera alle spalle, professionisti, funzionari pubblici. È di qualche mese fa, per esempio, la notizia che l’Atm, l’azienda dei trasporti locali, non riesce a trovare trecento conducenti perché lo stipendio che offre non è sufficiente per vivere in città.
Queste due categorie corrispondono più o meno ai destinatari dei due tipi di politiche abitative di cui si discute a livello pubblico. Per i primi si parla di case popolari, che richiedono affitti molto bassi e si rivolgono a chi ha un reddito lordo sotto i 16mila euro; per i secondi, la cosiddetta “fascia grigia” che guadagna più di 16mila e meno di 40mila euro l’anno, esiste l’housing sociale (o a canoni calmierati), il cui costo è inferiore al prezzo di mercato, ma non irrisorio (per un quadrilocale si arriva facilmente a 700 euro al mese). Questa fascia comprende chi in città ha un reddito intorno alla media: infermieri e professoresse universitarie, impiegati e poliziotte e professionisti, in una condizione diversa da quella dei disoccupati o degli anziani senza contributi pensionistici, ma non per questo meno grave. Una delle idee del comune per risolvere i due problemi è vederli come un problema solo.
“Le case popolari”, spiega Maran, “possono anche andare ai lavoratori. Di queste case sfitte, 10mila possono essere messe a disposizione a prezzi un po’ più alti ma calmierati. È sostenibile per l’inquilino e permette al soggetto pubblico di finanziare un prestito in grado di pagare le ristrutturazioni”. Un progetto pilota del genere è stato annunciato l’anno scorso su una trentina di appartamenti; un altro è stato avviato in collaborazione con l’Atm per i suoi dipendenti; le linee di indirizzo del recente piano casa del comune prevedono uno studio delle case in mano pubblica per capire quali parti valorizzare e quali convertire in housing sociale perché troppo costose da ristrutturare.
I sostenitori di questo modello ci vedono un sistema rapido per rispondere alla crisi abitativa della città, e potenzialmente anche di incidervi in modo più profondo, perché l’immissione di migliaia di appartamenti a costi contenuti dovrebbe avere un effetto sull’andamento generale del mercato immobiliare. I critici osservano che questo piano offrirà una casa alla classe media in difficoltà, sottraendola a chi si trova ancora più in difficoltà.
Tra i critici che si fanno sentire di più c’è il movimento Chiediamo casa, una rete che lotta per il diritto all’abitare a Milano. “Questo progetto è un escamotage per trovare soluzioni a costo zero”, mi spiegano Angelo e Giacomo, due attivisti che ne fanno parte, “ma danneggia l’edilizia popolare, usando la maschera dell’edilizia sociale: vuol dire creare una guerra tra poveri”. Attivo dal 2021, il movimento Chiediamo casa è nato come rete di soggetti in lotta per il diritto alla casa; uno dei principali era l’associazione Abitare in via Padova, che è attiva proprio in questa zona e tra le altre cose offre assistenza gratuita agli inquilini delle case popolari, o a chi vuole fare domanda. “Con il tempo abbiamo visto aumentare di molto le richieste, e cambiare la popolazione di riferimento”, spiegano. “Ora sempre più spesso ci sono lavoratori con dieci, quindici anni di contributi in regola, a cui è alzato l’affitto e non sanno che fare”. Con la fine del reddito di cittadinanza le richieste sono cresciute ulteriormente.
Oltre a organizzare presidi contro gli sfratti, Chiediamo casa ha formulato proposte concrete per spingere l’amministrazione pubblica ad affrontare l’emergenza abitativa a Milano. “Ci sono un sacco di cose che si potrebbero fare”, spiegano, “dall’uso degli appartamenti sfitti – che poi molto spesso è affitto in nero, e per scoprirlo basterebbe verificare le utenze – al divieto degli affitti turistici”. Nel 2022 hanno presentato al comune una petizione perché comprasse gli appartamenti messi all’asta per mora dei proprietari: ce n’erano a centinaia proprio in quel quartiere. Il comune l’ha ignorata.
“Le istituzioni non hanno strumenti per influenzare il mercato”, spiega Maran. Decidere di tassare gli appartamenti tenuti sfitti o restringere gli affitti turistici spetta al governo nazionale, che al momento sembra avere priorità molto diverse. Per tutto il resto non ci sono soldi. “Però abbiamo leve per allargare la fascia e la quantità di cittadini tutelati”. Una di queste, appunto, è trasformare case popolari in edilizia sociale, cioè più cara; un’altra è incoraggiare i privati a costruirne, riducendo gli oneri di urbanizzazione o donando terreni demaniali. Sono i progetti che vengono più spesso sbandierati quando si parla del futuro della città; sono quelli che, nelle loro presentazioni, riecheggiano le nobili dichiarazioni dell’Umanitaria un secolo fa, spolverate di anglicismi alla moda: green e smart e carbon negative. C’è un grande progetto al cosiddetto ex macello, una zona industriale semicentrale in cui fino a pochi anni fa nasceva il centro sociale Macao; c’è un isolato intero nella zona Sarpi, in pienissimo centro; c’è l’enorme studentato in cui sarà convertito il villaggio olimpico costruito per i prossimi Giochi invernali, a poche fermate di metropolitana dal Duomo. Sono solo tre esempi fra i tanti.
L’ultimo governo non ha fatto che peggiorare la situazione, sospendendo il fondo per il sostegno agli affitti e quello per le morosità
Anche questi, come la conversione delle case popolari, sono interventi che per il comune risultano privi di costi vivi e per questo fattibili: in cambio di un abbattimento degli oneri di urbanizzazione, o della cessione di aree demaniali, i costruttori si impegnano a destinare parte dei fabbricati all’edilizia sociale. Su questo tipo di progetti si basa la stima fornita dall’ultimo piano casa, che prevede di offrire in pochi anni 10mila appartamenti a canoni sociali a Milano (curiosamente, è lo stesso numero che l’assessore precedente contava di ricavare dalle conversioni di case popolari). Ma risulta difficile immaginare come potrà essere possibile: l’ex macello, che si presenta come il più grande progetto di social housing d’Italia, ne prevede circa 1.200; il progetto in zona Sarpi ne prevede 96; nell’ultimo decennio la città ha guadagnato 200mila abitanti. Similmente, lo studentato al villaggio olimpico avrà 1.700 posti: ma negli ultimi tre anni, gli atenei milanesi hanno immatricolato 25mila studenti in più. Sono gocce nel mare.
Senza contare che le convenzioni non sempre coprono la totalità di ciò che è costruito: solo qualche mese fa è scoppiato uno scandalo quando si è scoperto che, di quei 1700 posti letto per studenti, solo 150 erano a prezzi agevolati, mentre i restanti potevano costare anche mille euro al mese (in seguito alla polemica il comune ha modificato i termini della convenzione). Al progetto dell’ex macello solo “la gran parte” dei 1200 appartamenti saranno in affitto sociale – i restanti saranno venduti a prezzi più contenuti rispetto ai valori di mercato, ma comunque più alti che in città diverse da Milano; i responsabili del progetto in zona Sarpi, nelle due righe di risposta che mi hanno inviato, hanno specificato che “non è da escludere che la proporzione [tra edilizia sociale e libero mercato] subisca modifiche nella prosecuzione del progetto”. Questo tipo di comunicazione non lascia sperare bene.
È il problema di una politica abitativa in cui, per mancanza di mezzi, il soggetto pubblico si mette nelle mani del privato: “Se non metti obblighi”, dice sempre Maran, con un’espressione più colorita di questa, “fanno il cavolo che gli pare”. Lui, da assessore, gli obblighi ha provato a metterli: uno dei suoi progetti più ambiziosi, il bando Reinventing cities 3, ha offerto 50mila metri quadri di suolo demaniale a costo zero a chi si impegnasse a costruirvi abitazioni a canoni moderati. Il bando, chiuso a dicembre 2023, è andato sostanzialmente deserto. Maran si è dimesso pochi mesi dopo. Il 21 ottobre 2024 il suo successore Guido Bardelli ha presentato il nuovo piano casa del comune, che offre 300mila metri quadri di suolo demaniale a costo zero a chi si impegna a costruirvi abitazioni a canoni moderati. Alcune zone sono le stesse.
“Il comune fa quello che può”, mi spiega G., che segue i progetti per l’abitare di un centro di ricerca e consulenza sulla sostenibilità. “Ma può ben poco. Le politiche abitative sono di competenza delle regioni e dello stato, e gli ultimi investimenti risalgono a decenni fa”. Se possibile, aggiunge, l’ultimo governo non ha fatto che peggiorare la situazione, sospendendo il fondo per il sostegno agli affitti e quello per le morosità.
Gli effetti si vedono: “Lavoriamo con vari comuni, anche relativamente ricchi, nella cintura milanese, e spesso sono disperati. Hanno decine di famiglie per strada, le case popolari sono piene, e non sanno dove metterle”. In questo senso, prosegue G., il nuovo piano casa del comune non sembra offrire grandi novità. “Non solo a Milano, ma in tutta Italia ora c’è una grande attenzione alla cosiddetta fascia grigia” di lavoratori della classe media – che, si potrebbe anche osservare, coincidono più facilmente con l’elettorato. Sono anche, specifica G., persone che a Milano hanno disperatamente bisogno di un sostegno pubblico: ma non a spese delle fasce più deboli, che non possono permettersi neanche gli affitti calmierati. Per queste ultime bisogna accettare che l’offerta abitativa pubblica sia un costo: “L’erogazione di un diritto”, come per istruzione e sanità.
Gli appartamenti inagibili sono subito chiusi senza neppure cercare di rimetterli in sesto per i nuovi inquilini
Questo diritto è sempre meno garantito. Durante la distribuzione alimentare nel secondo quartiere operaio della Società umanitaria, con i volontari del Mutuo soccorso, più persone lamentano trasferimenti imminenti per via dei progetti di riqualificazione. Gli appartamenti inagibili sono subito chiusi senza neppure cercare di rimetterli in sesto per i nuovi inquilini. Una storia tipica è quella di T., che da quindici anni vive nella parte del complesso di proprietà della regione, come anche il fratello, che però è in quella comunale. Temono di finire lontani. Mentre la calca in attesa si assottiglia, Gianfranco, il volontario, mi fa notare che oltre il cancello, a intervalli di tempo regolari, per strada passa la stessa anziana signora, procedendo lentamente con il deambulatore: percorre lo stesso giro degli isolati ogni mattina, più volte, transitando alla stessa ora come Immanuel Kant a Königsberg.
“È gente di ottant’anni, a volte di novante”, mi racconta. “Se li sposti da questo quartiere sono persi; qui hanno i loro punti di riferimento, le loro poche amicizie e rapporti sociali. Un trasferimento è una condanna”. Il comune ha già deliberato la cessione della propria parte del quartiere della Società umanitaria in viale Lombardia, sostenendo di voler dare priorità all’acquisto da parte dei residenti; ma nelle linee di indirizzo del nuovo piano casa proprio quel complesso è definito bisognoso di “interventi complessivi particolarmente rilevanti”, per cui “sono state avviate procedure […] con il ricorso a forme di collaborazione con soggetti privati”.
“Che ne sarà dei più precari?”, domanda il movimento Chiediamo casa nella mobilitazione seguita all’ultimo annuncio. “E delle famiglie in difficoltà?”. Queste domande non hanno risposta. Esaurita la coda al magazzino del Mutuo soccorso, i volontari fanno il giro degli abitanti che non sono in grado di muoversi autonomamente, per infermità o perché le case popolari in cui abitano non sono accessibili.
Un’anziana signora con un accento lucano si affaccia dietro la grata di un piano rialzato. Gianfranco mi racconta che, a quanto ne sa, non esce da quasi due anni; le portano il cibo in casa e lo mettono in frigo per lei. Quando mi vede si anima, prova a chiamarmi: “Siete dell’Aler? Siete i tecnici dell’Aler per la scala?”. Gianfranco si avvicina. “No, signora, siamo quelli che le portano il pacco”. Parla a voce molto alta. “Più tardi veniamo a portarle il pacco”.
Al termine della distribuzione mi incammino lungo via Porpora verso la metropolitana. Appena passato il cancello del complesso – costruito dalla Società umanitaria un secolo fa, divelto da un camion e mai sostituito – c’è un’altra targa di marmo, che dice “Proprietà dell’istituto case popolari ed economiche di Milano”; subito davanti c’è la vetrina di un’agenzia immobiliare. Mi cade lo sguardo sull’annuncio di un bilocale in zona, ristrutturato, 55 metri quadri, libero al rogito. Il prezzo richiesto è 350mila euro, e riporta, come molti di quelli esposti, una scritta in rosso che dice “Venduto”.
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