Padre Jihad Youssef tiene in mano un ritratto di padre Paolo Dall’Oglio nel monastero di Deir Mar Musa al Habachi a Nabek, nel nord della Siria, l’8 febbraio 2025. (Louai Beshara, Afp)

In un ex monastero arroccato su una collina a nord di Damasco, le persone vicine a padre Paolo Dall’Oglio continuano il suo lavoro, sperando che la caduta di Bashar al Assad sollevi finalmente il velo sul destino del sacerdote gesuita italiano.

Padre Dall’Oglio ha vissuto per diversi anni in questo monastero, fondato nel VI secolo, di cui ha contribuito al restauro. Feroce oppositore del governo di Bashar al Assad, è stato espulso nel 2012 dopo aver incontrato rappresentanti dell’opposizione siriana. L’anno successivo è tornato clandestinamente nelle aree controllate dai ribelli, prima di scomparire nel luglio 2013 mentre si recava a Raqqa per negoziare il rilascio di alcune persone che erano state rapite da un gruppo che sarebbe poi diventato lo Stato islamico.

“Vogliamo sapere se padre Paolo è vivo o morto, chi lo ha imprigionato e cosa gli sta succedendo”, dice padre Jihad Youssef, superiore del monastero di Deir Mar Mosa al Habachi (San Mosè l’abissino), situato a un centinaio di chilometri da Damasco. Dalla sua scomparsa, sono circolate informazioni contraddittorie sulla sua sorte: alcuni sostengono che sia stato rapito dai jihadisti, altri che sia stato ucciso o consegnato alle autorità siriane.

La sconfitta del gruppo Stato islamico nel 2019 non ha fornito alcuna certezza, in un paese dove decine di migliaia di persone sono scomparse nelle carceri di Bashar al Assad o risultano disperse durante la guerra civile cominciata nel 2011.

La caduta di Bashar al Assad, lo scorso dicembre, ha permesso agli amici del monastero di esprimere apertamente il sospetto che padre Paolo potesse essere stato “imprigionato dal regime”, spiega padre Youssef.

“Abbiamo aspettato un suo segnale… nella prigione di Saydnaya”, dice, riferendosi al famigerato centro di detenzione da cui sono stati rilasciati i prigionieri dopo la caduta di Bashar al Assad.

“Ci sono state dette molte cose, tra cui che sarebbe stato visto nella prigione di Adra nel 2019”, alla periferia di Damasco, “ma niente di affidabile”, ha aggiunto.

Nato nel 1954, Paolo Dall’Oglio ha sostenuto il dialogo interreligioso. A Deir Mar Musa, cristiani e musulmani si sono incontrati per pregare fianco a fianco, rendendo il monastero un simbolo di convivenza.

Il monastero è stato un ponte per il dialogo tra i siriani, in un paese che “il precedente regime aveva diviso in comunità, alimentando la diffidenza reciproca”, sottolinea padre Youssef.

Circa 30mila visitatori vi si sono recati nel 2010, prima della guerra e della scomparsa di Paolo Dall’Oglio. Il monastero ha riaperto le sue porte nel 2022.

“Non conoscevo padre Paolo Dall’Oglio”, confida Chatha al Barrah, 28 anni, venuta al monastero per un ritiro spirituale. “Ma so che lui è come questo monastero, che apre il suo cuore a tutti, indipendentemente dal loro credo”, dice l’interprete mentre sale i trecento gradini che portano agli edifici, alcuni dei quali sono scavati nella roccia.

Per Julian Zakka, 28 anni, è stata la figura del sacerdote italiano a spingerlo a entrare nell’ordine dei gesuiti. “Padre Paolo Dall’Oglio si è battuto contro la confusione tra religione islamica ed estremismo – spiega – e ha insistito sul fatto che la coesistenza è possibile”.

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Assad si era presentato come un protettore delle minoranze in una Siria multietnica e multiconfessionale, mentre concentrava il potere nelle mani della minoranza alawita, da cui proviene.

“Il regime si presentava come nostro protettore, ma in realtà ci usava come scudo”, dice padre Youssef. Ha detto di sperare che “finalmente il peso che gravava sul nostro petto si è levato e possiamo respirare”, dopo decenni di “morte politica”.

E vuole trasmettere il messaggio di padre Paolo Dall’Oglio. “Riprenderemo le attività che amava tanto”, ha annunciato, tra cui una marcia prevista nella provincia di Homs, dove convivono alawiti, sunniti e sciiti.

“Il regime ha scavato profonde ferite tra le diverse comunità musulmane” a Homs, sottolinea. “Padre Paolo voleva organizzare una grande processione per pregare sulle fosse comuni, per essere un ponte tra le persone in modo che ascoltassero il dolore dell’altro, piangessero insieme e si tenessero per mano”.