15 febbraio 2019 22:11

Lo scontro tra il presidente statunitense Donald Trump e i democratici del congresso sulla costruzione di un muro al confine con il Messico ha preso una piega inaspettata. Trump ha firmato la legge di bilancio frutto di un accordo raggiunto faticosamente da democratici e repubblicani per evitare un nuovo shutdown (la chiusura parziale delle attività del governo), ma ha anche dichiarato lo stato d’emergenza nazionale, in modo da avere mano libera sulla costruzione della barriera, fortemente ostacolata dall’opposizione.

È uno scenario che in pochi avevano preso in considerazione nei giorni scorsi, ma che a ben guardare è l’esito più prevedibile per un presidente che deve costantemente trovare un equilibrio tra realismo ed estremismo, e che sogna da sempre di governare libero da contrappesi istituzionali. Trump non poteva accettare un nuovo shutdown, ben sapendo che l’opinione pubblica l’avrebbe considerato il principale responsabile di quello stallo, ma non poteva nemmeno rassegnarsi a una sconfitta sul tema intorno a cui ha costruito molto del consenso che due anni fa lo ha portato alla Casa Bianca (il compromesso raggiunto al congresso prevede lo stanziamento di meno di un terzo dei soldi che Trump aveva chiesto per il muro). Così ha preso l’ennesima decisione inusuale di una presidenza inusuale.

Una scelta che risolve la questione del finanziamento del muro (ora lo sappiamo per certo: a pagare non sarà il Messico ma i contribuenti statunitensi) ma che crea una serie di dubbi e problemi e che, alla lunga, potrebbe indebolire l’impalcatura istituzionale americana.

Trump potrebbe far ricorso al suo potere di veto, che gli consente di aggirare una decisione del congresso

Cominciamo dalle questioni di ordine pratico. Come spiega il Washington Post, un problema che la Casa Bianca potrebbe trovarsi ad affrontare è quello della proprietà dei terreni su cui dovrebbe essere costruito il muro: buona parte dei terreni statunitensi al confine non appartiene al governo federale. Se volesse andare avanti con il suo piano, l’amministrazione non avrebbe altra scelta che espropriare quei terreni, una scelta che sarebbe poco gradita alla maggior parte degli americani.

Il secondo problema per Trump è politico, riguarda le procedure parlamentari. Il National emergencies act, la legge che dal 1976 consente al presidente di dichiarare lo stato d’emergenza e di attingere a fondi federali teoricamente destinati ad altri progetti, prevede che se la camera approva una risoluzione contro il provvedimento del presidente, la questione passa automaticamente al senato, che può bloccare la dichiarazione con maggioranza semplice. È molto probabile che i democratici, che controllano la camera, decidano di percorrere questa strada, incentivati dal fatto che alcuni senatori repubblicani hanno criticato il presidente per la sua scelta e potrebbero votare per bloccarla. Se il congresso dovesse bocciare la dichiarazione sullo stato d’emergenza, Trump potrebbe far ricorso, per la prima volta da quando è presidente, al suo potere di veto, che gli consente di aggirare una decisione del congresso.

Questo scenario farebbe aumentare ulteriormente il livello dello scontro politico, spingendo i democratici a fare ricorso in tribunale contro la decisione del presidente. Una corte federale potrebbe bloccare il decreto di Trump (come è già successo sul cosiddetto travel ban) e, alla fine, la vicenda potrebbe arrivare fino alla corte suprema, che attualmente ha una solida maggioranza conservatrice.

I commentatori e i politici che criticano Trump continuano a ripetere che il numero di persone che dal Messico cercano di entrare negli Stati Uniti è molto più basso che in passato (1,6 milioni nel 2000, solo 400mila nel 2018) e che la situazione alla frontiera non si avvicina nemmeno alla definizione di emergenza. Sostengono anche che lo stato d’emergenza possa essere dichiarato solo per affrontare problemi per cui non si può aspettare il via libera del congresso, e non è questo il caso. Il modo in cui Trump ha usato lo spauracchio dello stato d’emergenza, minacciato e poi ritirato a seconda delle esigenze politiche, dimostra che non esiste nessuna urgenza e quindi nessuna emergenza. Una sensazione confermata anche dal discorso pronunciato da Trump per spiegare la sua decisione, in cui ha ammesso candidamente che “non aveva bisogno” di farlo; questa dichiarazione potrebbe indebolire i suoi argomenti quando la vicenda arriverà in tribunale. Ma resta il fatto che il National emergencies act non definisce cosa sia una vera emergenza e, al contrario, lascia ampia discrezionalità al presidente.

È la prima volta che un presidente usa poteri straordinari per realizzare un suo progetto politico

È difficile anche solo provare a fare una previsione su come potrebbe andare a finire. E soffermarsi sui precedenti storici aiuta fino a un certo punto. Guardando al passato si scopre che negli Stati Uniti le dichiarazioni d’emergenza da parte del presidente sono un atto abbastanza comune: dal 1976 ce ne sono state 58, 31 delle quali sono ancora in vigore (questo perché la legge dà al presidente la possibilità di rinnovare lo stato d’emergenza all’infinito).

Come ha spiegato il Washington Post, Bill Clinton ha fatto ricorso a questa prerogativa per 17 volte, George W. Bush per 12 e Barack Obama per 13. Nella maggior parte dei casi i provvedimenti dei presidenti servivano a giustificare sanzioni economiche verso persone che secondo i presidenti in carica potevano rappresentare una minaccia alla sicurezza nazionale (per esempio i funzionari iraniani e nordcoreani). In altri casi avevano l’obiettivo di fronteggiare una minaccia reale, come dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 (quella dichiarazione di stato d’emergenza è ancora in vigore) o come nel caso dello scoppio dell’influenza aviaria nel 2009.

Il provvedimento di Trump è diverso da quelli presi dai suoi predecessori perché sarebbe la prima volta che un presidente usa poteri straordinari per realizzare un suo progetto politico. E questo ci porta alla questione di fondo, che riguarda le implicazioni sul lungo periodo di uno stile di governo intollerante verso i meccanismi che servono a garantire i princìpi democratici e la separazione dei poteri.

Se Trump dovesse riuscire nel suo intento, creerebbe un precedente pericoloso, perché in futuro un altro presidente potrebbe usare la minaccia dello stato d’emergenza per realizzare provvedimenti che non sono sostenuti dal congresso, l’organo che esercita il potere legislativo ed è eletto dai cittadini. Lo hanno capito anche i repubblicani, che in queste ore hanno criticato la scelta di Trump proprio usando quest’argomentazione. Marco Rubio, senatore della Florida, ha detto: “Oggi l’emergenza è la frontiera, domani potrebbe essere il cambiamento climatico, e un presidente democratico decide di confiscare le piattaforme petrolifere”.

I contrasti tra esecutivo e legislativo negli Stati Uniti non sono cominciati oggi, e affondano le radici in un processo decennale di polarizzazione politica e di radicalizzazione di ogni incarico e istituzione. Ma oggi, con la scelta di Trump, il paese entra in una nuova fase della sua crisi politica.

Il New York Times ha intervistato la studiosa Elizabeth Goitein, che di recente ha scritto un articolo sull’Atlantic sui poteri del presidente in caso di emergenza: “Ogni volta che Trump fa qualcosa che sarebbe stata impensabile sotto altre amministrazioni, e ogni volta che si comporta in modi che siamo abituati a vedere nei regimi autoritari, un pezzo della nostra democrazia muore. So bene che una volta rotti gli argini aumenta il rischio che le leggi siano violate”.

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