05 marzo 2018 18:45

La terza repubblica è arrivata con un boato di esultanza, sceso dai piani alti dell’hotel Parco dei Principi di Roma fino alla sala stampa nei sotterranei. Quando in tv sono apparse le prime proiezioni dei risultati elettorali – intorno all’una di notte – i leader del M0vimento 5 stelle hanno urlato davanti allo schermo come se la nazionale di calcio avesse vinto i Mondiali. Solo qualche ora dopo abbiamo visto la scena sui social network, in un video girato con un telefonino.

Di Maio in prima fila abbraccia l’avvocato Alfonso Bonafede, aspirante ministro della giustizia. Più a destra l’ex giornalista Gianluigi Paragone, in seconda fila Davide Casaleggio e in fondo Alessandro Di Battista. Riunito in una stanza, un gruppo di trentenni e quarantenni festeggia le proiezioni che danno il Movimento 5 stelle al primo posto nella corsa elettorale. Dopo qualche minuto Di Battista, parlamentare uscente che ha scelto di non ricandidarsi, arriva nella sala stampa, si fa strada con sicurezza tra le telecamere e i microfoni, e sale sul podio per rilasciare una breve dichiarazione che dà il tono della posizione del suo partito: “Un trionfo, un’apoteosi”.

In poche parole Di Battista sintetizza quello che Di Maio spiegherà con più particolari il giorno dopo a risultati quasi definitivi: il Movimento 5 stelle è il primo partito e valuterà di coalizzarsi con gli altri, ma imporrà “i propri metodi” e si presenterà come un partito “di garanzia”. Di Battista rivendica i due elementi che hanno determinato il successo del partito fondato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio nel 2009: la promessa di sollevare una questione morale nella politica italiana e la volontà d’imporre le proprie regole del gioco, in contrapposizione a prassi democratiche consolidate.

L’obiettivo delle critiche è sempre lo stesso: la classe politica immorale e corrotta. La parola d’ordine è “il metodo”. Luigi Di Maio definisce “terza repubblica dei cittadini” quella cominciata con le elezioni del 4 marzo, richiamando alla memoria degli italiani il mito della seconda repubblica nata dalle ceneri di Tangentopoli, sull’onda di un impulso rinnovatore intercettato da Silvio Berlusconi nel 1994. Il leader dei cinquestelle si presenta come l’ultimo dei rottamatori, nonostante la sua base elettorale sembra essere in gran parte quella che si è raccolta intorno al rifiuto delle modifiche costituzionali proposte con un referendum nel 2016 dall’altro rottamatore Matteo Renzi.

Il partito della nazione
“Che ne pensate dei risultati? Ve lo aspettavate?”, chiede ai giornalisti italiani e stranieri Rocco Casalino, uno dei primi concorrenti del Grande fratello, responsabile della comunicazione dei cinquestelle. Le reazioni dei giornalisti, in attesa da ore del discorso di Di Maio, sono imbarazzate. Casalino con disinvoltura accompagna i parlamentari o gli aspiranti ministri in giro per la sala. La stampa straniera si sorprende che non ci siano attivisti a festeggiare l’eclatante risultato elettorale con i leader, che invece si sono rinchiusi in un albergo a cinque stelle di Roma.

La nottata elettorale scorre lenta: il dato delle prime proiezioni è confermato dai risultati che arrivano dal ministero dell’interno. Il Movimento 5 stelle è il primo partito con il 32 per cento, il Partito democratico (Pd) è sceso sotto alla soglia del 20 per cento e la Lega ha superato Forza Italia, alle costole del Pd con il 17,4 per cento. Nessun partito o coalizione è in grado di formare il governo senza alleanze.

Le politiche dei cinquestelle riguardano “temi, non ideologie”

Nessuno dei leader vuole parlare dei risultati: alla sede del Pd Maurizio Martina è l’unico che affronta i giornalisti e dice che la sconfitta del partito è “molto evidente”. Il segretario Matteo Renzi è rimasto a Firenze, dove aveva chiuso la campagna elettorale venerdì. Nemmeno i vincitori però smaniano per prendere la parola: Di Maio e Salvini affronteranno la stampa solo il giorno dopo il voto.

Per Salvini “il governo tocca alla Lega” e non ci saranno “alleanze strane”. Ha vinto la sua sfida di trasformare la Lega in un partito nazionale e di fare dell’intolleranza e dell’odio verso gli immigrati il collante capace di tenere insieme parti diverse del paese. Da questo punto di vista è emblematica la vittoria della Lega a Macerata, la città in cui il 3 febbraio l’estremista di destra e militante leghista Luca Traini ha aperto il fuoco contro sei immigrati, ferendoli.

Di Maio prende la parola dopo Salvini e prima di Renzi: l’atteggiamento è impettito e istituzionale come quello già mostrato nell’ultima fase della campagna elettorale quando a Roma, al tempio di Adriano, prima ancora del voto, ha presentato la squadra di 19 tecnici che vorrebbe portare al governo del paese. Il 5 marzo il giovane leader dei cinquestelle ha ringraziato gli undici milioni di elettori che hanno “dato fiducia al movimento”.

Come aveva fatto a piazza del Popolo, alla chiusura della campagna elettorale, Di Maio ha presentato il suo gruppo come “il partito della nazione”, rivendicando la fine delle ideologie e la nascita di un partito interclassista e intergenerazionale, che trova coesione nella rabbia e nel rancore verso il vecchio sistema politico. Un partito di rottura che vuole diventare “normale”, andare al governo. Le politiche dei cinquestelle riguardano “temi, non ideologie”, sostiene Di Maio. Ma poi anche nell’orizzonte postideologico, il leader è costretto a spiegare il suo programma, che prevede generiche misure populiste: tagli agli sprechi, sostegno al lavoro e alla povertà, gestione dell’immigrazione come questione di sicurezza. “Noi sentiamo questa grande responsabilità di formare il governo”, conclude Di Maio, che a 31 anni ha rottamato un rottamatore e ora spera di ottenere l’incarico per formare un governo dal presidente della repubblica Sergio Mattarella. In un hotel romano la notte del 4 marzo è cominciata l’epoca postideologica dell’uno vale uno e del tutti contro tutti, degli slogan cerchiobottisti del partito della nazione, che ha raccolto consensi con il Vaffa e ora promette di essere “liberale e solidale”, mettere tutti d’accordo e “non lasciare nessuno indietro”.

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