Il 15 maggio 2017 Javier Valdez Cárdenas è stato ucciso in pieno giorno in una strada centrale di Culiacán, la capitale dello stato messicano di Sinaloa, nel nordovest del paese. Stava uscendo dalla redazione del settimanale Ríodoce, la rivista che aveva fondato nel 2003 insieme a Ismael Bojórquez. Secondo le prime ricostruzioni, un uomo lo ha trascinato fuori dall’auto e gli ha sparato tredici colpi.
Valdez aveva cinquant’anni, era nato a Culiacán nel 1967, lì aveva studiato e si era laureato in sociologia. Dal 1998 era il corrispondente del quotidiano La Jornada e dell’agenzia Afp nello stato di Sinaloa. Scriveva regolarmente una column su Ríodoce intitolata Malayerba, erba cattiva, che era nata insieme alla rivista e le aveva dato un’identità. Nei suoi libri e nei suoi reportage Valdez raccontava la realtà violenta della sua città e del suo stato, il narcotraffico, i legami tra le istituzioni e la criminalità organizzata. Conosceva bene i rischi a cui andava incontro, ma non si è mai fermato. I colleghi lo ricordano così: “I suoi scritti sono stati un grido per raccontare quello che succedeva intorno a lui. Attraverso Malayerba, Valdez ha dato un volto, un’identità e una voce alle vittime. In quelle righe hanno parlato gli orfani del narcotraffico, le persone scomparse e le donne rimaste vedove. E da lì lui ha denunciato la corruzione”.
Valdez Cárdenas è il sesto giornalista ucciso in Messico dall’inizio dell’anno. Secondo Article 19, un’organizzazione britannica che si occupa di difendere e promuovere la libertà d’espressione nel mondo, dal 2000 a oggi in Messico più di cento reporter sono stati assassinati per motivi probabilmente legati al loro lavoro. Insieme alla Siria, all’Iraq e all’Afghanistan, il Messico è uno dei paesi più pericolosi del pianeta per i reporter e senz’altro il più pericoloso in America Latina. Il numero dei giornalisti uccisi, si legge nell’ultimo rapporto di Reporters sans frontières, aumenta ogni anno e la maggior parte degli omicidi resta impunito. Inoltre il clima di terrore, il disinteresse delle istituzioni, spesso colluse con i narcotrafficanti, e le ripetute minacce contro i professionisti dell’informazione costringono molti giornalisti e molte testate locali ad autocensurarsi.
Valdez aveva ricevuto numerose minacce. Nel 2011, quando andò a New York per ritirare il premio per la libertà di stampa assegnato dal Committee to protect journalists, la sede di Ríodoce e i suoi reporter avevano subìto un attacco violento. In quell’occasione Valdez pronunciò un discorso che in queste ore circola molto in rete: “Nei miei libri ho raccontato la tragedia che vive il Messico, una tragedia che dovrebbe farci vergognare. I giovani ricorderanno questi anni come un periodo di guerra. Il loro dna è fatto di fucili, pallottole e sangue, e così si uccide il domani. Siamo gli assassini del nostro stesso futuro”.
E il 25 marzo, in un tweet per ricordare Miroslava Breach Velducea, una giornalista uccisa a Chihuahua due giorni prima, Valdez ha scritto: “Hanno ucciso Miroslava perché parlava troppo. Che ci ammazzino tutti, se questa è la condanna a morte per raccontare quest’inferno. No al silenzio”.
Il giorno dopo l’omicidio di Valdez molti giornali messicani hanno sospeso le pubblicazioni in segno di protesta, altri sono usciti con la prima pagina nera. È stata una giornata senza giornalismo. “Volevamo organizzare una protesta diversa”, ha detto Daniel Moreno, direttore del sito Animal Político a Bbc mundo. “Siamo già stati testimoni di molti casi come questo e abbiamo sempre fatto lo stesso: raccontare i fatti. Questa volta era importante organizzare una protesta particolarmente rumorosa e forse il miglior modo di farci sentire è il silenzio”.
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