18 gennaio 2018 17:51

La mostra del Maxxi di Roma, Home Beirut, curata da Hou Hanru e Giulia Ferracci, ci avvicina all’incredibile dinamismo della capitale libanese, ma anche ai suoi dubbi più intimi, come se fossimo davvero persone di casa.

Già la skyline di Beirut lascia intravedere una città affetta da una grave amnesia: tanti grattacieli e costruzioni supermoderne svettano in mezzo a quartieri storici e appartamenti lussuosi spesso vuoti. Tutto testimonia gli investimenti globali che si sono concentrati sul suo sviluppo urbano: le archistar come Herzog & de Meuron, Arata Isozaki, Norman Foster, Steven Holl, Jean Nouvel e David Adjaye, insieme ad architetti locali come Nabil Gholam e Bernard Khoury, “hanno progettato e costruito una miriade di edifici residenziali e commerciali di grande impatto, e infrastrutture che trasformano la città in una metropoli contemporanea, snodo strategico nella rete delle città globali”, ci spiega Hanru al Maxxi di Roma durante i giorni di apertura della mostra.

Guerra e amnesia
Anche la politica libanese sembra spesso malata di amnesia: la guerra civile che ha lacerato il paese per quindici anni non ha messo fine alla spaccatura del paese, anzi: oggi la divisione è istituzionalizzata e coltivata dai partiti politici. C’è invece una parte della società civile, forse anche per controbilanciare l’amnesia della politica, che si è interessata al ricordo fino all’ossessione: i 36 artisti libanesi in mostra a Roma hanno questo in comune, “provengono da almeno tre diverse generazioni di artisti, ma il lavoro sul ricordo è fondamentale per tutti”, spiega Hanru. I fumetti di Mazen Kerbaj e Laure Ghorayeb illustrano perfettamente questo bisogno di capire e ricordare la guerra: Ghorayeb è poeta e illustratrice, Kerbaj è musicista e autore di fumetti: durante l’operazione militare israeliana in Libano del 2006, per esattamente 33 giorni hanno tenuto una corrispondenza a fumetti, trovandosi in due parti diverse della città.

I fumetti di Mazen Kerbaj e Laure Ghorayeb al Maxxi di Roma, novembre 2017. (Musacchio - Ianniello )

Il bisogno d’indagare nella memoria della guerra secondo Hanru è diventato “una missione collettiva. La raccolta dei documenti su carta, foto e video si è posta come forma emblematica dell’arte di Beirut negli ultimi decenni. È una tendenza talmente diffusa che qualcuno la prende in giro, dicendo che la mania dell’archivio è la malattia locale”.

Da questa malattia locale sono nati i più interessanti collettivi di collezionisti. In primis, The Atlas group dell’artista Walid Raad, che con il suo progetto durato oltre quindici anni (dal 1989 al 2004) ha gestito un gruppo che era di fatto una falsa fondazione dove ha raccolto tutti i suoi lavori che indagano sulla storia contemporanea libanese, con un’attenzione particolare alle guerre del Libano dal 1975 al 1991. In Home Beirut, Raad presenta il progetto architettonico Preface 2016-20 – mai realizzato – pensato con l’architetto Bernard Khoury, che prevede la realizzazione di una rete di tunnel sotterranei che metta in comunicazione i vari luoghi d’arte della città.

E Beirut pullula di iniziative culturali per l’archivio e il ricordo, come l’Arab image foundation, l’Arab center for architecture, la Foundation for arab music archiving and research nonché le più dinamiche rassegne della regione come Ashkal Alwan, o più recentemente il bellissimo Sursock museum, che ha riaperto le sue porte due anni fa.

La casa di chi è senza casa
L’altro grande paradosso di Beirut è che, da teatro di guerra, è anche diventata nella sua storia moderna una casa rifugio per migliaia di greci, armeni sfuggiti alle persecuzioni all’inizio del novecento, ma anche per milioni di palestinesi che si sono rifugiati qui nel 1948, dopo la naqba e, oggi per un milione di siriani, anche loro profughi. Paradossalmente, a fronte di questa massiccia immigrazione, i libanesi emigrati sono la maggioranza della popolazione: da otto a quindici milioni di libanesi vivono all’estero, contro i quattro che vivono nel paese. E di fatto la vivacità di Beirut è oggi al suo massimo durante le vacanze grazie ai libanesi che vivono all’estero e tornano per un periodo da “turisti”. È così che si spiega, anche secondo il curatore della mostra, una delle questioni più importanti della nostra modernità: “Sono arrivato dalla Cina a Parigi nel 1990. L’immigrazione e l’arte sono temi che mi hanno sempre interessato: come crearsi uno spazio per esistere come artisti immigrati, in un momento di tensioni e di aumento delle ideologie nazionaliste? A Beirut si continua questa riflessione sulla questione postcoloniale e sull’ibridazione dell’identità culturale, e quindi su come l’occidente evolve grazie all’arrivo degli altri”.

L’installazione Pillars: Duchamp’s bride (2015) dell’artista Marwan Rechmaoui al Maxxi di Roma, novembre 2017. (Musacchio - Ianniello )

Home Beirut fa sentire a casa chiunque si ponga domande sul futuro delle nostre città – tra speculazione immobiliare, gentrificazione dei centri storici, guerre e attentati – e mostra una nuova generazione di artisti libanesi per i quali la capitale è diventata il laboratorio del nostro futuro. E con nostro non s’intende solo noi mediterranei, ma l’evoluzione di una futura città globale.

L’intimità con la città è particolarmente forte durante la visita della mostra. L’installazione Beirut caoutchouc (2004-2008), una mappa di Beirut in gomma, di Marwan Rechmaoui dà il via: la città si può calpestare camminandoci sopra . Oppure si può passeggiare tra i detriti della guerra – come nella sua altra installazione Pillars: Duchamp’s bride (2015) – o tra le tende di Here and there, l’installazione di Roy Dib che ricorda quando nel 2013 gli abitanti della vicina Aleppo hanno dovuto cucire insieme le loro tende di casa per nascondersi dai cecchini.

Le quattro sezioni della mostra insistono tutte sulla città vista come una possibile casa per i migranti globali: la prima con Home for memory interroga la memoria su come ricostruirsi dopo quindici anni di guerra civile; la seconda crea una nuova geografia con Home for remapping, integrando la questione delle migrazioni e dei rifugiati; la terza sezione chiede se Beirut può essere Home for everyone, una casa per tutti; il percorso si conclude con la misteriosa specificità di Beirut home for joy: la gioia a volte inspiegabile che questa città regala, malgrado tutto quello detto finora.

“Lo stato esistenziale di casa senza casa che abbiamo cercato di descrivere è la condizione di chi vive nel mondo in questi tempi di incertezza. Si può imparare molto dall’esperienza di Beirut per affrontare la mutevole realtà dell’Europa, e del mondo intero”, spiega ancora Hanru.

Beirut città mediterranea e ultramoderna è colta in questa mostra con mille dubbi e domande. Data la ricchezza del contenuto esposto, sarebbe invece stato apprezzabile aggiungere la durata dei numerosissimi video per sapere anche quanto tempo dedicargli: da non perdere la danza del ventre di Entre les ruines (2014) di Sirine Fattouh dove si possono seguire i passi eleganti e sensuali di Alexandre Paulikevitch, l’incredibile danzatore del ventre libanese che Fattouh porta a ballare in mezzo alle rovine, o i fuochi d’artificio di Measures of distance (1988) di Joana Hadjithomas e Khalil Joreige, due degli artisti libanesi tra i più gettonati dopo aver ricevuto il premio Duchamp nel 2017, o ancora la ricostruzione e le domande che pone Lamia Joreige in Under-writing Beirut.

La città così presentata nell’intimità e nel dubbio somiglia a “una favola che mescola dolore, passione, speranza e amore, senza dimenticare odio e rimpianto, per tutti i viaggiatori e coloro che vi si trasferiscono. Ma dopo qualche momento di godimento, non si può evitare di chiedersi: da dove veniamo? Dove andiamo adesso?”. È la bella conclusione di Hanru che insiste particolarmente sul dialogo, cioè su tutto quello che gli europei possono imparare del Medio Oriente in piena implosione ma che continua a essere fonte di ispirazione: “Non si tratta di esotismo geopolitico, ma di capire l’intrinseca necessità, per noi europei, di imparare da altri e integrarci nel processo per cui il mondo in generale sta subendo trasformazioni rilevanti, trasformazioni che decideranno come vivremo in Europa, e come faremo arte negli anni a venire”.

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