20 marzo 2018 15:49

È l’anno di Napoli. Per la prima volta nella storia della repubblica il presidente del consiglio potrebbe essere un napoletano. L’immagine dell’Italia nel mondo è quella raccontata da due grandi saghe napoletane: L’amica geniale di Elena Ferrante – bestseller internazionale e prossima serie tv – e Gomorra, che ormai è una specie di immaginario in continua espansione.

Non è quindi un caso – ha anche a che fare con l’ottima disponibilità economica della Campania Film Commission – che tre su cinque dei film candidati ai David di Donatello che saranno assegnati il 21 marzo siano ambientati a Napoli e abbiano come protagonista proprio la città: La tenerezza di Gianni Amelio, Ammore e malavita dei Manetti bros, La Gatta Cenerentola di Alessandro Rak, Ivan Cappiello, Marino Guarnieri e Dario Sansone (un altro, Napoli velata di Ferzan Ozpetek, concorre in varie altre categorie).

Gli altri due candidati a miglior film sono Nico, 1988 di Susanna Nicchiarelli e A Ciambra di Jonas Carpignano, e hanno molto in comune con gli altri tre, in un’annata strana, ed economicamente deprimente, per il cinema italiano. Questa cinquina dei David però, proprio per le ragioni che la rendono anomala, è invece azzeccata: racconta un paese molto diverso da quello che vediamo iper rappresentato tutti i giorni e dalla retorica nazionalista che ha dominato l’ultima campagna elettorale.

Napoli sul grade schermo
La tenerezza di Gianni Amelio è la storia di Lorenzo, un vecchio avvocato napoletano, vedovo e in pensione (un incredibile Renato Carpentieri), che non parla con i figli da anni e che invece si affeziona ai nuovi vicini di casa, una coppia giovane con due bambini piccoli, che abita in città da poco: lui è di Trieste, lei di Ostia. Nonostante la gentilezza dell’avvocato, per i due appena arrivati Napoli non è un posto accogliente, e la depressione che cova Lorenzo deflagra: spara ai due figli, alla moglie e si suicida.

Lo stile di Amelio è quello di un melodramma famigliare senza possibilità di catarsi, Napoli è una città borghese in crisi e anonima; ci si parla a fatica, tra genitori e figli, tra coloro che un tempo furono amanti, tra chi è del posto e chi arriva da fuori. La scena in cui Lorenzo esplode contro un venditore ambulante di calzini, lo afferra e lo sbatte in terra, urlando: “Che volete! Tutti da me venite!” è dolorosa nella sua semplicità.

Anche La Gatta Cenerentola riesce a reinventarsi il melodramma napoletano e lo fa affidandosi al genere. Ne viene fuori un cartone animato che è un piccolo capolavoro.


Rak (che aveva già realizzato lo splendido L’arte della felicità su Napoli) si vale della collaborazione di una squadra ampissima, riprende la fiaba omonima di Roberto De Simone e la ambienta in un futuro sgangheratamente distopico. Qui Vittorio Basile – armatore e scienziato utopista – dopo aver creato una nave magica capace di trasformare i ricordi in ologrammi, ha il progetto di convertire il porto di Napoli in un polo della memoria e della scienza. Ma Salvatore Lo Giusto, un trafficante di droga, ammazza Basile in combutta con la bellissima Angelica, sua amante. Naufraga così, pare per sempre, il sogno di riscatto della città. Il film racconta la strenua alleanza dei superstiti. Non è difficile cogliere metafore in ogni scena, allusioni a un futuro che è stato promesso e poi tradito. Da segnalare assolutamente è Mariano Rigillo, attore napoletano oggi quasi novantenne, che è la voce di Vittorio Basile.

Ammore e malavita gioca con l’immagine spettacolare di Napoli, con la sua commerciabilità, persino con il suo essere una terra guasta; ed è una specie di coloratissima parodia in musical del mondo cupo di Gomorra, in cui sembrano mischiarsi l’estetica dei film di Nino D’Angelo, degli Squallor, di Un posto al sole, della narrazione a uso turistico del sindaco De Magistris – un modello simile a quello che aveva inventato Roberta Torre sulla mafia siciliana vent’anni fa con Tano da morire. L’amalgama però non riesce del tutto perché per fare una parodia ci vuole anche la capacità di trasfigurare l’immaginario non solo quella di rimescolarlo; altrimenti il rischio è quello della maniera o della caricatura.

Gli altri due due elementi significativi di questa cinquina sono la musica e la lingua.

Si canta e si balla molto. Nel bellissimo Nico, 1988 di Susanna Nicchiarelli, che è finalmente un film europeo: il racconto dell’ultimo tour della cantante Nico tra Parigi, la campagna polacca e la provincia italiana. Le scene dei concerti e l’uso della musica riescono a essere lancinanti nella loro scabra esposizione. E soprattutto va dato merito a Nicchiarelli di aver messo insieme un cast fantastico, internazionale: la band-comunità che accompagna Nico (la danese Trine Dyrholm, magistrale) è composta da una serie di personaggi meravigliosi che si valgono tutti di interpretazioni gioiello.

Ascoltare il dialetto dei tre film napoletani o la lingua internazionale di Nico, 1988, o guardare le scene chiave in tribunale della Tenerezza (la figlia dell’avvocato è una traduttrice giuridica per i migranti), e pensare che ancora in Italia al cinema si doppiano i film fa un po’ cadere le braccia. Ancora di più guardando l’ultimo candidato, il piccolo caso della stagione, A Ciambra di Jonas Carpignano, ambientato in una comunità rom calabrese di Gioia Tauro, che vive a pochi chilometri dagli insediamenti africani vicino a Rosarno: l’identità meticcia dei nuovi italiani passa per una lingua continuamente rimodulata, frammentata, una continua conquista. Così A Ciambra non è soltanto il romanzo di formazione di Pio – il ragazzino protagonista, che resta all’improvviso a essere l’unico uomo di casa – ma anche il romanzo di formazione dello spettatore che si trova finalmente a interrogarsi su cosa significa oggi appartenere a una comunità che si definisce italiana.

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