31 agosto 2017 14:48

A Ciambra comincia con una panoramica sulle montagne. Una lenta, delicata carrellata in avanti accompagna l’incedere, stabile ma con qualche incertezza, di un uomo ripreso di spalle verso un cavallo immobile nell’erba. Quando l’uomo è vicino la figura sfumata del cavallo diventa nitida. Le montagne di un verde avvolgente, aggiungono intensità al cielo plumbeo. L’uomo si appoggia alla testa del cavallo e ne accarezza teneramente la criniera. Le montagne calabresi sembrano quasi l’Anatolia di un film di Nuri Bilge Ceylan.

Non potrebbe essere più forte il contrasto con la scena seguente, concitata e brutale, in cui ci si sposta in un ambiente casalingo dove un ragazzino si lancia contro una porta urlando come un ossesso. Le inquadrature mosse e i pochi stacchi di montaggio esprimono l’approccio del regista che s’inserisce in una tendenza che da anni percorre il cinema d’autore internazionale più interessante, cioè la commistione tra documentario e film di finzione. A ben vedere un’ambiguità percorre l’intero film, rivelatrice di una vera finezza e maturità di regia e fotografia, già enunciata nel prologo.

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Il regista di A Ciambra, Jonas Carpignano, ha vissuto a lungo negli Stati Uniti ma non ha mai smesso di pensare all’Italia, alle sue zone povere e remote, mettendo al centro gli emarginati che le abitano. Dopo l’ottimo Mediterranea, purtroppo inedito in Italia malgrado la positiva presentazione a Cannes nel 2015, ora, grazie alla lungimiranza di Accademy Two, arriva in sala il suo secondo lungometraggio, il migliore dei film italiani visti quest’anno a Cannes. È stata una delle rivelazioni della Quinzaine des réalisateurs, dove ha vinto l’importante Label cinemas award come miglior film europeo. Anche se non è un capolavoro – ma siamo convinti che Carpignano possa stupire ulteriormente in futuro – si tratta un film eccellente e soprattutto molto originale.

Come in Mediterranea siamo di nuovo in Calabria, per raccontare il rapporto tra rom e africani nella zona di Gioia Tauro, dove c’è una sorta di enclave, la Ciambra appunto, con casermoni in cui le due comunità vivono gomito a gomito. Carpignano ci fa seguire le vicissitudini quotidiane di un ragazzino rom, Pio Amato, circondato da una famiglia davvero numerosa, a cominciare da suo fratello Damiano che nel film è Cosimo. Ma Damiano guarda caso ha un gemello che si chiama Cosimo. Unitarietà, specchio, osmosi con la dualità pervadono coerentemente ogni livello del film.

Un giovane combattente
Pio è astuto e avventato, sia che penetri in una casa di italiani poco raccomandabili sia che rubi un’auto. È intelligente, fiero, inarrestabile, indomabile. Una forza della natura che buca lo schermo. Il regista riesce a trovare un equilibrio, sottile ma preciso, per farne un personaggio a cui lo spettatore aderisce quasi fisicamente. Nessuna retorica dell’eroe-bambino però, nessuna enfasi umanistica, perché se Pio è un eroe, lo è a modo suo.

Quello di Pio è un ritratto come non se ne fanno più nel cinema italiano. Un ragazzo alla ricerca affannosa ma ostinata, caparbia, di un punto di riferimento, di un appoggio nell’amore, nell’affetto. Questa la sua impresa eroica. Dietro ai piccoli avvenimenti che si succedono nella comunità, dietro al caotico guerreggiare e sovvertire di Pio troviamo un adolescente che si sta affacciando all’età adulta in conflitto con la famiglia. È combattivo ma in fondo spaurito come chiunque si trovi di fronte all’entrata in una terra incognita. La richiesta di attenzione e amore per quanto confusa è evidente. E la frenesia che in numerosi tratti pervade il film è come il riflesso del caos e dell’inquietudine di Pio.

Inquietudine e caos sfociano in un rapporto empatico e intenso con la comunità di immigrati africani e in particolare con uno di essi, un giovane molto carismatico. Pio è spontaneo, privo di pregiudizi e tratta tutti allo stesso modo, compresi i “marocchini”, come i rom chiamano gli africani.

Carpignano riproduce con vivida precisione i dialoghi delle due comunità. Sembra tutto spontaneo, ma tutto è scritto. Il suo film ritrova gli intenti del neorealismo, senza mai scimmiottarlo scolasticamente. In effetti il suo stile è diverso, forse più prossimo a quello dei fratelli Dardenne o di Robert Bresson. E siamo lontani da tanto cinema italiano che scivola nell’ovvio e nel telefonato, dai facili sentimentalismi e dagli ammiccamenti. Gli stati d’animo, la sofferenza e la condizione umana sono restituiti attraverso un’attenta rappresentazione dei comportamenti e degli eventi che ne conseguono. Nel movimento della vita.

Grazie a una sensibilità pittorica il regista riesce a rendere bello tutto quello che inquadra, anche i rifiuti

L’intero film in realtà, dietro un’apparenza documentaria, rifiuta l’eccesso di evidenza dell’immagine patinata, la fotografia del film fa percepire la grana dell’immagine, è frequente una sorta di effetto di sospensione, di galleggiamento della temporalità, sono ripetute le tonalità di verde scuro e grigio-azzurro, anche nei ricorrenti tramonti, albe e crepuscoli, creando un effetto ovattato, uterino. Il regista, anche grazie a una troupe affiatata, rivela una sensibilità pittorica, non pubblicitaria, riuscendo a rendere bello tutto quello che viene inquadrato, anche i rifiuti. Riesce quindi a esprimere atmosfere intense, in bilico con l’onirico, che culminano con la lunga sequenza notturna dove ritroviamo l’uomo e il cavallo del prologo.

E poi si crea un tono intimo e di forte empatia verso esseri umani che sono quotidianamente oggetto di odio e diffidenza, verso le minoranze etniche, verso azioni che normalmente non sono considerate buone. Ma il film rovescia l’equazione: comportamenti ritenuti cattivi non equivalgono per forza a esseri umani cattivi. Un’empatia rivoluzionaria perché va contro tutto quello che mezzi d’informazione e politica riversano contro di loro.

Tutto questo è espressione di qualcosa di cui il regista stesso, è importante sottolinearlo, è rimasto vittima nel lento avvicinamento alle due comunità. Malgrado tutto ha però trovato una famiglia e, lungo la strada, il prezioso contributo di Martin Scorsese. Del resto, nel ritrarre con modalità impressionistiche, rapsodiche, un adolescente marginalizzato all’interno della società e poi all’interno del proprio gruppo, il film valica le frontiere italiche e si fa metafora del caos interiore di tutti i marginali.

Alla fine lascia lo spettatore impregnato di quel mondo, che in qualche modo non vuole più abbandonare. Siamo liberi di leggere il finale come preferiamo perché alla fine sono i piccoli gesti, i momenti fugaci, quelli che contano, quelli che restano. Come stringersi delicatamente a un cavallo o stringersi teneramente a un uomo-fratello nero. Carpignano, alla fine, va controcorrente in quest’Italia confusa e alla ricerca di un punto di riferimento, mentre sembra scegliere sempre quello sbagliato. Prova a cambiare il nostro sguardo. Uno di quei gesti che l’arte lascia a memoria futura. A Ciambra è un atto politico senza esibizione dell’atto politico.

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