28 maggio 2018 17:40

“Ci vuole tempo e lavoro affinché un uomo forgiato dal male e dalla sofferenza, possa giungere a una nuova identità, pur continuando a essere se stesso”, scrive in un testo intitolato Catarsi Francesco S., un uomo di sessant’anni che ho conosciuto un mese fa nel carcere di Saluzzo, e che uscirà nel gennaio 2019, dopo trent’anni di reclusione.

Quest’anno gli incontri per me più significativi dal punto di vista culturale, spirituale e intellettuale li ho avuti nella sezione di alta sicurezza del carcere piemontese. Sono andato tre volte nella casa di reclusione Rodolfo Morandi per un progetto del Salone del libro in collaborazione con l’ufficio scolastico del Piemonte intitolato “Adotta uno scrittore”: tre appuntamenti, di tre ore ciascuno, in cui erano coinvolti una trentina di detenuti che frequentano la scuola interna e una trentina di studenti delle ultime classi del liceo Soleri-Bertone, che si trova nel centro di Saluzzo (poiché organizzare un pullman costerebbe troppo, gli insegnanti e gli alunni maggiorenni si organizzano con dei passaggi in macchina). L’anno scorso, per lo stesso progetto (scuola e carcere), era stato invitato Alessandro Leogrande, morto il 26 novembre 2017 e ricordato da tutte le persone con cui ho avuto a che fare con un dolore e una nostalgia incredibili.

L’idea iniziale del progetto, finalizzato alla promozione della lettura e della scrittura, era discutere di scuola e formazione.

In carcere hanno fatto alcune esperienze di formazione: si sono diplomati o hanno imparato a leggere e scrivere

Il regime di alta sicurezza in Italia – come chiarisce l’associazione A buon diritto – “non è disciplinato né dall’ordinamento né dal regolamento penitenziario, ma dalle circolari del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) e c’è un’ampia discrezionalità dell’amministrazione penitenziaria nella gestione delle sezioni di alta sicurezza”. È previsto essenzialmente per detenuti per reati di mafia, terrorismo internazionale, traffico di stupefacenti: si viene sottoposti a una sorveglianza maggiore degli altri detenuti e la possibilità di accedere a permessi è ridottissima.

Molti dei detenuti di Saluzzo, inoltre, sono condannati all’ergastolo ostativo, che viene inflitto a chi presenta “pericolosità sociale” ed elimina qualunque beneficio (come il regime di semilibertà, la libertà condizionale, permessi premio, riduzione della pena) previsto per gli ergastolani comuni. In sostanza ergastolo ostativo vuol dire fine pena mai. In Italia, secondo le ultime stime, ci sono circa 1.100 ergastolani ostativi (su 1.600 condannati all’ergastolo).

Nella casa di reclusione Rodolfo Morandi parliamo, quindi, di persone che hanno trascorso più della metà della loro vita in carcere, che in carcere hanno fatto alcune esperienze di formazione fondamentali: si sono laureati, per esempio, o diplomati, o hanno preso la licenza media, hanno imparato a leggere e scrivere. Hanno compiuto, alle volte in modo esemplare, quel percorso di rieducazione che la costituzione prevede come ragion d’essere del carcere.

Salvatore T., ergastolano ostativo, 47 anni, in carcere da quando ne aveva 20, ha scritto per gli studenti del liceo un testo in cui parlava della sua condizione. L’ha letto al primo incontro.

Cari ragazzi, cosa significa vivere così? Proverò a darvene un’idea proponendovi la seguente riflessione: immaginate di vivere dentro una stanza grande quanto uno sgabuzzino; una stanza che abbia il lettino rivolto verso l’entrata e sia chiusa da un cancello e da una porta di ferro che lascia spazio alla luce solo attraverso una piccola feritoia. Immaginate, ora, di aprire ogni mattino gli occhi e di trovarvi a fissare questo cancello e questa porta, trovando dentro il cuore la speranza che prima o poi si aprirà e, subito poi, fulminea, vi sovvenga la consapevolezza che questa speranza è soltanto il vano tentativo di allontanare da voi la verità: quella di essere destinati a invecchiare e a morire in carcere. Vivere l’ergastolo significa appunto questo: abitare dentro un presente che trascorre uguale un giorno dopo l’altro senza prospettive né promesse, solo in attesa che la tua vita, inutilmente, si esaurisca.

Salvatore T. è cresciuto in un ambiente di criminali, oggi è un uomo di mezz’età, che racconta come il punto di svolta per venire fuori dal suo contesto sia stato il momento in cui ha capito che doveva essere un riferimento per il fratello, che altrimenti avrebbe rischiato il carcere o peggio la vita, come era capitato a molti compagni con i quali era cresciuto. In un altro testo, intitolato Ecchimosi di un ergastolo scrive:

‘Per fortuna, non hai figli a cui pensare’, mi diceva l’altro ieri Gianni il Navigato, che di figli ne ha quattro, immaginando che, quando ne avessi avuto, mi sarei sentito maggiormente afflitto dalla mia condanna.
Per fortuna, diceva… Io però non riesco ancora a decidere se lo sia oppure no. A dire il vero, il ricordo dei miei nipoti, di Lollo, di Gigia, di Moretto e di Nemi, di questi piccolini che mi guardano con occhi incerti ma curiosi e mi donano dei sorrisi così innocui e cari, mi suggerisce che avere una figlia aiuta ad essere lieti persino in questa morte…

Il rapporto con i figli, o con le generazioni per le quali dovremmo essere adulti, è un tema ricorrente nelle testimonianze dei detenuti. Una storia simile me la racconta Giuseppe P., anche lui detenuto per associazione a delinquere, che in carcere ha letto anni fa il suo primo libro, La bella estate di Cesare Pavese, perché – mi dice – non riusciva più ad avere un dialogo con i figli. “Sono entrato qua dentro che i miei figli avevano pochi anni, quando hanno cominciato ad andare a scuola mi sono reso conto che non potevo parlarci di niente, e allora ho cominciato ad andare a scuola pure io, cercando di andare bene, perché non è che poi posso prendere cinque e rimproverarli se hanno preso sei”.

Qualche settimana fa, attraverso un volontario, Salvatore ha comprato il libro di Umberto Eco Sulle spalle dei giganti per regalarlo all’insegnante coordinatrice del progetto, Rossella Scotta. È lei che mi accompagna in questi incontri e ci tiene a farmi capire che questi frutti non sono casuali, ma fanno parte di un processo lungo e impegnativo che avviene in carcere. Ecco una riflessione che Scotta ha scritto a quattro mani con Salvatore T.:

Tra coloro che scontano pene lunghe ho trovato le persone più consapevoli: sono i detenuti che hanno saputo dare un senso alla pena e che – finalmente lontani dalle carte giudiziarie che hanno assorbito per anni ogni loro energia mentale – vivono la loro catarsi. I miei studenti hanno capito che per loro non è il diploma a essere importante, ma il loro essere studenti, la loro scelta di venire a scuola ogni giorno per migliorarsi e per interagire con la società civile. Per questo, finito il ciclo, molti vogliono ricominciare dalla classe prima come tutor dei futuri compagni, non più solo per sé, ma anche per gli altri.

Quel metodo che spesso nelle classi delle superiori si tenta di applicare con fatica, la peer education, tra pari, qui in carcere avviene con dei ribaltamenti pedagogici davvero sorprendenti.

Al terzo incontro di “Adotta uno scrittore” ha preso la parola Ludovica, una ragazza di 17 anni che l’anno scorso insieme alla sorella Virginia, 19 anni, e un’altra compagna, Stefania, ha tenuto un corso di teatro in carcere riscrivendo e mettendo in scena con i detenuti La parola ai giurati (da cui Sidney Lumet trasse un famoso film nel 1957), un classico del teatro sul tema della giustizia. Ascoltare questa ragazza spiegare con voce chiara il lavoro drammaturgico e registico che hanno fatto, come hanno assegnato le parti, le varie fasi del corso, fino alla rappresentazione; e poi sentire i detenuti coinvolti, uomini di cinquanta sessant’anni, confermare il valore della loro esperienza come alunni di un corso tenuto da due postadolescenti, era paradossale e splendido.

Master in sofferenza
“La scuola è autorevole perché è credibile”, mi dice Emilio T., ergastolano anche lui, colto e riflessivo, che a un certo punto chiosa una discussione sul senso dell’educazione con una frase lapidaria: “Io qui sto facendo un master sulla sofferenza umana”. Tra un incontro e l’altro gli propongo di ragionare sulla questione dell’istruzione e lui butta giù un testo di quattro cartelle in cui commenta:

Nelle vite di tutti noi, ogni giorno, in ogni luogo della terra, troviamo decine di prove oggettive che le classi meno abbienti sono penalizzate anche dal punto di vista comportamentale e scarseggiano quanto ad adesione al patto sociale. Variamente inurbani, cafoni, coatti, maleducati, incivili e nei moltissimi modi possibili per descriverli, i poveri non si sanno comportare in società e non rispettano il prossimo, spesso arrivando ad atteggiamenti aggressivi e violenti verso gli altri per mancanza di consapevolezza. Noi detenuti abbiamo un punto di vista privilegiato per toccare con mano quello che i liberi vedono distrattamente e meno frequentemente, essendo, come noto, il carcere luogo di concentrazione degli effetti nefasti dei fallimenti pedagogici e sociali. I prigionieri, infatti, per una serie numerosissima di motivi che hanno a che fare con l’ingiustizia sociale, sono per lo più non scolarizzati, soffrono degli analfabetismi più diversi, dall’incapacità di leggere e scrivere, passando per l’impossibilità di comprendere concetti elementari, per giungere alla difficoltà di gestione degli ambiti emotivi e affettivi.

Un documentario del 2013, Recidiva zero, raccontava la scuola in carcere, la rete di scuole ristrette sviluppata da Anna Grazia Stammati (che lavora a Rebibbia), e ne rilevava le difficoltà: dalla luce per studiare, all’assenza di aule, al modo di ottenere i libri da fuori. “Educazione diffusa per me è la parola chiave”, ribadisce Rossella Scotta. “Vorremmo seguirli anche fuori, non soltanto per continuare a sostenere il loro percorso formativo e di risocializzazione, ma per chiedergli di aiutarci con gli altri, gli studenti che stanno dentro e quelli che stanno fuori”.

Al Salone del libro di Torino doveva partecipare Francesco S. per leggere un suo testo. Sarebbe stato il primo permesso in trent’anni per un uomo che finirà di scontare la sua pena di trent’anni tra otto mesi. Qualche giorno prima gli è stato comunicato che la domanda di permesso era stata respinta. Si è arrabbiato, ma poi ha scritto una lettera a Maria Virginia, la studentessa che ha letto il suo testo all’incontro al suo posto:

Carissima Maria Virginia, con la tua lettura tu hai dimostrato amore verso gli emarginati: spero che ci saranno momenti in cui ti potrò dimostrare che anche un camorrista, nel momento che si ravvede e prende consapevolezza del male che ha recato alle persone, può dare amore senza essere ricambiato, cosa inimmaginabile nel periodo che ha albergato il buio nella sua vita.

È proprio la relazione che gli studenti di fuori hanno con quelli di dentro la cosa più sorprendente. Alcuni dei ragazzi che hanno partecipato l’anno scorso al progetto hanno deciso quest’anno di tornare, altri sono lì e prendono appunti, fanno domande, si raccontano, riportano l’esperienza nelle loro classi. Dopo poche ore dentro il carcere, le discussioni sui temi come la giustizia in Italia, i suoi tempi, i suoi luoghi, ma anche sulla mafia o sulla violenza, acquistano immediatamente un altro senso, più umano e comprensibile.

Nel secondo dei tre incontri la sorveglianza del carcere aveva deciso che, nella stessa aula, gli studenti esterni e quelli ristretti dovessero essere separati. La cosa era sembrata insensata e contraria al senso del progetto, quello di un laboratorio didattico integrato. Ma invece di recriminare tutti i partecipanti hanno deciso di ragionare e lavorare in modo espressivo e ironico su questa separazione: ne sono venuti fuori racconti e vignette. Come se per inventarsi un nuovo modello politico, sociale, comunitario, si dovesse provare a immaginare davvero un altro linguaggio.

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