31 maggio 2017 16:33

Perché odiamo la musica classica moderna, la troviamo ostica, noiosa e difficile, mentre siamo pronti a metterci in fila per una mostra di astrattisti, cubisti o espressionisti astratti? Eppure le soluzioni formali di artisti come Kandinskij, Braque e Pollock sono radicali quanto quelle di Schönberg, Berg e Stockhausen. Se lo chiedeva Alex Ross, il critico musicale del New Yorker, in un articolo uscito sul Guardian nel 2010. Ross dà una spiegazione su più piani che possiamo riassumere così: non esiste un gusto preformato per la musica, i gusti sono il risultato della formazione e dell’esposizione a determinati tipi di espressione artistica. Il Wozzeck non è più “difficile” dell’Italiana in Algeri o del Rigoletto: è solo diverso.

Il problema sono le istituzioni della musica classica, ipotizza Ross, che tra sponsor e finanziatori sono troppo spesso legate a un’idea di “bellezza consolatoria” e di raffinatezza antiquaria della musica. “Immaginate la rabbia di Beethoven se sapesse che oggi la sua musica viene diffusa nelle stazioni ferroviarie per rilassare i pendolari”, concludeva il critico.

Molti di noi, dunque, quando si siedono a un concerto di musica classica hanno un’idea preconcetta e molto limitante dell’esperienza che stanno per fare. Per fortuna le cose stanno cambiando: oggi molte opere del novecento sono ormai di repertorio anche nei teatri italiani, e spesso offrono molte buone chiavi di lettura della contemporaneità.

La Lulu di Alban Berg, andata in scena all’Opera di Roma dal 19 al 30 maggio con la direzione di Alejo Pérez, è un’opera dei primi anni trenta lunga (tre atti da 55 minuti) e musicalmente impegnativa. Il libretto è tratto da due drammi di Frank Wedekind, Lo spirito della terra e Il vaso di Pandora. Un intermezzo orchestrale, durante il quale Berg voleva che fosse proiettato un breve film, fa da cerniera tra i due testi di Wedekind. La musica è ricca e complessa: “È un’opera di sintesi”, scrive Giovanni Bietti nel suo saggio nel programma di sala, “forse davvero insuperata per la complessità dei riferimenti, la sottigliezza della costruzione drammatica, la ricchezza di relazioni interne”. Nella partitura decisamente moderna e atonale di Lulu esplodono ogni tanto forme più familiari: il ragtime, l’operetta, un leitmotiv come nelle opere di Wagner, un duetto, un arioso. Ma sono forme che Berg usa come segni per caratterizzare certe scene e certi personaggi.

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Lulu è anche un’opera impegnativa per i cantanti. La protagonista è un soprano di coloratura (la sera del 30 maggio era la straordinaria Dísella Lárusdóttir) che ha, come fa notare Bietti, la stessa tessitura vocale della Regina della notte del Flauto magico di Mozart. Ma a differenza della Regina della notte sta in scena tutto il tempo e alterna sensualità, giocosità, pazzia, crudeltà e disperazione. L’opera (il cui terzo atto fu completato e ripristinato dopo la morte di Berg dal compositore austriaco Friedrich Cerha) ha una sua logica interna ferrea. È un lavoro teatrale circolare in cui temi e situazioni ricorrono e si specchiano lungo i tre atti. Là dove la musica appare spezzata e “difficile”, l’azione teatrale risucchia lo spettatore in un mondo che funziona come un orologio. La bella e spietata Lulu uccide o vede morire una serie di mariti e di amanti per vederli ricomparire – gli stessi cantanti ma con una diversa identità – come clienti del bordello in cui si trova, ormai finita, a prostituirsi. L’ultimo cliente, speculare al dottor Schön, l’uomo che forse l’aveva amata di più, è Jack lo squartatore, che la farà a pezzi tra urla espressioniste e fiumi di sangue.

La regia del sudafricano William Kentridge è l’elemento che riesce a legare tutte queste complessità e a renderle leggibili. Kentridge, amatissimo a Roma per il grande fregio Triumphs and laments che donò alla città l’anno scorso, usa le sue straordinarie capacità manuali e pittoriche per stabilire un rapporto empatico con lo spettatore. Il regista-pittore crea, grazie a un sistema di proiezioni su una scenografia sghemba ed espressionista, un secondo piano di lettura visivo, quasi un graphic novel, che scorre lungo tutta la durata dell’opera. Il suo segno è nero e deciso, i suoi volti sono espressionisti, i suoi nudi femminili ricordano sia la prestanza fisica di Picasso sia l’erotismo un po’ malato di Schiele. Ogni tanto la pennellata di Kentridge si fa astratta e violentemente gestuale, spesso nelle scene più violente.

Nella Lulu di Berg scorre molto sangue: è un’opera in cui muoiono in maniera violenta praticamente tutti i personaggi. A differenza del sangue che la lady Macbeth di Verdi crede di vedere e che cerca di lavarsi via dalle mani (“Una macchia è qui tutt’ora”), il sangue in Lulu è tutto vero e ben visibile a tutti. È sia il sangue dei morti ammazzati sia quello tossico che scorre nelle vene della protagonista, che fin dal prologo viene descritta da un banditore da circo come una belva o un serpente, non come un essere umano.

Lulu non ha scelta: la sua bellezza e la sua libertà sessuale sono un motore di distruzione

La regia di Kentridge svela bene quanto la Lulu di Berg sia la frammentazione cubista di una figura letteraria particolarmente cara al decadentismo e alla secessione viennese: la belle dame sans merci, la bella dama senza pietà. Lulu non ha scelta: la sua bellezza e la sua libertà sessuale sono un motore di distruzione e gli uomini della sua vita hanno ancora meno scelta, sono falene che bruciano nella fiamma che le attrae. La Lulu è stata spesso letta come una grande metafora dell’ipocrisia borghese in fatto di costumi sessuali: tutti i personaggi maschi fanno cose senza dirle, nascondono le proprie pulsioni dietro a un paravento di rispettabilità. L’unica a essere naturale, disinibita e scoperta è Lulu. Che però è un animale, oltre a essere una manipolatrice, una ricattatrice, una ninfomane e una puttana psicotica.

Eppure questa messa in scena di Kentridge ci regala una prospettiva in più e ci offre una visione inedita, quasi in soggettiva dalla parte di Lulu, che non ha una personalità propria ma è come un lenzuolo bianco su cui ogni maschio proietta la sua fantasia erotica e romantica. All’inizio dell’opera posa nello studio di un artista. Kentridge le piazza sulla testa un cilindro di cartone con una faccia dipinta. Tre pezzi di carta scarabocchiata attaccati sul seno e sul pube suggeriscono la sua nudità. Lulu dunque non ha neanche un corpo. Fin dalla prima scena le sue forme e il suo sesso sono già immaginati da qualcun altro.

Nel corso dell’opera Lulu cambia mille facce a seconda di chi la desidera. È una moglie perfetta, una frivola ballerina di varietà, la musa di una contessa lesbica, una prostituta da sfruttare, una merce di scambio e poi, nella terribile scena finale, è solo una bestia da ammazzare. In questa rilettura dell’opera di Berg, Lulu sembra incarnare il concetto di Simone de Beauvoir della donna come “altro”. Lulu è sempre qualcosa per qualcuno ma non è mai persona. E la sua ferinità sembra essere solo il frutto della deumanizzazione a cui è stata sottoposta fin dalla nascita.

L’ultimo personaggio a morire, la contessa Gerschwitz (il 30 maggio era Jennifer Larmore), in un afflato quasi belcantistico canta davanti al corpo squartato di Lulu: “Angelo mio! Fatti vedere ancora una volta! Ti sono vicina! Ti rimango vicina! Per l’eternità”. Non è certo un caso che le ultime parole d’amore per Lulu, forse le uniche di tutta l’opera, le arrivino da una donna.

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