11 giugno 2017 14:11

L’ultima edizione del Primavera Sound di Barcellona è stata decisamente eclettica. Se l’anno scorso il cartellone era dominato dall’ingombrante presenza dei Radiohead, quest’anno la mancanza di un vero nome pigliatutto ha favorito la biodiversità. Grace Jones, Arcade Fire e Van Morrison hanno offerto performance memorabili, ma a vincere quest’anno è stato il piacere dei nomi meno prevedibili, delle scoperte e delle piccole occasioni uniche.

Il doppio spettacolo dei Magnetic Fields all’Auditori Rockdelux è stata una di quelle occasioni da “quando mi ricapita” che rende il Primavera Sound un appuntamento irrinunciabile.

Stephin Merritt, il proteiforme cantautore statunitense alla guida del progetto Magnetic Fields, ha da poco pubblicato un quintuplo album (cinque cd e cinque dischi nella costosissima edizione in vinile) intitolato 50 songs memoir.

Merritt ha composto 50 canzoni, una per ogni anno della sua vita, fino a compilare una specie di sghemba e a tratti commovente autobiografia. Ha cantato, con la sua voce baritonale, tutte e 50 le canzoni e ha suonato più di cento strumenti diversi, dall’ukulele al sintetizzatore.

Il progetto autobiografico
L’artista non è nuovo a operazioni del genere: l’album che è tutt’ora considerato il capolavoro dei Magnetic Fields è 69 Love songs ed è, appunto, formato da 69 canzoni d’amore stipate in tre densissimi cd. Nel 2004, poi, pubblicò un album intitolato semplicemente i, in cui ogni titolo di canzone cominciava con la lettera i. I in inglese vuol dire “io”, ma a differenza di 50 songs memoir, i aveva ben poco di autobiografico.

Al Primavera Sound, Merritt ha deciso di eseguire, accompagnato da una numerosa band, tutte e 50 le canzoni del suo progetto autobiografico. Per poterlo fare ha diviso lo show in due parti. Nella prima serata del venerdì ha eseguito le prime 25 canzoni (con un intervallo di un quarto d’ora, come a teatro) e nel pomeriggio del sabato le altre 25. Il pubblico già in possesso di un abbonamento al festival, per accedere all’auditorium doveva acquistare a due euro un biglietto in più a un orario che di festivaliero aveva poco: mettersi in fila a mezzogiorno non è la cosa più facile del mondo per chi la sera prima aveva fatto l’alba con Aphex Twin o Flying Lotus.

Eppure per i Magnetic Fields ne è valsa la pena e già la fila raccontava parecchio del tipo di spettacolo che avremmo visto: molte persone tra i trenta e i quaranta, qualche cane al guinzaglio e moltissimi con un libro aperto per ingannare l’attesa. Dietro di me un tizio in sandali con una tshirt della libreria Strand di New York leggeva un volume di poesie di Góngora: con il suo insieme di snobismo e fricchettoneria sembrava uscito dritto dal songbook di Stephin Merritt.

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Il palcoscenico dell’Auditori Rockdelux, un bell’edificio di Herzog & DeMeuron con 3.140 posti a sedere, è occupato da quella che sembra una casetta di bambole a dimensione umana, una cameretta di bambino piena di pupazzi, robottini e strani oggetti. È la stanza dei giochi di Stephin Merritt il quale, dopo che la band ha preso posto dietro di lui, attacca con la prima delle sue 50 canzoni. In ’66 Wonder where I’m from, Merritt accenna quello che sarà il filo conduttore di tutta la sua vita: la mancanza di radici. Una madre hippy che cambiava sempre città e un papà cantante folk, Scott Fagan, che lui conoscerà solo da adulto, nel 2013. “Tutte le conchiglie sparpagliate sulla spiaggia contengono il rumore del mare”, canta. “E sanno da dove vengono, io invece mi chiedo sempre da dove vengo”.

Merritt comincia un lungo viaggio, più che nella sua intimità che emerge solo a tratti, nella definizione del suo mondo interiore. 50 songs memoir più che un’autobiografia fatta di eventi è un mosaico delle suggestioni culturali a cui un ragazzo gay, introverso e terribilmente snob, poteva essere esposto tra il 1965 e il 2015. Da piccolissimo l’avevano portato a vedere i Jefferson Airplane, e quando Grace Slick aveva detto al pubblico: “Laggiù stanno uccidendo dei bambini, anche se la cosa non dovrebbe importarci”, lui non aveva capito che laggiù significava il Vietnam ed era convinto che i bambini li stessero ammazzando proprio lì, nella sala da concerto in cui si trovava.

Una battuta asciutta e fulminante
E poi la morte dell’icona gay per eccellenza, magistralmente legata, in ’69 Judy Garland, alla rivolta di Stonewall; il basso pulsante della disco music più edonista e la new wave del Danceteria di New York, il locale dove andava Madonna quando era ancora una “it girl” e non una popstar mondiale.

Tra una canzone e l’altra Stephin Merritt parla poco ma dice sempre qualcosa per presentare il nuovo pezzo. Si tratta sempre di una sola battuta, asciutta e fulminante. Un po’ come se Woody Allen avesse a disposizione solo i 140 caratteri di un tweet.

“Un giorno mia madre mi ha fatto vedere le Hawaii su una cartina. E il giorno dopo ci eravamo trasferiti lì”.

Nelle sue 50 canzoni Merritt parla sorprendentemente poco d’amore, forse perché l’argomento era stato già abbondantemente sviscerato in 69 Love songs: c’è per esempio un ex ingombrante con cui continua a fare sesso (“Now every evening ends with XXX ex sex”, e ora ogni sera finisce con sesso XXX con il mio ex) e le “stupide lacrime” che si versano per amore sono “dei lampadari kitsch che oscurano tutto il resto”.

La straordinaria facilità di Stephin Merritt con la melodia e le parole ricorda i grandi musical di Cole Porter e di Stephen Sondheim, prodotti leggeri e popolari che dietro a un’apparente semplicità nascondevano grande artificio e un labirinto di sottotesti per un pubblico più sofisticato, e preferibilmente gay. A differenza dei grandi autori di musical (lui stesso ha lavorato a diversi progetti di teatro musicale), Merritt non è interessato all’aspetto emotivo e popolare di questa forma d’arte e si concentra soprattutto sull’artificio, sul camp, sulla citazione, ma riesce sempre a farlo con straordinario equilibrio. Per lui l’ironia non è un’arma di difesa, è proprio l’unica lente attraverso cui guardare un mondo troppo incomprensibile e complesso.

Merritt ha ben chiaro di essere un freak un po’ ingombrante e in Somebody’s fetish, la cinquantesima e ultima canzone dello spettacolo, lo esplicita: “Tutti sono il feticcio di qualcuno e anche io, con la mia faccia da gnu, le mie eccentricità e la mia mancanza di grazia. Cupido, alla fine ha trovato un posto anche per me”.

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