27 dicembre 2017 13:26

Jerusalem di Alan Moore è un romanzo lungo (più di 1.500 pagine l’edizione italiana) perché deve essere lungo. Non una parola, non un aggettivo di questa narrazione monstre, iperdescrittiva e tentacolare è di troppo. Ogni vezzo linguistico, ogni regionalismo, ogni neologismo è un tassello di una cosmogonia ambiziosa e monumentale.

Jerusalem è un romanzo-mondo in cui il fumettista, scrittore e occultista britannico ha profuso tutte le sue passioni, ossessioni e visioni. È una storia su ciò che vediamo e non vediamo, sui morti e sui vivi, sul tempo e sulla storia raccontata dalla parte degli ultimi. È la storia di una città inglese, Northampton, e dei cambiamenti che ha subìto dal medioevo a oggi ed è la storia dei suoi artigiani, operai, prostitute, levatrici e fattucchiere. Northampton è un microcosmo che, lungo la narrazione, si espande su quattro dimensioni: tre le possiamo vedere e capire, la quarta, il tempo, dobbiamo impararla a vedere in modo nuovo.

Rifacendosi molto alla lontana a Flatlandia, il romanzo fantastico scritto da Edwin Abbott Abbott nel 1884, Moore ci guida upstairs, al piano di sopra, una dimensione parallela a quella del presente che per mancanza di altre parole siamo costretti a chiamare aldilà. Questo aldilà non è un paradiso o un inferno, un altrove in cui migrano le anime, è semplicemente la consapevolezza di altre dimensioni. Quando moriamo impariamo a vedere il mondo in un altro modo, come un solido che si squaderna davanti a noi aprendo ogni angolo nascosto al nostro sguardo. Non c’è nessun giudizio, nessun premio e nessuna punizione: solo una nuova consapevolezza.

Il tessuto connettivo che tiene insieme tutte queste suggestioni è la controcultura

Moore però non si limita a costruire una fantasia escatologica. Il suo mondo di sopra serve a raccontare quello di sotto. Tra passaggi segreti attraverso il tempo, porte nascoste e l’intermediazione di spiriti che si aggirano ancora tra di noi (i rough sleepers), c’è molta porosità tra vivi e morti. L’aldilà immanente e filosofico di Jerusalem è molto diverso dal tran tran post mortem descritto da Will Self nel suo romanzo del 2000 How the dead live e dall’inferno visitato da Chuck Palahniuk in Dannazione, nel 2011. Eppure è come se Moore avesse coscienza di questi due romanzi: nel suo aldilà c’è qualcosa della sonnolenta burocrazia del mondo dei morti di Will Self e, nella descrizione della gang di ragazzini morti, molto del legame vagamente alla Goonies che unisce i teenager dannati di Palahniuk.

Moore però riesce a essere incredibilmente originale e il suo upstairs non è una parodia: è un prisma attraverso il quale raccontare mille anni di esoterismo, di controcultura, psichedelia e lotta di classe. Jerusalem, in filigrana, è un romanzo politico: parla di spazi pubblici levati ai cittadini, di un sistema capitalistico che li vessa da centinaia di anni, di minoranze messe a tacere e di stigmatizzazione del disagio mentale.

La lingua usata da Moore è una chiave di lettura fondamentale per capire la sua cosmologia: passa dall’inglese medievale al gergo dei tossici, dall’eloquio vittoriano a una lingua inventata parlata “al piano di sopra” in cui le coniugazioni dei verbi non conoscono tempo perché il tempo lì non esiste. O meglio non esiste come traiettoria da un prima a un dopo. Quella di Jerusalem è soprattutto una lingua iperdescrittiva e ricca di colori. Moore, per esempio, quando descrive i toni cangianti delle vesti di alcune creature angeliche rimanda ai riflessi dei broccati e delle sete dipinte dal preraffaellita Edward Burne-Jones e quando descrive certe allucinazioni parla la lingua fiammeggiante di William Blake e arriva al particolarismo descrittivo del vittoriano Richard Dadd, il pittore delle fate.

Ma il tessuto connettivo che tiene insieme tutti questi riferimenti e queste suggestioni è la controcultura: il vero faro che, tra fumetti, occultismo, rock e psichedelia, ha sempre guidato il lavoro di Alan Moore. L’autore, pur muovendosi in un mondo letterario e linguistico molto ricco e complesso, lo fa con piglio fieramente antiaccademico e antintellettualistico, rivendicando con orgoglio, a ogni pagina, il suo status di autore di genere.

Jerusalem è una lettura ammaliante, impegnativa e molto soddisfacente. E non tirate fuori la scusa che non avete tempo di leggerlo. Perché il tempo, alla fine, non esiste.

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