27 luglio 2019 10:00

La mostra Preraffaelliti. Amore e desiderio, al Palazzo reale di Milano fino al 6 ottobre, è un buon greatest hits della collezione di pittori preraffaelliti della Tate gallery. C’è l’Ofelia di John Everett Millais, lo svenevole Amore d’aprile di Arthur Hughes, ci sono la simbolista Beata Beatrix e l’altera e provocante Monna Vanna di Dante Gabriel Rossetti. Insomma c’è tutto quello che ci deve essere per far contento il grande pubblico, ma Preraffaelliti. Amore e desiderio, a cominciare dal titolo un po’ furbetto, si presenta come una versione light dell’ambiziosa mostra dei Preraffaelliti allestita dalla Tate stessa nel 2012. La mostra londinese si chiamava Pre-raphaelites: Victorian avantgarde (Preraffaelliti: avanguardia vittoriana) e già dal titolo denunciava il suo intento: raccontare, magari tirando un po’ la corda sul termine “avanguardia”, la modernità della Pre-Raphaelite Brotherhood, la confraternita di giovani artisti fondata nel Regno Unito nel 1848.

I confratelli preraffaelliti erano fieramente antiaccademici, accesi dalle teorie puriste di John Ruskin e impegnati a capofitto nell’arduo compito di essere interpreti della modernità guardando fissi indietro, verso un medioevo stilizzato, idealizzato e, con il senno di poi, assolutamente camp. I preraffaelliti erano innovatori nelle tecniche, nei temi e in quello che oggi chiameremmo marketing: al contrario dei polverosi pittori della Royal Academy sapevano che la loro arte parlava a un pubblico nuovo, borghese, dinamico e proiettato aggressivamente verso un mondo sempre più industrializzato, capitalista e colonialista.

I preraffaelliti fantasticavano su Lancillotto e Ginevra, sul Decameron o sugli episodi meno noti delle vite dei santi, ma conoscevano e usavano la fotografia ed erano interessati al design, anche se non si chiamava ancora così, e alle innovazioni scientifiche. Nell’arte italiana prerinascimentale vedevano una purezza d’intenti e un nitore narrativo che mancava all’arte manierista e barocca e ai vari classicismi che si sono succediti dal cinquecento in poi. Benozzo Gozzoli, Sandro Botticelli e Luca Signorelli erano divinità per molti di loro e certe prospettive “sbagliate” e ingenue della pittura giottesca e tardogotica li commuovevano per la loro capacità di raccontare una storia in modo immediato e senza artifici.

A sinistra: Un animale domestico, 1853, Walter Howell Deverell. A destra: Claudio e Isabella, 1850, William Holman Hunt. (Tate)

La mostra milanese tocca velocemente tutti questi temi. La divisione un po’ pigra in sale tematiche (“Un medioevo moderno”, “Una fede laica”, “Fedeltà alla natura”…) non aiuta ad approfondire e i curatori sembrano fare affidamento essenzialmente nella gratificazione istantanea che offrono al pubblico opere come l’Ofelia di Millais, ormai famosa come un’icona pop.

Per esempio si parla troppo poco del rapporto molto particolare che i preraffaelliti avevano con l’Italia, ed è curioso per una mostra allestita proprio nel nostro paese. Ancora più strano, non si accenna da nessuna parte, se non in certi richiami decorativi a William Morris nell’allestimento, agli stretti legami con il movimento Arts & Crafts. Fa male anche leggere in un cartello semplificazioni storiche come “I preraffaelliti furono i primi artisti a esibire dipinti eseguiti all’aperto o comunque non in studio”. Sicuramente lo fecero prima degli impressionisti, ma come dimenticarsi di John Constable che dipingeva cieli e paesaggi del Suffolk en plein air fin dai primissimi anni dell’ottocento? E i pittori della scuola di Barbizon, in Francia, dipingevano all’aria aperta nel 1830, quando Millais, Hunt e Rossetti, i preraffaelliti della prima ondata, nascevano o erano in fasce.

Nonostante tante semplificazioni non mancano i momenti di soddisfazione: anzitutto i disegni, talmente incisi e contrastati da sembrare, a volte, delle litografie espressioniste. E poi l’arte anticonvenzionale, anche nello scapigliato contesto preraffaellita, di Ford Madox Brown (1821-1893). Forse il merito maggiore di questa mostra è quello di dare rilievo a vari lavori di questo pittore più anziano, che ha orbitato intorno al preraffaellismo senza mai aver aderito alla confraternita ufficialmente.

Gesù lava i piedi di Pietro, 1852-1856, Ford Madox Brown. (Tate)

I suoi temi religiosi erano di una libertà straordinaria: Nostra signora dei bravi bambini (1847-1861) è una Madonna con bambino d’impianto belliniano o mantegnesco, ma con una naturalezza nelle espressioni che fa pensare a certe vecchie pubblicità di saponette. La Madonna sta facendo il bagnetto al bambino: un angelo porge un bacile di ceramica di Faenza con aria assente, il bambino cerca il suo sguardo mentre la mamma è intenta a lavargli le mani. Dietro di loro un altro bambino è pronto per essere messo a letto. L’equilibrio tra una rigorosa struttura tardoquattrocentesca ed elementi che oggi considereremmo kitsch è miracolosa e la grande cornice laminata d’oro realizzata dallo stesso Madox Brown la fa sembrare una sfavillante pala d’altare.

Gesù lava i piedi di Pietro (1852-1856) è un altro azzardo iconografico: il punto centrale del quadro sono i piedi nudi di San Pietro che vengono asciugati da Gesù, intento nel suo lavoro a capo chino, come un operaio. Nella versione originale del dipinto Gesù era a torso nudo, per sottolineare l’aspetto fisico della lavanda dei piedi ma Madox Brown ha dovuto coprirlo per poter vendere il quadro. La nudità esibita dei piedi maschili (quelli di Pietro in primo piano, con tanto di sandali buttati alla sua destra e quelli di Giuda sinistra che si sta slacciando i calzari) ha accenti feticistici che solo un artista vittoriano poteva rendere. Per rendere più esplicita la sua scena e non distrarre lo spettatore, Madox Brown rifiuta la prospettiva rinascimentale e risucchia lo spazio intorno alla scena, con un procedimento prospettico inverso a quello dei grandi quadri scenografici del Veronese.

Prearaffaelliti. Amore e desiderio è una mostra di sicuro successo che sembra curata con il pilota automatico. Un po’ più di prospettiva, soprattutto per quanta riguarda l’evoluzione del movimento nella sua seconda fase e i suoi rapporti con l’arte italiana, avrebbe offerto al pubblico un’esperienza più stimolante e completa.

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