18 ottobre 2019 16:07

Entrare in una sala piena di quadri di Francis Bacon può dare alla testa. E non è sindrome di Stendhal, anzi, lui avrebbe riso con una punta di disprezzo davanti a un concetto così salottiero applicato alla sua pittura. È una specie di reazione fisica, un senso di smarrimento, di nausea. Le grandi tele di Bacon esposte alla mostra Bacon, Freud e la scuola di Londra, a Roma fino al 23 febbraio 2020, viste una accanto all’altra hanno il potere di divorare lo spazio fisico intorno a loro e di attirare lo sguardo in un buco nero.

Lui lo teorizzava: la sua pittura di figura ma non figurativa, il suo uso della prospettiva teatrale ma non barocca, il suo modo di rendere la materialità della carne sfuggendo sia al realismo sia all’espressionismo creano dei quadri che sono trappole, tagliole per l’occhio dello spettatore. L’artista li voleva sempre sotto vetro, come gli antichi capolavori del Louvre o del Prado, proprio per accrescere la loro alterità e quindi il loro fantasmatico richiamo. Bene hanno fatto i curatori a evitare ogni dialogo diretto tra la pittura di Bacon e quella degli altri ottimi artisti in mostra, primo fra tutti il suo amico e sodale Lucian Freud. I legami tra Bacon, Lucian Freud, Frank Auerbach, Paula Rego, Leon Kossoff e Michael Andrews, la loro figuratività nervosa e materica, il loro sguardo paranoico, mai eroico o superomistico sono ben visibili allo spettatore che vaga tra una sala e l’altra senza bisogno di essere imboccato.

A sinistra: Portrait of Isabel Rawsthorne, 1966, Francis Bacon. A destra: Study for portrait II (after the Life mask of William Blake), 1955. (The Estate of Francis Bacon/Tate)

Bacon respirava la stessa Londra di molti di loro, la Londra tetra dell’immediato dopoguerra, la Londra ubriaca e viziosa di quando nessuno si sarebbe sognato che SoHo sarebbe diventata una graziosa vetrina turistica. Bacon parlava con loro, spesso beveva con molti di loro, ma la sua pittura veniva da un posto che solo i suoi amici più vicini, forse Freud, potevano provare a immaginare. Bacon non era un artista che amava la condivisione o la collaborazione. Era un gay masochista e traumatizzato, un uomo in fuga da un passato doloroso, gonfio di alcol, sepolto vivo nell’impossibile caos del suo studio. Usciva solo la notte, per bere e ridere con i suoi amici che erano per lo più gestori di pub, giocatori d’azzardo e marchette. La sua pittura era pura materia che usciva dalle sue mani, non aveva una teoria da esprimere a parole, un bel manifesto da enunciare o un messaggio da dare al mondo. La pittura di Francis Bacon era un prodotto della sua esistenza, anzi della sua immaginazione messa davanti al compito impossibile di esistere.

È bello che il primo quadro di Bacon che vediamo in mostra sia un suo studio del 1955 sul calco del viso del poeta e pittore William Blake. La testa di Blake emerge dal buio e i suoi occhi sono chiusi per noi ma aperti su chissà quale mistica allucinazione. Potrebbe quasi essere considerato un autoritratto in cui Bacon si dipinge come un William Blake senza la religione, un mistico senza dio, un profeta del nulla.

A sinistra: Girl with a kitten, 1947, Lucian Freud. A destra: Standing by the rags, 1988-1989, Lucian Freud. (The Lucian Freud Archive/Bridgeman Images/Tate)

Spostandosi nella sala al piano superiore, quella che contiene le opere di Lucian Freud, si passa dalla notte al giorno. Freud usa la luce per plasmare i suoi nudi e le sue piante, come Bacon usa il buio. Anche Freud, come Bacon, dipinge la figura umana come “fatto”, come agglomerato di materia sulla tela. I suoi nudi sono assenti, assorti, guardano altrove, su letti disfatti, su poltrone sfondate. Una delle sorprese della sala è trovarsi davanti al piccolo ritratto di Leigh Bowery, performance artist e figura centrale della vita notturna londinese degli anni ottanta. Bowery era famoso per il suo trucco e i suoi costumi (è stato lui a ispirare Boy George), ma Freud lo ritrae nel 1991, struccato, con la testa reclinata su una spalla, addormentato. Eppure, spogliato da ogni orpello, catturato in un momento di estrema vulnerabilità, è sempre lui, lo sgargiante, polisessuale patron del Taboo.

Bacon, Freud e la scuola di Londra è una mostra compatta e molto a fuoco sul suo tema: senza forzature riesce a creare interconnessioni tra artisti molto diversi tra loro. Unica nota stonata: la comunicazione tutta hashtag e inviti a instagrammare e postare selfie, tipica del Chiostro del Bramante, è un po’ invasiva. Soprattutto in una mostra in cui la forza delle opere esposte parla da sola. Siamo sicuri che sia questo il modo giusto di avvicinare un pubblico nuovo all’arte contemporanea?

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