17 novembre 2019 10:12

Alla mostra di Giorgio de Chirico a palazzo Reale, a Milano, non si fa in tempo a mostrare il biglietto, leggere i primi cartelli, attraversare uno stretto corridoio bianco, che l’artista ha già ucciso il padre. Il primo quadro che ci si presenta davanti è Centauro morente del 1909. Giorgio aveva 19 anni e il suo amatissimo padre, l’ingegner Evaristo de Chirico, era già morto da qualche tempo. Il giovane artista, nato a Volos in Grecia, dove il padre lavorava alla rete ferroviaria della Tessaglia, evoca uno scenario mitologico: un centauro colpito alla testa, gli occhi vitrei rivolti allo spettatore, sta morendo sulle pietre di un paesaggio selvaggio che ricorda il simbolismo di Arnold Böcklin.

Dietro di lui, tra le rocce e sotto il cielo livido dell’alba, una figura maschile, il suo assassino, si allontana tranquillamente. Giorgio aveva già lasciato la Grecia con il fratello Andrea per trasferirsi a Monaco. Questo quadro giovanile mette in scena il distacco traumatico dalla Grecia dell’infanzia e l’inizio di un lungo viaggio che lo porterà, fisicamente, a Milano, Torino, Ferrara, Venezia e New York, e metafisicamente in tanti altri posti. Centauro morente è già un assemblaggio di temi e motivi che vedremo tornare nella sua arte matura: la classicità e la mitologia e soprattutto il mistero, il rebus da risolvere.

Piazze metafisiche
La mostra di palazzo Reale, curata da Luca Massimo Barbero, anziché seguire un filo puramente cronologico decide di riannodare i fili ben più avvincente dei temi, dei motivi e degli stili che si sono susseguiti nella lunga carriera di de Chirico. Portandoci a una contestualizzazione storica dell’ultima, vituperata fase della sua pittura, quella dei multipli, delle copie di se stesso e della commercializzazione più spinta.

A partire dal 1912 appaiono le prime piazze metafisiche, scolpite dalla luce sghemba del pomeriggio. Sono paesaggi semidisabitati ma pieni di simboli: il treno sbuffante che passa sempre sullo sfondo (lo spirito dell’ingegner de Chirico?), minuscole figure isolate, cloni moderni del mausoleo di Cecilia Metella, falliche ciminiere che si stagliano su cieli antracite e stendardi da giostra medievale che sventolano inspiegabilmente in un’aria immobile.

Protagonista di queste piazze che tanto sarebbero piaciute agli architetti postmoderni è sempre lo spazio. Uno spazio che è parente stretto del primo rinascimento italiano: è quello geometrico e limpidissimo di Piero della Francesca, della città ideale di Laurana, quello in cui architettura e paesaggio si mescolano senza un’idea di un prima o di un dopo, come nella misteriosa Allegoria sacra di Giovanni Bellini.

A sinistra: Autoritratto nel parco, 1959. A destra: Il figliol prodigo, 1922. (Giorgio de Chirico by SIAE 2019)

De Chirico a Ferrara trova la sua città ideale: “È una città quanto mai metafisica”, scrive, “solitaria e di geometrica bellezza”, e mentre l’Europa viene travolta dalla prima guerra mondiale l’artista s’immerge sempre di più nelle nebbie del suo sogno antico e modernista. Sono proprio i quadri ferraresi a far capire che la sua somiglianza con il movimento surrealista (che si sarebbe dato uno statuto più tardi) è solo tangenziale. De Chirico non è un pittore d’avanguardia, almeno nel senso di avanguardia storica; a Ferrara scopre di essere un pittore moderno, nel senso di rinascimentale. È attratto dai colori vivaci e dal disegno nervoso dei pittori ferraresi del quattrocento, ma soprattutto è incantato dalla loro iconografia ermetica: è a Ferrara che de Chirico, molto prima dei surrealisti francesi, s’immerge nel sogno per tornare alla superficie con due trofei: lo spaesamento e l’inquietudine.

Tra gli anni venti e gli anni trenta de Chirico diventa sempre più classicheggiante e monumentale: L’archeologo del 1927 è una scultura-manichino nella posa semisdraiata dei sarcofagi etruschi, è chiuso in uno spazio angusto e sembra schiacciato dal peso delle sue stesse viscere fatte di capitelli, rovine, sassi e antichi fiumi. Più le figure di de Chirico si fanno statuarie e più lo spazio intorno a loro si contrae: è il processo opposto a quello delle piazze metafisiche. I bagni misteriosi, presentati alla quadriennale di Roma nel 1935, sono forse l’ultimo ciclo dechirichiano in cui tutti gli elementi della sua pittura convivono in equilibrio: spazio, figure, sogno, classicità e modernismo, prima che l’ossessione per un certo manierismo s’insinuasse nel suo lavoro più tardo.

L’intelligenza curatoriale di questa mostra sta proprio nel raccontare e contestualizzare queste ultime fasi della pittura dechirichiana, che all’epoca furono massacrate dalla critica. Mentre l’arte italiana degli anni quaranta dei Sironi e dei Funi si fa sempre più monumentale e statuaria, de Chirico, che pure aveva anticipato molta di quella sensibilità, fa una brusca accelerazione in avanti e si rifugia in una pittura barocca e sensuale, una sorta di manierismo interiore. Nel 1943 si ritrae nudo, con un realismo delle carni che ricorda quello delle bagnanti “proletarie” di Gustave Courbet ma nella posizione seduta di tante discinte ma orgogliose Cleopatre morenti del seicento. Lo sguardo è diretto verso lo spettatore ma non interroga nessuno, sembra solo dire: “Sono qui. E allora?”.

Lo storico dell’arte britannico John Shearman descrisse, nel 1967, il manierismo come uno stylish style, uno stile fatto di stili, una ricerca dell’effetto, del virtuosismo, della citazione più che del modo più efficace di veicolare un contenuto. È una definizione che torna in mente guardando le sale dedicate alla pittura di de Chirico degli anni cinquanta e sessanta. il suo Autoritratto nel parco (1959), a figura intera e con un costume ricco di broccati e di finiture d’oro, è come un gigantesco nobiluomo di Van Dyck intrappolato in una Capodimonte lillipuziana. Poi ci sono le fastose nature morte finto fiamminghe e delle vedute di Venezia che anziché ricercare la luce di Tiepolo, Guardi e Turner tendono a un effetto smaltato e bidimensionale da souvenir kitsch.

L’apice di questa fase citazionista arriva tra gli anni sessanta e settanta, quando de Chirico comincia a citare direttamente se stesso. Sono gli anni del ritorno alla metafisica, dei multipli, delle copie infinite. Sono gli anni in cui in ogni studio dentistico o notarile si cominciavano a trovare, nella sala d’attesa, litografie dei suoi cavalli sulla spiaggia o dei suoi manichini mitologici.

Sono però anche gli anni della pop art che teorizzava la ripetizione ossessiva di determinati temi e il valore della copia della copia della copia. Andy Warhol aveva grande ammirazione per de Chirico, che incontrò a New York nel 1974, e gli dedicò una serie di rivisitazioni che furono esposte in una mostra, Warhol versus de Chirico, al Campidoglio di Roma nel 1982.

Orfeo trovatore stanco, 1970. (Giorgio de Chirico by SIAE 2019)

È suggestiva la scelta di chiudere la mostra con un quadro del 1970, Orfeo trovatore stanco. Un manichino-statua sta accasciato su una sorta di trono, è un burattino a cui sono stati tagliati i fili, un automa con la batteria scarica. Ha le viscere esposte, piene di figure e di temi dechirichiani che sono i suoi organi interni ormai pietrificati. Per terra la lira che non suonerà più e dietro di lui una piazza metafisica illuminata da un’aurora boreale verdastra, né alba di un nuovo giorno ma neanche tramonto. De Chirico sarebbe morto nel 1978.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it