01 giugno 2017 11:15

Io sono il tuo film e non avrai altro film all’infuori di me. Con questa formulazione provocatoriamente biblica potremmo sintetizzare la dimensione magniloquente e monolitica, spesso di ghiaccio, dei film che hanno dominato il concorso, prevedibili e noiosi, quali più, quali meno. E proprio uno dei maggiori esempi di questa tendenza compiaciuta al formalismo asettico è il film vincitore della Palma d’oro, The square, dello svedese Ruben Östlund. Ne abbiamo scritto nei giorni scorsi, ma vale la pena di ribadire la prevedibilità e l’ovvietà della satira del regista che si vuole atto d’accusa, tra le altre cose, contro l’arte contemporanea, le sue installazioni e le sue provocazioni viste come gratuite. Quest’atto accusatorio viene collegato alla freddezza e all’insensibilità della borghesia compiaciuta dietro l’apparente interesse al mondo povero.

Intendiamoci, qualcosa di vero c’è in tutto questo, ma il film è talmente semplicistico e pieno di cliché da risultare, alla fine, quasi interamente privo di provocazioni vere e di tensione interna. In realtà in tutte le epoche l’arte ha avuto delle pose e altri artisti e movimenti sono arrivati a sovvertirle. Ma il punto fondamentale è cheThe square (acquistato per l’Italia da Teodora), pare un film programmato come un computer (magari di un’agenzia pubblicitaria) e dominato da un’estetica algida speculare a quella di certa arte concettuale, prossima a sua volta a quella estetizzante della pubblicità che si vuole tendente all’artistico. Non c’è presa di distanza o trasfigurazione.

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L’unico elemento compiutamente forte che resta dentro è il bambino rifugiato, che chiede incessantemente giustizia per il suo piccolo onore, lui che non ha nulla. Ma scomparirà nel nulla insieme alla sua richiesta di giustizia, insistente come la questua di un fastidioso mendicante, e quindi da noi facilmente scacciato. La sua assenza improvvisa gli conferisce una dimensione metafisica, quasi da emanazione dei propri sensi di colpa, di quanto da noi rimosso.

Quello dei personaggi che sono una proiezione della mente è stato un elemento ricorrente di diversi film, compreso il piacevole ma vacuo (quanto fatuo) film di Roman Polanski, Based on a true story, titolo di chiusura del festival presentato fuori concorso.

Algidi estetismi
Ma per capire meglio, ecco in una veloce rassegna di alcuni tratti dominanti in molti titoli del concorso, a volte contigui tra loro e presenti in maniera più o meno accentuata a seconda dei casi. Questo ovviamente non significa che nessuno di questi film ci sia piaciuto. Le opere a cui questa griglia è adattabile sono film come The square, Happy end di Michael Haneke,The beguiled di Sofia Coppola, Loveless di Andrej Zvyagincev , Wonderstruck di Todd Haynes, The killing of a sacred deer di Yorgos Lanthimos, L’amant double di François Ozon, Aus dem Nichts di Fatih Akin.

Il cinema è un’arte del dispositivo tecnologico, ma questa sistematicità è francamente stucchevole

Estetica algida (non fredda, attenzione, e del resto si può essere freddi ma potentissimi, l’esempio perfetto è Stanley Kubrick). Maniacalità della perfezione formale asettica, iperestetizzata, magari con colori saturi e fotografia levigata. Forma che riflette troppo spesso l’oggetto della critica senza una messa a distanza. Film con struttura programmatica, come si dice nel linguaggio critico. Forte intenzione nel far sentire costruzione e complessità. Metafore telefonate o forte sottolineatura della loro presenza (quasi volessero dirti: “ehi, ma guarda che fine metafora ti ho messo qui, visto che grande autore sono?”). Tendenza al didascalico. Tendenza a costruire il perfetto compitino a sostegno del tema trattato che cerca di concentrare scolasticamente tutte le variabili possibili. Conseguente assenza di finezza, di sottigliezza. Ampollosità nel dire cose gravi e assenza di leggerezza, di prossimità alla dimensione aerea della poesia, all’imprevedibilità del guizzo artistico, di una tensione interna capace di far scaturire con naturalezza quanto appartiene all’ordine dell’interiorità. Emerge una sorta di culto della monumentalità autoriale, che prefigura una sorta di dominio del dispositivo che si deve far sentire a tutti i costi.

Può essere molto bello, il cinema è un arte del dispositivo tecnologico, ma questa sistematicità è francamente stucchevole, non di rado opprimente e creativamente nociva. Inoltre bisogna saper giocare su infinite sottigliezze e idee originali e quindi essere dei fini, anzi finissimi equilibristi, come per esempio l’iraniano Abbas Kiarostami o il tailandese Apichatpong Weerasethakul, per citare un regista del passato recente (del quale Cannes ha ospitato un importante omaggio-riflessione postumo, 24 frames) e uno del presente. Capacità della sottigliezza, dell’equilibrismo e delle idee originali che sembrano tragicamente mancare a questa tipologia dilagante di cinema d’autore che sembra finito in un freezer gestito da Hal 9000, il tirannico e subdolo computer di bordo di 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Sia chiaro che quanto scritto vuole offrire per il momento solo alcuni spunti per una riflessione che potrà essere in futuro più completa.

Il festival del compromesso
Intendiamoci, quando si esce dal concorso la selezione nelle altre sezioni è molto buona, talvolta eccezionale, comunque un altro mondo. Per questo per i tre film migliori da Cannes abbiamo voluto dare delle chances ai film delle sezioni parallele, anche se alcuni titoli riusciti nel concorso ce ne siano stati, come quello dei fratelli Safdie, stelle del cinema indipendente statunitense alla loro prima produzione importante. I Safdie vengono dalla Quinzaine des réalisateurs come Xavier Dolan (poi velocemente assorbito dalla sezione di Un certain regard). Sono due esempi, quelli dei Safdie e di Dolan, di nuovi autori poi approdati al concorso, come ieri Almodóvar, oggi presidente della giuria di questa edizione del settantesimo anniversario del festival, o Ken Loach, Palma d’oro dell’anno scorso.

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Non vediamo però una linea involutiva da parte della direzione del festival, ma piuttosto un incidente occasionale dovuto a fattori contingenti. Crediamo, lo abbiamo già scritto, che dopo la selezione molto buona dell’anno scorso nel concorso (dove invece ci era parso deludente Un certain regard che quest’anno pare invece in forte ripresa), con un bell’equilibrio tra nomi nuovi e nomi affermati (in buona forma), il festival per il suo settantesimo anniversario abbia cercato il compromesso scegliendo nomi di richiamo ma quasi tutti delle generazioni più recenti, salvo Haneke. Ma ha avuto sfortuna, e proprio i mezzi d’informazione francesi sono stati forse i più duri.

Ne è sintomatico anche il fatto che le molte pagine dedicate come sempre da Le Monde e da Libération al festival quest’anno abbiano fatto la loro apertura molto più del solito con le sezioni parallele, come l’Acid, forse la più eretica e alla quale prima o poi bisognerà interessarsi di più, e i film del concorso erano relegati nelle altre pagine o addirittura nel fondo. Concorso che comunque ha avuto qualche bel titolo, come 120 battements par minute del francese Robin Campillo (acquistato da Teodora) vincitore del Gran premio della giuria, il secondo premio per importanza in ordine gerarchico. Il film sugli attivisti dell’aids nella Francia di fine anni ottanta e primi novanta, oltre a essere un documento storico sul valore fondamentale nei processi democratici moderni dei gruppi di attivisti (quindi la dimensione collettiva), è un anche esempio di rara finezza su come filmare scene d’amore erotico gay, e per giunta tra due giovani malati (la dimensione intima).

Un palmarès imbarazzante
Commovente senza ruffianeria e con picchi di vera profondità, al contrario dell’inutile The Meyerowitz stories di Noah Baumbach, commedia verbosa e noiosa, priva di ritmo, che attraverso la dimensione leggera non riesce a rivelare nulla di profondo. Soprattutto sul tema centrale, vale a dire quello di essere figli di una personalità forte come un artista. Un poco meglio del sudcoreano Bong Joon-ho, tra i cineasti più interessanti del cinema d’estremo oriente e fino alla sua prima produzione con capitali occidentali, Snowpiercer, sconosciuto in Italia. Ma qui siamo nell’ambito del simpatico film per ragazzi, e nemmeno dei più trascinanti, anche se la storia del maiale sudcoreano un po’ mostro gigante alla Miyazaki che diviene oggetto dell’interesse di una mostruosa macchina messa a punto da una multinazionale statunitense dell’alimentare, presa d’attacco dagli attivisti, ha indubbi meriti politici, vista la sua destinazione a un vasto pubblico. E con la scena finale, dove tutti i maiali clonati salutano il loro capostipite, unico a salvarsi da un mattatoio rappresentato come un campo di concentramento, scatenandosi in una sorta di canto del lamento, è una delle sequenze più emozionanti e originali viste al festival.

Bisognerà tornare sulla vicenda Netflix, il presidente della giuria Pedro Almodóvar aveva chiaramente fatto capire al quotidiano Libération che mai avrebbero premiato un film che non può uscire in sala perché Cannes è il festival dei film che vanno nei cinema. I due titoli prodotti da Netflix sono appunto i film di Noah Baumbach e Bong Joon Ho. Ma se questo è il risultato finale, in televisione ci stanno benissimo.

Non vale la pena di perdere molto tempo su Le redoutable di Michael Hazanavicius dedicato alla figura del cineasta Jean-Luc Godard. La nouvelle vague ridotta a infantilismo e aneddoti. Siamo forse anche oltre all’opera imbarazzante, siamo di fronte a chi non ha il senso della misura delle cose e stupisce che un film simile, che pare più cartoon di bassa lega, alla cui sceneggiatura ha collaborato uno dei più sopravvalutati e vuoti fumettisti francesi, Riad Sattouf, sia stato selezionato dal festival e inserito in concorso proprio nel paese dove è nata la nouvelle vague.

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E poi ci sono due film, e qui ci spostiamo sul palmarès, i cui premi sono all’opposto della logica. Il premio alla sceneggiatura al confuso film di Lynne Ramsay, You were never really here (ex-aequo con The killing of a sacred deer di Yorgos Lanthimos) che mette al centro uno degli stereotipi più abusati del noir e del poliziesco, il rapimento della figlia di un senatore ma sostituendo il detective con il mercenario di guerra (anche qui un altro esempio di una visione in parte psicotica della realtà e dei personaggi immaginari), è un paradosso che ha il sapore del comico perché quanto si salva sono piuttosto regia, fotografa e montaggio, cioè la dimensione visiva. Stesso discorso per The beguiled di Sofia Coppola al quale è stato conferito il premio alla miglior regia, quando in questo remake di La notte brava del soldato Jonathan di Don Siegel è proprio la regia a essere praticamente inesistente e la fotografia a dominare.

Le belle sorprese nelle altre sezioni del festival
A margine di questo palmarès surreale di una selezione del concorso deludente e un po’ imbarazzante, quanti bei film, però, che non soffrivano di quanto abbiamo velocemente sottolineato in apertura. A cominciare dal film che segna il ritorno di uno dei talenti più significativi di questi ultimi anni come la tedesca Valeska Grisebach (cosceneggiatrice di Ti presento Toni Erdmann di Maren Ade, qui tra le produttrici) e il suo Western (Un certain regard), splendido esempio di disadattato all’interno di una comunità proletaria tedesca di uomini che finisce per far da ponte verso una comunità apparentemente chiusa, quella bulgara, senza forzature, senza melassa, sottolineature pesanti e avvolgendo il tutto nella natura e nella luce estiva.

O, per restare nel cinema di donne, il film della documentarista cilena Marcela Said giunta al suo secondo lungometraggio di finzione con Los perros (Settimana della critica), offre un’opera limpida e coraggiosa sui cani neri (i perros del titolo), sulle oscurità rimosse della dittatura cilena che paiono osmotiche al mai rimosso maschilismo di quella società, il tutto in un sapiente equilibrio tra sguardo umano e ambiguità delle scelte umane. Barbara è un bel film sulla celebre cantante francese degli anni sessanta e settanta prossima a chansonnier come Jacques Brel. Diretto dall’attore Mathieu Almaric e titolo d’apertura di Un certain regard è un film imprevedibile e poetico che va in tutte le direzioni senza giocare al grande biopic consacratorio ma che piuttosto vuole giocare per omaggiare al meglio la coerenza di un percorso.

Oppure la purezza del bianco e nero filmato da chi lo ha studiato e vissuto interiormente, contrariamente a tanto cinema d’autore statunitense e non solo statunitense (The artist di Michel Hazanavicius), come nel caso di L’amant d’un jour di Philippe Garrel, vincitore della Quinzaine des réalisateurs (ex aequo con Un beau soleil intérieur di Claire Denis) per raccontare in appena un’ora e un quarto le inquietudini amorose dal punto di vista inedito di una figlia di 23 anni e di quello di una compagna del padre anche lei di 23 anni. Due vicende speculari incorniciate in una splendida operetta morale che si fonde in un poema visivo, leggero, cristallino.

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E poi ancora un esordio che era sulla bocca di tutti a Cannes e molto apprezzato da tanta critica, dovuto al russo Kantemir Balagov, 26 anni, ex collaboratore di Alexander Sokurov, con Tesnota (Closeness il titolo internazionale) una delle rivelazioni dell’intero festival e non solo della sezione Un certain regard, e il film portoghese A fábrica de nada di Pedro Pinho (Quinzaine des réalisateurs), fratello delle Mille e una notte del portoghese Miguel Gomes e avvenimento della Quinzaine di due anni fa. Un film in cui non si capisce dove cominci il documentario e dove la finzione e mette al centro un comunità di operai confrontati alla chiusura della propria fabbrica e alla possibilità di trovarsi presto in uno stato d’indigenza. Infine almeno due film italiani, A ciambra di Jonas Carpignano (Quinzaine des realisateurs), purtroppo ancora senza distributore italiano a quanto ci consta, e il bel Cuori puri di Roberto De Paolis (ancora Quinzaine des réalisateurs, ora nelle sale) una bella e intensa sorpresa di cinema italiano che non gioca allo sceneggiato di buona qualità come invece fa ancora tanto cinema nostrano.

Ma i film interessanti sarebbero molti di più e sia quelli citati sia quelli che non lo sono hanno ormai reali possibilità di arrivare nelle sale italiane perché non siamo più all’anno zero della distribuzione come ancora qualche anno fa.

Un’altra Cannes, due mondi diversi dicevamo. Perfetta immagine, o metafora speriamo non troppo evidente, per un festival che ha raccontato, a nostro giudizio non sempre al meglio, di tante doppie personalità, di doppelgänger, di cui il ritorno sugli schermi dopo tanto tempo delle due cime di montagna (Twin Peaks) del maestro David Lynch sono stati il paradigma e insieme il punto culminante dell’intero festival.

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