16 settembre 2017 15:04

Il film di Guillermo del Toro a cui è stato assegnato il Leone d’oro è una simpatica fesseria ma nulla più. Molti hanno trovato bello The shape of water, altri lo hanno trovato immondo. Noi ci troviamo in una posizione più intermedia. Ma purtroppo, più semplicemente, del Toro sembra in costante regressione rispetto agli inizi.

Fin dal suo esordio con Cronos (1993), rimasto inedito nelle nostre sale, il regista di nascita messicana e ormai di nazionalità hollywoodiana manifestava il suo desiderio di reinventare classici della storia del cinema quasi come fossero degli archetipi e, in una certa misura, ci riusciva anche, grazie a una certa inventiva, senso delle atmosfere, invenzioni inattese. Il suo modo un po’ greve e un po’ ovvio di mostrarsi cinéphile, però, c’era già tutto, magari un poco più raffinato.

In questa sorta di La bella e la bestia in versione acquatica, del Toro produce un qualche incanto, il film si lascia vedere, il mostro è anche bello, ma pur avendo simpatia per l’attrazione dell’autore per lo stantio dei vecchi guardaroba di teatri (o cinema) abbandonati, alla fine non abbiamo colto nessuna profondità e nemmeno reale originalità. Neanche considerando l’aspetto politico del film, perché tutto si risolve nell’assunto di base, cioè di ambientare in una base militare segreta, durante la guerra fredda, una parabola sulla paura e quindi sulla repressione dei più deboli.

L’infantilismo hollywoodiano
Siamo tra l’altro nel periodo della crisi dei missili di Cuba, cioè all’apice della paranoia anticomunista che portò il mondo sull’orlo della guerra nucleare. La pressione esercitata sull’amministrazione statunitense dai consiglieri per la sicurezza, dalla Cia e dal Pentagono, nel film è riassunta in due personaggi. Il discorso di Jfk al paese lo sentiamo alla radio, sulla scrivania del comandante della base c’è un telefono rosso, che richiama quello che Kennedy e Chruščёv faranno installare dopo quella crisi per collegare direttamente la Casa Bianca e il Cremlino. Nel delizioso Matinée (1993) di Joe Dante questo aspetto è molto più esplicito e più netto il contrasto con le follie della guerra fredda che si fondono in un tutt’uno con il sogno del cinema che diventa un incubo. Perché in realtà è un horror il sogno-bambino, cioè l’infantilismo hollywoodiano.

Del Toro non ha l’iconoclastia da piccolo maestro di Dante (basta guardare La seconda guerra civile americana, incredibilmente attuale). E se è sincero rispetto a un Luc Besson, le sue forme dell’acqua non raggiungono quelle esplorate da James Cameron, da The Abyss ad Avatar passando per Titanic, senza tener conto del metallo liquido di Terminator 2. Cameron è forse l’unico ad aver fatto del sogno dell’infanzia una visione via via sempre più grandiosa, superando anche Spielberg. Viene da chiedersi se Titanic, di sicuro un film migliore di The shape of water, sarebbe mai stato presentato in concorso a Venezia. E quindi viene da chiedersi quale siano le strategie dei selezionatori, prima ancora che le motivazioni dei giurati.

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Ma di capolavori in concorso ce n’erano. First reformed di Paul Schrader, lui sì un maestro, è un film intenso e con senso della gravità adeguato alla gravità che viviamo attualmente. Oppure Ex libris, l’incredibile documentario di Frederick Wiseman sulla biblioteca pubblica di New York. E soprattutto quello che crediamo sia un capolavoro di svolta per il futuro del cinema grazie al suo naturalismo fatto di contrasti incredibili ma perfettamente padroneggiati, cioè Mektoub, my love. Canto uno di Abdellatif Kechiche.

I corpi sono belli e sensuali ma non perfetti come sono rappresentati solitamente. Una sinfonia dei corpi, e quindi della carne, che assurge a poema visivo-sonoro delle culture meticce, cioè le culture del futuro (ma ambientandolo, aspetto interessante, in un recente passato, cioè prima della paranoia terroristica). Kechiche supera tutti i suoi film precedenti, non vi è più nulla di maniera, niente facili ammiccamenti allo spettatore. È un film dall’ampiezza di sguardo che supera di molto l’ampiezza della durata (tre ore).

Belli, anche se non dei capolavori, quasi tutti gli altri film premiati. In Foxtrot dell’israeliano Samuel Maoz (gran premio della giuria) quattro soldati israeliani (bravissimi gli attori) immobili in un posto di blocco del deserto danno vita a quella che sembra una pièce di teatro dell’assurdo, realizzata però con grande uso di tutti i procedimenti che il cinema mette a disposizione. Il Leone d’argento per la migliore regia è andato all’esordiente francese Xavier Legrand (vincitore anche del premio assegnato all’opera prima scelta fra tutte le sezioni del festival) per Jusqu’à la garde, un film di regia e di montaggio più che di sceneggiatura che riesce a rendere in modo potente la violenza domestica, fisica e psicologica su un bambino. Il finale è tra i più forti visti al festival.

Forse The insult del libanese Ziad Doueiri avrebbe meritato qualcosa di più che la coppa Volpi al miglior attore, assegnata a Kamel El Basha che interpreta un capomastro palestinese nella Beirut di oggi. Perché dopo una prima parte ben fatta ma un po’ troppo didascalica, nella parte processuale diventa una lezione di storia sulle responsabilità storiche per i dolori inflitti ai popoli, dove Beirut rappresenta in piccolo tutto il mondo di oggi.

Perfetto invece, come abbiamo già detto, Three billboards outside Ebbing, Missouri scritto e diretto Martin McDonagh, premiato per la migliore sceneggiatura. Il premio speciale della giuria è andato invece a un film australiano noioso e insipido, Sweet country di Warwick Thornton. Un peccato perché la vicenda che narra è senza dubbio interessante.

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Scontato, ma più che giusto, il premio Marcello Mastroianni al giovanissimo Charlie Plummer, protagonista di Lean on Pete (che sarà distribuito da Teodora film) del britannico Andrew Haigh (Weekend, 45 anni), anche lui in trasferta negli Stati Uniti. Plummer, che rivedremo presto in All the money in the world di Ridley Scott, è forse il volto di questa edizione del festival. Delicato e intenso insieme nell’esprimere costantemente nello sguardo, nei dialoghi e soprattutto nei tanti silenzi, la sua condizione di adolescente incerto e sperduto. Errando per l’America riassume perfettamente la condizione umana di troppi adolescenti sperduti e abbandonati della contemporaneità. Porta il film per intero sulle sue spalle. Nella pur forte interpretazione del prete nel film di Schrader, Ethan Hawke non riesce a nascondere i suoi artifici. L’interpretazione di Plummer invece è incredibilmente naturale.

Abbiamo lasciato per ultimo la coppa Volpi a Charlotte Rampling per la miglior interpretazione femminile, per il suo ruolo di donna abbandonata in Hannah di Andrea Pallaoro. L’attrice è ovviamente brava, non è una scoperta. Ma non è eccezionale rispetto ad altre interpretazioni che ha fornito in passato. E il premio quindi suona come patetico rispetto alle attuali ambizioni e al passato della nostra cinematografia. All’Italia è stato dato un contentino dopo i tanti film presentati in concorso e nelle sezioni parallele – tutti medi o brutti salvo uno – premiando un’attrice francese.

Insomma c’è poco da stare allegri. Intendiamoci, il film di Pallaoro è tra quelli che presentano alcuni motivi d’interesse. Anche se non padroneggiato al meglio è un film coraggioso, poco di sceneggiatura e molto di suoni e dialoghi secchi, quasi astratto. Un film quindi poco allineato al cinema italiano d’autore, in realtà un cinema di sceneggiati televisivi proiettati in sala, un cinema per anziani oppure pop-trash.

Chiudiamo con i premi della sezione Orizzonti. Il premio per il miglior film è stato assegnato a Nico, 1988 di Susanna Nicchiarelli. Nel film dedicato all’attrice e cantante tedesca c’è una delle sequenze più belle viste al festival (una visione notturna in un cimitero). Il premio per la miglior regia è andato invece No date, no signature dell’iraniano Vahid Jalilvand, che si è aggiudicato anche quello della miglior interpretazione maschile. Insopportabile film a tesi che ha tutto della pesantezza attuale del cinema d’autore iraniano, non perché siano film lenti ma perché in questa lentezza non c’è intensità, densità, ma una dominazione totalitaria del dispositivo e nessun lavoro per far sentire in maniera più diretta gli esseri umani, gli ambienti. Agli autori iraniani farebbe un gran bene rivedere i film pieni di atmosfere di altri giganti del cinema, e studiare, come faceva l’iraniano Abbas Kiarostami, per trovare un sapiente equilibrio per raccontare la meccanica della morale (e la sua ambiguità) con un’intensa empatia verso gli esseri umani.

A proposito di empatia per gli esseri umani, Les bienheureux dell’esordiente algerina Sofia Djama, un film diretto e raffinato, uno tra i lungometraggi più belli visti quest’anno a Venezia, vincitore del premio della miglior interpretazione femminile. Pensiamo che questo film che tra i molti temi affronta anche l’isolamento internazionale di chi in paesi come l’Algeria si oppone al fondamentalismo religioso, funzionerebbe bene nelle sale italiane e speriamo che trovi il suo distributore. Molto interessanti il disturbante ma non gratuito Caniba (premio speciale della giuria) di Véréna Paravel e Lucien Castaing-Taylor e il poetico Los versos del olvido (premio per la miglior sceneggiatura) dell’iraniano trapiantato Alireza Khatami, forse l’opera più bella vista in Orizzonti, all’opposto di quella tendenza di cui abbiamo appena detto.

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