22 marzo 2018 17:05

Un film impostato tutto sulla sospensione e la specularità. Ma con molto senso dell’umorismo, del paradosso, dell’assurdo. Film di tensione interiore e di sketch leggeri, anche musicali, dal sapore parzialmente autobiografico, l’israeliano Foxtrot. La danza del destino giunge in sala dopo il Gran premio della giuria assegnato all’ultimo festival di Venezia dove è stato presentato in concorso, conferma del talento del cineasta Samuel Maoz, al suo secondo lungometraggio dopo Lebanon, Leone d’oro nel 2009.

Sospensione e rovescio speculare sono enunciati fin dalla sequenza che funge da prologo e che poi sapremo essere anche l’epilogo (cattivissimo). Unica sequenza in movimento in una struttura filmica dominata dalla staticità. Il problema di fondo nel quale sembrano immersi i protagonisti di questo bel film, scorrevole e immediato, è proprio una sorta di perenne stasi. E la staticità è insieme il veicolo e la sua metafora, quella di un limbo che tende a ripetersi come una realtà doppia dallo stesso esito. Si torna al punto di partenza. Ma la circolarità trova una fondamentale rottura.

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Dopo il prologo vediamo infatti una famiglia – madre, padre, figlia e zio – raggiunta in casa dai militari che comunicano la terribile, devastante morte del figlio, militare anche lui e aspirante autore di fumetti. La recitazione degli attori, la drammaticità della situazione, i movimenti di camera, lenti ed eleganti, vengono a ravvivare una staticità di chiara impronta teatrale. La costruzione formale degli ambienti, gli arredi dell’appartamento, l’asse stessa della camera, esprimono sempre una rigidità lineare; i movimenti di camera, anche quando circolari, sembrano come dei tagli netti degli ambienti, come a sezionarli.

C’è un’ossessione per la linearità in questo film dalla struttura narrativa non lineare, destrutturata, decostruita. E la concitazione d’apertura trova il suo contrappunto nella calma educata dell’équipe militare venuta ad assistere la famiglia nel trauma. La scrittura delle situazioni e dei dialoghi rivela ben presto la sua dimensione ironica, derisoria. Sempre piuttosto sottile, senza eccessi, non esibita. Come l’insistenza per il bicchiere d’acqua, o l’ufficiale rabbinico che spiega la cerimonia.

Più cerca l’ordine e più questo piccolo mondo risibile va fuori asse

Forse, però, è tutto un equivoco, forse è tutta apparenza. Forse. Ben presto infatti l’asse orizzontale del film si sposta su un orizzonte forse più suggestivo, ma se possibile ancora più piatto e lineare, quello del deserto. Vediamo il figlio della coppia insieme ad altri tre compagni fare la guardia in uno sperduto check point dove hanno il compito di controllare i rari passanti. La noia è qui il paradigma. Un vuoto riassumibile nella linea d’orizzonte del deserto. Eppure questo è il segmento più divertente, movimentato e sorprendente del film. Alla struttura algida dell’inizio il regista antepone un forte senso delle atmosfere calde, degli ambienti sporchi, slabbrati.

È un susseguirsi di sequenze al limite dello sketch o del burlesco, di momenti prossimi alla pantomima uniti a sequenze musicali, a tratti dalla leggerezza dance, a tratti empatiche o d’atmosfera. Un approccio che trova una qualche prossimità con una comicità alla Jacques Tati, il quale lavorava sulla pantomima delicata che sboccia nella satira e sulla comicità che fiorisce dall’accumulo di tanti piccoli dettagli surreali. Più ancora – bel paradosso in un’opera che gioca sui paradossi – trova vicinanza con i film del regista americano-palestinese Elia Suleiman, che ha nel cinema di Tati uno dei suoi punti di riferimento. Un elemento vero perfino nella scena fondamentale dell’incidente, tragico e risibile, che non sveliamo.

Quattro bei ragazzi recitano bene l’angustia per questa noia perpetua. Tra di loro spicca non il protagonista ma il giovane ufficiale con gli occhiali che domina con la sua presenza e senza quasi mai dire una parola. I quattro abitano questo scarno ambiente quasi da arte povera, cercando costantemente di ravvivare la mestizia. Non è facile in questo quotidiano in cui ci si sposta circolarmente tra il container-alloggio e il pulmino di guardia sulla strada. Non è facile quando l’unica via di fuga, da sogno, è un dipinto sulla parete del container, immagine pop quanto kitsch. Non è facile soprattutto se il container va progressivamente fuori asse, inclinandosi ogni giorno di più, suscitando nei quattro un misto di preoccupazione e rassegnazione. Più cerca l’ordine e più questo piccolo mondo risibile va fuori asse.

I molti richiami all’arte concettuale o alle installazioni creano una densità visiva che rafforza le atmosfere e l’infinita sospensione a cui sembrano condannati i protagonisti. Il tutto trova la sua enunciazione nel dipinto astratto mostrato nella parte iniziale nel salotto della famiglia, inquadrato (è davvero la parola giusta) due volte, per poi tornare alla fine con un bel movimento di camera rivelatorio. Praticamente la stella di Davide le cui linee – ossessive e rigide – sembrano sovrapporsi nella confusione totale, come impazzite. Completamente fuori asse. Proprio come lo è anche il quadro stesso rispetto al muro.

Nella terza parte, dove si torna alla staticità familiare, una ricomposizione la ritroviamo nella strana calma e serenità che affiora nella coppia. Sia lei ma soprattutto lui, interpretato da Lior Ashkenazi. Finalmente sembrano parlarsi per la prima volta. Nel lutto – che trova una strana, quasi ilare, mistura di rassegnazione e accettazione dell’assurdità della vita e del destino – l’uomo trova finalmente il coraggio di confessarsi, di liberarsi della stella sul volto che lo perseguita da sempre, notte e giorno. Libero soprattutto da un’ossessività quasi dittatoriale e causa di tragedia, come vedremo.

Liberandosi di una stella che somiglia più a una croce, l’uomo rivela e ritrova la sua umanità. Sembra però l’opposto rovesciato della generazione a cui appartiene il figlio: persa nel limbo della ludicità fine a se stessa, fiction o virtuale, ripiegata nella sua cinica danza infantile ma in fondo annoiata da tutto, ha forse perso il rapporto umano con la tragedia e sembra (pre)destinata a finire non solo male, ma derisoriamente male.

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