28 febbraio 2019 17:35

In un equilibrio mirabile tra il grave e il faceto, l’orrido e il poetico, si muove dall’inizio alla fine quello che si rivela essere un capolavoro, La casa di Jack, il nuovo film del controverso regista danese Lars von Trier. Presentato all’ultimo festival di Cannes, vede protagonisti uno stupefacente Matt Dillon e Bruno Ganz, scomparso alla vigilia della presentazione del film alla stampa italiana.

Il Jack del titolo è solo un vago riferimento al mito mai soluto dei crimini efferati compiuti nell’Inghilterra vittoriana da un serial killer contro giovani prostitute. In realtà, stando alle dichiarazioni del regista, The house that Jack Built sarebbe una ben nota ninna nanna (già usata dal regista nel suo film d’esordio del 1984, Gli elementi del crimine). È però evidente la volontà di giocare sull’assonanza con il nome del più noto serial killer della storia criminale.

Questa oscillazione tra due richiami molto diversi al nome di Jack riflette bene il film, strutturato su opposizioni binarie di varia natura. La morte e la nascita, la crudeltà verso chi è inerme (le giovani prostitute) e la tenerezza verso chi è più inerme ancora (il neonato), ma anche tra l’orrore (l’annullamento della vita e per giunta nella maniera più nefanda) e il sacro (la vita che nasce), la gravità degli atti più immorali e l’ironia prossima al faceto che questo possa confinare con una ninna nanna. L’uno rovesciandosi nell’altra in un movimento ciclico.

Contiguità tra le opposizioni e rovesciamenti continui tra di esse costituiscono l’ossatura del film, la sua architettura. “Le antiche cattedrali contengono spesso sublimi opere d’arte nascoste negli angoli più bui che può vedere solo dio, o comunque si voglia chiamare il grande architetto che ha realizzato il progetto. Lo stesso vale per l’omicidio”, dice Jack a pochi minuti dall’inizio.

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I riferimenti alle cattedrali, alle architetture, alle costruzioni perfette – anche per il loro bilanciamento, è importante sottolinearlo, tra materiali deboli e forti che reggono la struttura – e al grande architetto possono far pensare a formulazioni del rito massonico. I liberi muratori lavorano infatti alla costruzione del tempio alla ricerca di dio. Ma è una ricerca fondata sul dubbio invece che sul dogma, laica e non atea, verosimilmente tanto laica da accogliere tra la braccia dei fratelli anche numerosi atei.

Un altro aspetto che richiama la dinamica dei processi filosofici massonici nella loro espressione più esoterica è la reversibilità tra opposizioni, tra bianchi e neri, esprimendo il principio che nulla è irreversibile.

Difficile non pensare durante la visione del film al romanzo a fumetti From hell, degli inglesi Alan Moore e Eddie Campbell, dove i crimini di Jack lo squartatore sono messi in diretta relazione con la costruzione dell’ordine massonico dell’Inghilterra vittoriana a cominciare dalle opere architettoniche più imponenti, come le cattedrali la cui costruzione sarebbe fondata su princìpi esoterici. L’opera di Moore e Campbell cominciava con la sequenza in cui i genitori di Adolf Hitler concepivano il futuro killer seriale giunto al governo della Germania degli anni trenta. “Quando avevo dieci anni ho scoperto che attraverso il negativo vedi la qualità demoniaca insita nella luce. La luce oscura”, dice Jack (Matt Dillon) a Verge (Bruno Ganz), la sua guida nera nel lungo viaggio nell’oscurità, mentre insieme ripercorrono la carriera del primo. Un lungo flashback, quello del titolo, che ripercorre la carriera del serial killer come fosse quella di un artista, assassino psicopatico di professione ingegnere ma aspirante alla costruzione di una grande architettura, la casa di Jack del titolo. Un serial killer architetto che non a caso ha il suo covo in Prospect avenue.

Non è importante se e quanto il cineasta sottotraccia veicoli in maniera rovesciata una visione nera della costruzione massonica o le presunte letture di intenti satanici che vengono prestate alla massoneria, anche perché il film, impregnato di ironia, può essere visto come una sottile parodia di queste letture. Ma certamente la lettura degli stereotipi a cui è legata la visione della massoneria per via dei suoi riti iniziatici ed esoterici, del suo rovesciare pratiche e concezioni di ogni genere in una direzione contraria e un’indubbia tendenza all’ossessività di cui è foriera (anche a detta di alcuni suoi adepti), si presta bene a una lettura in chiave metaforica del potere, dell’arte come pure dell’intero genere umano perché naturalmente psicopatico.

La costruzione registica e fotografica di innumerevoli sequenze fa pensare a installazioni di arte contemporanea

“Siamo tutti psicopatici”, diceva il regista Paul Verhoeven intervistato al momento del suo ultimo film, lo straordinario Elle. È quasi una rilettura dell’arte in chiave anti-umanistica ma che alla fine, combinando in continuazione il diritto con il rovescio (o per meglio dire, il rovescio con il diritto), rivela l’ineluttabilità del giudizio morale, di uno sguardo alto, per quanto si cerchi l’oscurità, l’ombra: “L’ombra insegue e divora la luce e viceversa in un processo simbiotico continuo”, è un’altra delle elucubrazioni teorico-esoteriche di Jack, quasi costruisse teorie alchemiche, volendo rifarsi ancora a un linguaggio massonico.

Ma questa lettura ossessiva da psicopatico applicata al potere, all’arte e al genere umano, come si esplica nel film? Ogni capitoletto delle sue imprese nelle quali donne ignare sono martoriate s’intitola Incidenti. La costruzione registica e fotografica di innumerevoli sequenze fa pensare a installazioni di arte contemporanea o alle fotografie di incidenti automobilistici di Andy Warhol, al loro voyeurismo, che la denominazione di “incidenti” sembra richiamare. Questi incidenti in realtà voluti sono il naturale sbocco di una mente ossessiva dedita alla costruzione di un’opera perfetta al pari di quelle dei grandi artisti?

Glenn Gould, David Bowie, Vivaldi e Bach si succedono praticamente senza soluzione di continuità. E sono veicoli lirici che supportano le allusioni alla follia della recente storia umana – come Hitler, amante dell’arte fino a ritenersi egli stesso un artista – mediante l’uso raffinato di materiali di repertorio evocatori di una luminosità dell’oscurità (o viceversa), due antinomie prossime nel suono. Imbracciando un fucile, in un bosco, Jack parla del corvo come un animale che volentieri può essere sacrificato. “Abbattimento selettivo è un’espressione molto sgradevole. Ricorda abbastanza la pulizia etnica. Il perverso e contorto atto della caccia è stato ritualizzato a un livello molto inquietante”, dice Jack. Sottolineando subito dopo il piacere dei cacciatori nell’allineare e mostrare con orgoglio trofei di caccia.

Prolungando il discorso di Jack, possiamo dire che è con le vestigia della vita, siano esse vegetali o animali, che imbandiamo con gioia le nostre tavolate, celebrando paradossalmente la vita, o più esattamente i suoi piaceri, con simulacri di morte. Provare piacere nella morte di altra vita rimanda a qualcosa di oscuro e selvaggio dell’animo umano che la cultura ha forse rivestito di dimensione ideale, di incanto per l’armonia, magari con la patina del razionalismo. Tra totalità e totalitarismo il passo può essere breve, anzi la contiguità è naturale. E a quel punto può contaminare facilmente l’arte.

Albert Speer, l’architetto nazista, “ha teorizzato il valore delle rovine dell’arte, lavorando su materiali deboli e forti”, dice ancora Jack. Speer guardava alle grandi architetture classiche, quelle dell’antica Grecia e dell’antica Roma, nella loro capacità strutturale di testimoniare migliaia di anni dopo, anche dopo l’inevitabile decadimento, la grandezza di quelle civiltà. Alla stessa cosa miravano Speer e Hitler per il terzo Reich. Questo sogno del progetto perfetto, come è stata definita la concezione architettonica di Speer, è un miraggio ossessivo che ha portato la Germania a perdersi. Le costruzioni dell’“architetto del diavolo”, com’era chiamato Speer, verranno infatti mandate in rovina non dal lento scorrere del tempo ma dai bombardamenti degli alleati.

La casa di Jack. (Imdb)

Nel film l’ossessiva ricerca della perfezione è indagata dal regista più ancora della ricerca della bellezza. Un aspetto, quest’ultimo, maggiormente dovuto ai film di propaganda della grande documentarista Leni Riefenstahl che, su richiesta dello stesso Hitler, estetizzò la propaganda cinematografica del regime. E del resto per riprendere i grandi raduni nazisti Riefenstahl fece tutt’uno con l’ossessione per la perfezione delle scenografie di Speer. Ossessione e perfezione nella costruzione che si riflette anche nella scelta dei materiali. Jack è letteralmente ossessionato dal materiale perfetto, altra sorta di ossessione alchemica malata, che avrebbe proprietà proprie e in qualche modo veicolerebbe una forza propria.

Un momento su tutti è straziante. Il riferimento all’albero di Goethe. L’albero dove il grande poeta romantico andava a sedersi per scrivere è situato in un luogo – Buchenwald, vicino a Weimar. I nazisti volutamente vi innalzarono un campo di concentramento. Quale miglior esempio di perversione nel rovesciare in negativo la bellezza dell’arte? L’arte moderna che per condannare il male dell’alienazione meccanica e asettica della società di oggi la rappresenta cercando l’orrido, è essa stessa malata oppure è lo specchio alla rovescia di una società razionale solo in apparenza?

Jack, architetto fallito, e quindi artista fallito, privo di empatia è un essere brutto e risibile, questo il paradosso

Anche l’arte poetica viene rovesciata in negativo quando Jack afferma che “la religione ci ha rovinati perché il nostro dio ci ha insegnato a negare la tigre che è in noi, rendendoci tutti una massa di schiavi che si vergognano troppo per riconoscerlo”. Infatti sia la poesia di William Blake sull’agnello sia quella sulla tigre (che contiene un riferimento all’agnello) nell’interrogarsi sul perché dio abbia messo sulla terra una creatura feroce e una del tutto inerme, hanno un senso opposto a quello che Jack gli attribuisce. È interessante notare che la regia della fiction e la scelta delle immagini di repertorio sono speculari. Per esempio, ci viene offerta la visione di una tigre nell’oscurità, seducente nella sua ferocia, una belva che è quasi una principessa delle tenebre. Un’estetizzazione che all’interno del film prende però un senso opposto a quella nazista o dei regimi totalitari. La “luce oscura” di cui parla Jack all’inizio del film – attraente, fascinosa e ammaliante – è qui rovesciata da uno sguardo morale sottile ma costante, pervasivo, lo sguardo del regista-demiurgo.

Jack, architetto fallito, e quindi artista fallito, privo di empatia, serial killer affetto da disturbo compulsivo ossessivo e “per giunta con l’ordine compulsivo della pulizia” è un essere brutto e meschino, quanto risibile, questo il paradosso. L’ironia, il grottesco avvolto nel risibile, sono elementi sottili ma costanti nel film e servono a stemperare la durezza di certe situazioni. Matt Dillon è straordinario nel dare vera gravità e intensità, con la sua voce rauca e cavernosa, a chi compie atti gravi pur essendo mosso, nella sua psicosi, da motivazioni risibili. Jack, come è ben presto evidente allo spettatore, vuole perdersi, fa di tutto per perdersi: è un buco nero degli inferi privo di qualsiasi senso logico ma nel quale l’intero genere umano è da sempre bravissimo a cadere. Il sadismo che sconfina nel masochismo non è soltanto questione che riguarda le donne-prede. Ma riguarda anche Jack/Hitler, potenzialmente riguarda l’intera specie umana.

Nella parte finale a Jack mutato in Dante sgorga una lacrima, una scintilla di umanità di fronte alla bellezza incommensurabile della visione paradisiaca che gli offre Verge/Virgilio (e che non a caso il cineasta visualizza con un’immagine degna della pittura romantica). Una bellezza che mai ha saputo vedere pur avendola sotto il naso: “Oh Jack, avresti dovuto leggere le parole giuste nella tua vita, ma non hai voluto farlo”, è la sentenza di Verge. Il giudizio morale si esprime qui con un’inquadratura sola, prima ancora dell’esplicito finale. E si rivela quanta vanità, illusione e grettezza vi fosse nell’asserzione di Jack: “Un artista dev’essere cinico”.

Per questo dispiace che quest’esplorazione dell’oscurità, geniale e profonda come non ci capitava di vederne da Inland empire di David Lynch, di esplorazione metodica di tutto quello che è cupamente ossessivo nell’uomo, nella psiche, nella politica o nell’arte, sia stato colpito dalla censura con il divieto ai minori di diciott’anni e verrà dunque distribuito in due versioni, una tagliata e una integrale. Commissioni di burocrati fanno finta o non sanno che il cinema d’intrattenimento ci fa vedere da tempo di tutto e che la televisione ci sommerge con un flusso di notizie su ogni dramma creando assuefazione e lasciandoci nella più completa indifferenza.

Il cineasta rovescia questa logica. I crimini di Jack colpiscono lo spettatore proprio perché, al contrario di tanto cinema che non viene censurato, creano empatia con le vittime, tenere e inermi come lo è un bambino. O un agnello. L’orrore della ferocia della tigre lo si percepisce soltanto creando empatia con le vittime e rappresentando l’orrore come un orrore. Questa è una delle opere cinematografiche più importanti e morali degli ultimi decenni, soprattutto in questo momento storico. Un film di pura gravità poetica come il Wenders di Il cielo sopra Berlino, a cui il film rimanda con la presenza di Bruno Ganz rovesciato da angelo a Caronte/Virgilio, forse non è più possibile, a meno di estraniarsi completamente dalla rappresentazione della società postmoderna. Questa è forse la questione di fondo che andrebbe discussa. Poiché ci porta direttamente a chiederci in quale società siamo, cosa siamo diventati.

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