12 aprile 2019 13:58

Oro verde - C’era una volta in Colombia è un dolente canto poetico sulla profanazione di un mondo perduto, nascosto, ma che al contempo accetta di farsi profanare perché sedotto dal miraggio della ricchezza. Film d’apertura della Quinzaine des réalisateurs all’ultimo festival di Cannes, dove ha vinto il premio della critica, giunge in sala il quarto lungometraggio del regista colombiano Ciro Guerra, questa volta in coppia con la sua produttrice Cristina Gallego che debutta così alla regia. Un film che va alle origini del narcotraffico colombiano.

Se non è un capolavoro è comunque un film importante, un’opera fortemente originale che, se lasciata sedimentare, dispiega ulteriormente la sua forza, quasi da cinema d’altri tempi. Il titolo precedente di Ciro Guerra, L’abbraccio del serpente – vincitore come miglior film della Quinzaine des réalisateurs a Cannes nel 2015 e primo lungometraggio colombiano a essere candidato agli Oscar – vedeva protagonista un vero sciamano della giungla amazzonica profanata, ieri come oggi, dall’avidità dei bianchi e fotografata in un mirabile bianco e nero. Qui siamo invece in un film girato a colori dove il protagonista non c’è o, per meglio dire, al centro c’è un’intera collettività composta da attori professionisti e non professionisti. In Oro verde è il legame familiare che salda l’unione tra gli individui e le famiglie si saldano a loro volta con la comunità.

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Le prime parole dette nell’ombra di una capanna ce lo fanno subito capire. “La famiglia, la nonna, il nipote dello zio, il nipote del nonno, sono rappresentati nelle dita della mano”. Perché “se c’è famiglia c’è rispetto. Se c’è il rispetto c’è l’onore, se c’è l’onore c’è la parola. Se c’è la parola, c’è la pace”. Questo inanellarsi di parole è la quintessenza della ritmica di una popolazione che tramanda la sua cultura oralmente. Perché la permanenza della famiglia e della parola sono fondamentali affinché il popolo “wayúu non dimentichi le sue origini”. E preservare il senso delle origini – della memoria – è fondamentale perché il popolo non venga distrutto.

Ambientato nell’estremo nordovest della Colombia, più esattamente nel deserto di La Guajira (che comprende anche una parte del Venezuela), il film scivola con naturalezza dal realismo all’onirico, dal registro antropologico alla dimensione magica, dalla denuncia politica al ritratto di caratteri umani che, per certi aspetti, si rivelano da romanzo. La denuncia politica è subito detta. Il capitalismo, la sua cultura, finisce per fare gravi danni anche quando magari non c’è l’intenzione. Come se fosse intrinseco alla sua natura. Suddiviso in cinque capitoli – denominati canti – è ambientato principalmente a cavallo tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta, tra la fine dell’era delle speranze kennedyane e l’inizio della plumbea era nixoniana: questo è il momento chiave che il film esplora, quello dove nasce tutto, anche se la narrazione arriva fino ai primi anni ottanta.

John Kennedy prima e suo fratello Robert poi, nel cercare di mobilitare i giovani americani verso un impegno civile, istituirono i Peace corps, un corpo non militare ma di volontari il cui intento doveva essere quello di portare aiuto in ambito educativo o sanitario, capire le altre culture e, contemporaneamente, portare una nuova immagine degli Stati Uniti nei paesi in via di sviluppo.

Il racconto di come una popolazione arcaica si trasformi in pochi anni in una gang di narcotrafficanti per poi sgretolarsi

In generale non molto amato dalle amministrazioni repubblicane, il programma dei Peace corps è ancora oggi fonte di volontari sparsi per il mondo, con una partecipazione altalenante a seconda dei decenni. I due registi di Oro verde, nel loro spaccato di un’epoca, ci dicono che il comportamento di tanti volontari del programma devastò la Colombia e la sua comunità indigena. Certo, la colpa non fu direttamente dei Kennedy ma, stando al film, dei figli dei fiori, o presunti tali, ossessionati dalla marijuana e più interessati a suonare la chitarra su una spiaggia, con accanto una bella ragazza, piuttosto che dare istruzione e assistenza alle popolazioni locali. La marijuana beninteso, è l’oro verde del titolo.

Se il film è corale vi sono comunque alcuni personaggi centrali. Anzi, una famiglia. Infatti è il desiderio di un suo componente di sposarsi con la figlia di una potente capoclan ad accendere la (lunga) miccia che porterà all’esplorazione devastatrice. Poiché è meticcio (come l’attore che lo interpreta), suscita diffidenza tra i nativi wayúu. Ursula, la capoclan che, ieratica, domina il film dall’inizio alla fine (l’attrice che la interpreta proviene da quella zona e si porta dietro una difficile storia familiare che trova eco nel film), lo fa capire subito al pretendente della figlia: “Sono capace di tutto per la mia famiglia e per il mio clan. Questo è il talismano della mia famiglia”. Oggetti, i talismani, portatori di un’energia metafisica o, se si preferisce una visione razionale, conferitagli dalla nostra mente.

Ma tutta questa delicata alchimia si rompe perché Raphayet, il giovane meticcio in questione, avendo vissuto al di fuori della comunità, ha notato che i giovani americani sono pazzi di quest’erba che cresce abbondante, la marijuana. Si allea così con un nero per vendere la prima grande quantità di erba e raccogliere la somma necessaria per sposare la ragazza. Comincerà così una veloce scalata al successo e alla ricchezza che coinvolgerà il suo clan, quello di Ursula e di un altro parente.

È l’inizio di un progressivo snaturamento, di una vera e propria spirale di perdizione, fino alla caduta di Ursula e dei tre clan coinvolti, finché il resto della comunità wayúu, vista la piega feroce e incontrollata che prendono gli avvenimenti non opterà per un taglio netto. Il film narra molto bene questa complicata vicenda. Il racconto di come una popolazione arcaica si trasformi in pochi anni in una gang di narcotrafficanti per poi sgretolarsi e lasciare il posto ai trafficanti di oggi, estranei alla comunità, inizialmente presenti ma con ruoli secondari.

Si rendono presto conto, protagonista compreso, di non essere adatti, di essersi traditi da soli. Numerose sono le scene oniriche, dove i personaggi, in modo particolare quelli femminili, parlano con il sogno, che equivale alla coscienza, più esattamente a un’antica coscienza. Anche il film, come loro, parla con il sogno. In più di un momento tende a creare una forte unione tra i registro realistico e quello onirico. Come nella lunga parte che si svolge nella villa che la famiglia ha fatto costruire nel deserto senza alcuna vegetazione intorno, una visione già in sé surreale. Qui, le sequenze notturne, esplicitamente oniriche, e quelle diurne, realistiche, pian piano si equivalgono. Si vede che malgrado gli agi si sentono come sospesi nel nulla, nel limbo. Tendono a dormire sull’amaca anziché sul letto. Il sonno non è mai sereno. A Raphayet, a un dato momento, il sangue versato per mantenere il controllo pesa come un macigno: “Abbiamo perso l’anima”, dice a Ursula in un misto di mestizia e terrore.

Resistenza e resa
Oro verde è chiaramente un film di segni e presagi dove la vita quotidiana porta con sé la consapevolezza della morte. “Siamo già tutti morti”, dirà più avanti Raphayet. La colpa più grande, quella che disgrega tutto, è aver tradito la parola. In senso letterale come figurato, la parola del presente e quella del passato.

Il film, nel rappresentare questa cultura fiera, al contempo maschilista e matriarcale, rimanda con la mente alle tante comunità arcaiche che vengono snaturate da avvenimenti a loro estranei. La questione è ridare all’identità delle origini una dimensione degna, che non cada nelle trappole del mondo esterno senza nemmeno essere chiusi a esso. In definitiva è questo che Oro verde sembra reclamare nella sua denuncia delle perversioni della cultura capitalistica e consumistica occidentale.

Quella del film è una comunità fiera e del tutto autonoma, consapevole di aver resistito, come dice un’anziana donna, ai pirati, agli inglesi e agli spagnoli. E ai governi “che hanno cercato di dirci come avremmo dovuto vivere”. Ma più in generale il film, frutto di un lavoro di dieci anni e di lunghe ricerche, si lega al cinema antropologico e – a tratti – viene in mente perfino quello, davvero geniale, di Jean Rouch, pur essendo in fondo una storia di gangster declinata, per buona metà, in senso matriarcale.

Alla fine, quando tutto si dissolve e si placano gli odi feroci che rivelano la follia dell’intero genere umano, non resta che tornare alla tradizione, alla sabbia, al vento, alla parola. Ai talismani e alle collane, simbolo di quella circolarità con cui si inanellano i componenti della catena familiare nel dialogo citato all’inizio. La volgarità di questa deriva può allora essere consegnata al mito e recuperare dignità perché trasfigurata nella bellezza di un canto malinconico, quello di un pastore che apre e chiude il film, emblema di una circolarità che si rispecchia fin nella struttura narrativa: “Ho cantato l’addio ai morti e il ricordo delle guerre. La mia memoria vacilla, con lei i miei canti e le mie storie svaniranno. Prima che le mie impronte si cancellino voglio ricordare con il mio canto. L’amore, la desolazione, la ricchezza e il dolore. Di quella grande famiglia che si distrusse da sola”.

Canta la storia “di un’erba selvatica che credevano salvatrice ma che ha distrutto tutto come uno stormo di cavallette. Si è trasformata e l’avidità non l’ha più abbandonata. Se solo avessimo ascoltato i sogni e la voce dei morti”. Una storia di segni tracciati con un bastoncino sulla sabbia, portati e cancellati dal vento. “Canto affinché rimanga per sempre impressa nei sogni e nella memoria”. Storia crudele e prosaica di una malaerba che ha avvelenato tutto, si è ora trasformata in un canto triste e poetico. Per sempre, o almeno fino a quando qualcuno la saprà ascoltare nel vento.

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