14 febbraio 2019 15:02

A Pedro Sánchez il coraggio non è bastato. Il 1 giugno 2018 il leader del Partito socialista operaio spagnolo (Psoe) aveva preso il posto del premier conservatore Mariano Rajoy con una mozione di sfiducia sostenuta da Podemos, dal Partito nazionalista basco e dai due partiti protagonisti del braccio di ferro con Rajoy sull’indipendenza della Catalogna: il Partito democratico europeo catalano (Pdecat) e la Sinistra repubblicana della Catalogna (Erc).

La mossa di Sánchez, che dispone di appena 84 deputati su 350, si basava su una scommessa azzardata: rompere la dinamica perversa tra opposti nazionalismi che aveva fatto precipitare la crisi catalana fino alla dichiarazione d’indipendenza e allo scioglimento del governo regionale, riaprire il dialogo con i separatisti e riportare al centro del dibattito politico le questioni economiche e sociali. La legge di bilancio per il 2019 era l’elemento centrale di questa strategia. Avrebbe dovuto rompere con l’austerità imposta alla Spagna dalla crisi bancaria del 2012 e introdurre misure auspicate da tempo come l’aumento del salario minimo e delle pensioni, finanziate dall’aumento delle tasse sui redditi più alti.

A far naufragare il progetto è stato proprio lo scontro fra i suoi due assi portanti. Il 13 febbraio il parlamento spagnolo ha bocciato la legge di bilancio, perché Pdecat ed Erc si sono schierati con l’opposizione. I due partiti non avevano niente contro il bilancio in sé, che tra le altre cose avrebbe aumentato i fondi a disposizione della Catalogna: la loro decisione è stata motivata dal fallimento delle trattative con il governo sull’autonomia della Catalogna.

Per gli indipendentisti il voto sul bilancio era il principale strumento di pressione

Il dialogo si era arenato sulla questione fondamentale: i separatisti volevano un referendum autorizzato sull’indipendenza della Catalogna, mentre il governo era disposto a concedere solo un significativo aumento dell’autonomia. Per gli indipendentisti il voto sul bilancio era il principale strumento di pressione in questo negoziato, ma a Barcellona sapevano che con la legislatura agli sgoccioli Sánchez non avrebbe mai potuto mettere sul tavolo la prospettiva dell’indipendenza. Se hanno deciso di arrivare alla rottura proprio adesso, facendo cadere il primo governo che aveva cercato di affrontare la crisi catalana con il dialogo invece che con la polizia e i tribunali, è perché non potevano assumersi di fronte alla parte più radicale del movimento la responsabilità di aver rinunciato all’obiettivo finale, e allo stesso tempo avevano bisogno di un pretesto per convincere i più moderati che era necessario tornare allo scontro con Madrid.

Questo pretesto è stato offerto dal processo contro i dodici indipendentisti catalani arrestati dopo il referendum del 2017, che si è aperto a Madrid il giorno prima del voto sul bilancio. Tra molti catalani, anche quelli che non hanno votato per l’indipendenza, l’indignazione nel vedere dei rappresentanti regolarmente eletti accusati di reati gravissimi che comportano fino a 25 anni di prigione è tale da far passare in secondo piano qualunque altra considerazione.

Inoltre tra i partiti indipendentisti sembra aver prevalso la logica del “tanto peggio, tanto meglio”: se a Madrid tornassero al potere i conservatori, in Catalogna il sostegno all’indipendentismo ne guadagnerebbe. Questo calcolo è stato paradossalmente rafforzato dalla manifestazione contro le trattative fra il governo e gli indipendentisti che si è svolta a Madrid il 10 febbraio, in cui i leader del Partito popolare e di Ciudadanos si sono mostrati fianco a fianco con l’estrema destra nazionalista di Vox. È la conferma che la coalizione con cui i tre partiti hanno conquistato il governo regionale dell’Andalusia potrebbe essere riproposta a livello nazionale, e che la linea dura contro gli indipendentisti sarebbe il suo collante principale.

Sánchez, che sperava di arrivare al 2020 o almeno all’autunno per presentare i risultati della sua svolta e consolidare il fronte della sinistra, ha deciso di giocare d’anticipo: ha indetto le elezioni anticipate per la prima data utile, il 28 aprile, per approfittare dell’indignazione per il tradimento sul bilancio. Inoltre spera di approfittare della grande manifestazione femminista prevista per l’8 marzo per mobilitare i progressisti contro la marcia indietro sui diritti promessa dalla destra unita. Per il momento i sondaggi vedono in testa i socialisti con il 30 per cento, ma il probabile crollo di Podemos potrebbe privarli dell’unico alleato rimasto. La speranza di Sánchez è che molti elettori di sinistra delusi tornino a votare, attratti dalla prospettiva che si torni a parlare di politica invece che di nazionalismo. Un’occasione che potrebbe non ricapitare più per molto, molto tempo.

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