18 luglio 2017 10:24

Nell’ultimo decennio ci sono state poche band come gli Arcade Fire. Il gruppo guidato da Win Butler e Régine Chassagne è stato un piccolo miracolo musicale e discografico, in grado di partire nel 2004 dalla provincia dell’impero, il Québec, per conquistare il resto del mondo con il fulminante disco d’esordio Funeral.

Da quel momento la band ha proseguito senza guardarsi indietro, costruendosi una solida reputazione soprattutto grazie ai suoi concerti trascinanti, e vincendo addirittura un Grammy per l’album dell’anno nel 2010 con The suburbs. Il percorso degli Arcade Fire li ha portati fino al nuovo disco Everything now, in uscita il 28 luglio. L’album, che raccoglie 13 canzoni, si apre e si chiude con lo stesso pezzo, Everything now, prima in una versione più veloce e pop e poi in una più lenta e orchestrale. Tra questi due estremi ci sono tutti gli altri brani, che scorrono quasi come una playlist. Sono canzoni costruite sul ritmo, un po’ come succedeva con il precedente Reflektor, ma più scanzonate. Come sempre, gli Arcade Fire giocano con i generi e si divertono a stare in equilibrio tra disco music (il singolo Signs of life), reggae (Chemistry) ed elettronica (Creature comfort, prodotta da Geoff Barrow dei Portishead, è uno dei pezzi migliori).

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Quando raggiungo Win Butler nel suo camerino, a un paio d’ore dall’inizio del concerto degli Arcade Fire a Milano (la band si esibirà il 18 luglio all’Ippodromo del Visarno di Firenze), mi fa sedere su una sedia d’epoca, con i cuscini viola imbottiti e i braccioli dorati. Il leader degli Arcade Fire porta degli stivali bianchi da cowboy, i capelli ossigenati, una giacca scura e un cappello. Da vicino sembra ancora più alto che durante i concerti: non a caso è un grande appassionato di basket e ha partecipato all’All Star celebrity game, un’amichevole annuale tra ex giocatori e personaggi dello spettacolo organizzata dall’Nba.

Il nuovo disco ha una struttura circolare, costruita intorno al brano Everything now. Com’è nato questo pezzo?
Anche The suburbs, il nostro disco del 2010, si apriva e si chiudeva con lo stesso pezzo. Quando abbiamo registrato le prime versioni di The suburbs, avevo scritto così tante parole che il brano durava venti minuti. Anche Everything now all’inizio era sterminata, tipo 20 o 25 versi. A un certo punto ho deciso di ridurla a tre o quattro versi. Per me scrivere canzoni è come comporre una poesia o girare un film. Parti da un’emozione, da un sentimento che vuoi esprimere. Non è semplice, perché a volte lavori su sentimenti contrastanti: magari esce fuori una musica molto felice con un testo cupo. Everything now parla di cosa vuol dire essere vivi oggi. È un brano che cerca di descrivere le complessità del nostro mondo con un linguaggio pop. La parte musicale è nata quasi per caso, mentre suonavano una cover di The coffee cola song del musicista camerunense Francis Bebey.

Ascoltando il disco, l’impressione è che abbiate portato avanti il discorso fatto con Reflektor. Vi siete concentrati più sul ritmo che sulla musica. Sei d’accordo?
Sinceramente no, non credo che il nostro modo di scrivere sia cambiato dal 2004 a oggi. I primi dischi li abbiamo fatti da soli, mentre per gli ultimi due abbiamo deciso di coinvolgere dei produttori, come James Murphy degli Lcd Soundsystem, che ha lavorato a Reflektor, e Thomas Bangalter dei Daft Punk, che ci ha aiutato per alcuni brani di questo disco. Quando sei in una band, dopo un po’ non ti piace più quello che fai perché diventi troppo autocritico. Avere un parere esterno aiuta, ma non cambia il tuo modo di fare musica, ti aiuta semplicemente a capire meglio quale direzione prendere. Io penso spesso al nostro primo ep: l’abbiamo registrato prima di Funeral e c’era Headlights look like diamonds, una delle nostre prime hit. Quando la gente la sentiva ai concerti andava fuori di testa e quello era già un pezzo costruito sul ritmo. Le nostre influenze sono le stesse di sempre: New Order, Neil Young, i Clash, Claude Debussy, Arvo Pärt, Johnny Cash.

Sei soddisfatto dell’album? Non hai paura che qualche fan possa restare deluso dai vostri album più recenti?
M’interessa solo il giudizio che le persone avranno tra venti o trent’anni. Quello che dicono ora non è importante. Pensa ai Bee Gees e agli Abba: negli anni settanta tutti pensavano che la loro musica facesse schifo e i critici preferivano esaltare gli Emerson, Lake & Palmer e altre band prog. Non sai mai come il tempo possa cambiare la percezione di un disco. A parte i Radiohead e Björk, che da ragazzino mi hanno conquistato fin da subito, spesso ho bisogno di tempo per apprezzare un gruppo. A noi piace sperimentare, mescolare le carte. Everything now è un disco del nostro tempo, che supera il concetto di genere, è questa la sua forza.

Com’è andata in studio con Thomas Banglater dei Daft Punk?
Molto bene. È un amico e vede la musica come la vediamo noi. È molto attento ai dettagli, è un perfezionista e lavorare con persone del genere è sempre facile.

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Nel brano Signs of life canti di “ragazzi intrappolati nel passato”. Su chi stai ironizzando? Pensi che il pubblico di oggi sia troppo retromaniaco, come direbbe Simon Reynolds?
È un messaggio a me stesso, più che altro. Quando nelle mie canzoni parlo di ragazzi, come in Rococo, in realtà parlo di me. Del resto anch’io, quando avevo l’età delle persone che vengono ai nostri concerti, ero come loro. Nel 1997 ascoltavo un sacco gli Smiths, per esempio. La musica del passato serve a definire la propria identità. È come un taglio di capelli o una giacca.

Che musica vi ha influenzato di recente?
Tante cose. La musica africana, in particolare quella angolana. Mi piace sempre scoprire cose nuove, in questo cerco d’ispirarmi a David Bowie e David Byrne. Li ho incontrati per la prima volta quando sono venuti a sentirci a New York nel 2004. Tutti e due erano affamati di musica, erano sempre curiosi di scoprire cose nuove.

A proposito di scoprire musica, che rapporto hai con l’hip hop?
Kendrick Lamar e altri rapper in questo momento sono l’avanguardia. Il songwriting classico è in crisi. Comporre musica pop e rock è diventato come fare un jingle. Si ripetono gli stessi ritornelli, le stesse formule. Anche la musica che sembra naturale a un primo ascolto spesso è fatta con programmi come Pro Tools. Per questo preferisco registrare in presa diretta. Le imperfezioni fanno parte della musica.

Gli Arcade Fire sono da sempre una band impegnata dal punto di vista politico. Negli ultimi giorni sono scoppiate diverse polemiche riguardo al concerto dei Radiohead a Tel Aviv e i sostenitori del boicottaggio culturale hanno chiesto alla band di cancellare lo show. Voi andreste a suonare in Israele?
Di recente ci hanno offerto di suonare là, ma abbiamo rifiutato, dopo averne discusso un po’ tra di noi. Però non penso che i Radiohead stiano facendo niente di male. Nessuno può mettere in dubbio il loro impegno politico, direi. Non credo che il concerto dei Radiohead possa cambiare la situazione tra Israele e Palestina, in un senso o nell’altro. Questa storia più che altro fa molto comodo ai giornalisti, perché le notizie di questo tipo fanno tanti clic. Ridurre la questione israeliana a un litigio tra Thom Yorke e Roger Waters è patetico.

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