27 ottobre 2017 12:22

Una batteria elettronica e un sintetizzatore. Comincia così Infedele, il terzo album di Lorenzo Urciullo, in arte Colapesce. E lo si capisce subito, fin dalle prime note del brano Pantalica, che questo è un disco spartiacque per la sua carriera. Come se il cantautore siciliano avesse voluto rivendicare la sua diversità rispetto al resto della musica alternativa italiana, allargando la geografia della sua musica.

Infedele all’inizio doveva essere un doppio. Poi, insieme ai due produttori Mario Conte e Jacopo Incani (ai più noto come Iosonouncane), Colapesce ha deciso di tenere solo otto brani tra i venti registrati. L’album, tanto compatto quanto vario dal punto di vista sonoro, è diviso in due parti: una prima più “antica”, come la definisce Colapesce, influenzata dal fado e dalla psichedelia anni sessanta e una seconda più contemporanea, orientata al pop elettronico.

In realtà la divisione non è così netta: la già citata Pantalica, il brano che apre il disco, è un brano principalmente elettronico, con una coda strumentale e un assolo di sax che fanno venire in mente proprio le atmosfere di Die di Iosonouncane. E poi c’è il pop beatlesiano di Ti attraverso e quello alla Lucio Battisti del singolo Totale.

Il vertice del disco è forse Vasco da Gama, un pezzo acquatico e sensuale costruito su un riff di arpa e arricchito da inserti di chitarra acustica. Maometto a Milano invece ricorda le atmosfere del precedente Egomostro ed è una critica feroce alla città lombarda, dove Colapesce vive. A chiudere il disco c’è Sospesi, una malinconica ballata per piano e batteria arricchita da un coro finale.

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Perché hai intitolato il disco Infedele?
Perché dal punto di vista musicale sento di non appartenere a nessuna parrocchia: indie, musica elettronica o altro. Inoltre nei testi delle canzoni, che sono in parte autobiografici, ci sono molti riferimenti all’infedeltà: oggi non è facile essere fedeli alle cose e alle persone, perché gli stimoli sono continui. Uno si lascia distrarre facilmente. Anche a livello iconografico ho voluto giocare con questo concetto: sulla copertina del disco c’è una mia foto mentre faccio la comunione e c’è un estratto del Vangelo secondo Marco.

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Com’è nato il brano Vasco da Gama?
Ero in viaggio a Malindi, in Kenya, un posto dove ci sono molti italiani che giocano a fare i Briatore della situazione. Camminavo sulla costa, quando mi sono trovato davanti a una statua di Vasco da Gama. Quello mi ha dato lo spunto per rileggermi la sua storia. In seguito sono stato anche in Portogallo nel luogo dov’è sepolto, e ho deciso che dovevo scriverci una canzone. Il pezzo alla fine l’ho composto a Milano, un giorno che avevo la febbre alta. Avevo un loop di arpa che mi piaceva e sono partito da quello. Poi ho scritto il basso, la strofa e il ritornello, ma qualcosa non mi tornava. Non riuscivo a scrivere la seconda strofa. Quando l’ho fatta sentire a Jacopo lui mi ha detto che doveva rimanere così. Nella parte centrale, oltre alla chitarra acustica, ho aggiunto un coro tratto da un documentario di Vittorio De Seta sulla pesca al pesce spada. Infatti in sottofondo si sente il rumore del mare. Questo pezzo ha una magia che non so spiegare neanch’io, direi che sono stato fortunato, più che bravo.

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Perché hai scelto Pantalica come primo brano del disco? Che significato ha questo pezzo per te?
Questo è un disco di luoghi, con una sua ricchezza geografica. Pantalica è un posto sacro, non solo per me. È una necropoli, uno dei primi insediamenti umani in Sicilia. È vicino al mio paesino di origine, Solarino. A Pantalica c’è una specie di canyon dove scorre il fiume Anapo e c’è una vegetazione incredibile. In quel luogo sono nate diverse leggende della tradizione popolare, su serpenti giganti e cose del genere. È un patrimonio dell’Unesco, ma non è tanto conosciuto. Pantalica fa parte della prima parte del disco, quella con il linguaggio più antico, ma per contrasto ha un arrangiamento molto tribale. È nata di getto, come tanti pezzi di questo disco, da un beat di batteria elettronica e da un riff di arpeggiatore. Jacopo mi ha aiutato a finirla e ci abbiamo aggiunto l’assolo di sax.

Com’è andata la collaborazione con Iosonouncane?
È una persona diversa da quello che ci si aspetta, posso dirlo perché siamo amici da tempo. Per esempio è un grande fan degli Oasis, me li ha fatti ascoltare anche mentre lavoravamo al disco. E poi è un conoscitore di tutta la musica pop da classifica, non solo di quella “difficile”. Infatti ha una grande capacità melodica. Ha avuto un ruolo importante nel disco, soprattutto perché mi ha aiutato a selezionare i pezzi. Quando ho abbandonato l’idea di fare un doppio, mi ha aiutato a scegliere i pezzi da mettere nel disco. Siamo entrambi uomini di mare, ma lui da buon sardo è più solido, più testardo, mentre io sono più sognatore.

Ti attraverso è nata in un pomeriggio, vero?
Avevo scritto la parte di piano anni fa a Milano e mi piaceva un sacco, ma non riuscivo a tirare fuori il resto. Poi due anni dopo, con una chitarra che avevo comprato a Torino, ho scritto il ritornello, ma non mi venivano le strofe. Un pomeriggio, di getto, sono venute fuori anche le strofe. Questo è un disco urgente, meno citazionista rispetto al passato. Le influenze ci sono, ma sono più nascoste.

Quali sono?
Oltre a quelle già citate, c’è per esempio il compositore Piero Umiliani. Quando ho scritto Maometto a Milano invece pensavo a Onda su onda di Bruno Lauzi. Volevo un’atmosfera esotica che contrastasse con il ritornello, che è molto più brutale.

Perché hai fatto una canzone su Milano?
È inevitabile che le città finiscano nelle canzoni. Milano, dove vivo quando non sto a Catania, ha alcune cose che mi fanno rabbrividire. È piena di gente del sud che pensa di arrivare in città per rincorrere un’idea di libertà assurda, che non c’è. A Milano poi c’è molta gente che chiacchiera e basta, forse perché non ha bisogno di lavorare, e io non mi ci trovo perché, nonostante quello che le persone possono pensare, vivo la musica come un lavoro duro. Ma è anche un luogo bellissimo da raccontare, non lo nego. Ci sono delle canzoni bellissime scritte su Milano: per esempio Lombardia di Herbert Pagani, versione italiana de Le plat pays di Jacques Brel. Nel pezzo Pagani canta: “Qui il cielo è così basso che c’insegna l’umiltà”.

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Non pensi che in questi anni si siano create due scuole nella cosiddetta musica alternativa italiana? Una segue uno stile più ironico e radiofonico e l’altra, della quale fai parte anche tu, si sforza di fare musica più complessa e senza tempo. Non ti senti in contrasto con il cosiddetto indie italiano che riempie i palazzetti dello sport?
Sono d’accordo, ci sono due Italie: i giornalisti parlano molto della musica indipendente che riempie i grandi spazi, ma questo è un falso storico. Molti gruppi indipendenti si sono avvicinati alle logiche delle major, scrivono pezzi per le radio, con un suono patinato e bidimensionale. Non solo, c’è stata una riabilitazione del trash anni ottanta e del “volemose bene” che secondo me è pericolosa, perché anche tra gli addetti ai lavori passa il messaggio che alcuni gruppi, anche se fanno cabaret, sono la musica indipendente. Gli altri passano da sfigati perché non fanno gli stessi numeri e vengono tagliati fuori dal giro dei concerti, magari perché hanno un linguaggio più ostico. Questo è un problema, perché da sempre la musica alternativa nutre anche quella mainstream. La situazione, lo ripeto, è anche colpa del giornalismo che alimenta questi fenomeni.

Cosa farai con i pezzi che non sono stati inseriti in Infedele?
I brani non sono stati scartati perché non erano belli, ovviamente, ma perché non erano funzionali al discorso che volevo portare avanti. Quando scrivo le canzoni non penso che abbiano una data di scadenza. Mi piacerebbe far uscire anche altre cose, perché il mercato della distribuzione è cambiato e non mi sento di dover aspettare per forza quattro anni per far uscire un altro disco.

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