23 marzo 2018 13:17

Nel 1940 il grande bluesman Lead Belly, scoperto da Alan Lomax mentre marciva in una prigione della Louisiana, registrò a New York una canzone intitolata Good morning blues. “Se di notte ti rigiri nel letto senza prendere sonno, vuol dire che ti ha preso il blues”, cantava Lead Belly.

Nel 2018, a 78 anni di distanza, ci sono due persone che a quanto pare si rigirano ancora nel letto: sono Ben Harper e Charlie Musselwhite, due musicisti di generazioni diverse che da qualche anno fanno coppia fissa. Due artisti che si sono conosciuti grazie a un amico comune: un certo John Lee Hooker.

Charlie Musselwhite, 74 anni, armonicista e cantante, è un nome storico del blues bianco statunitense. Ha suonato con lo stesso John Lee Hooker, ma anche con B.B. King e altri mostri sacri del blues. La leggenda vuole che sia stato proprio lui a ispirare il personaggio di Dan Aykroyd nei Blues brothers. Musselwhite ha alle spalle una vita difficile. Suo padre l’ha abbandonato da piccolo, sua madre è stata uccisa durante una rapina nel 2005 e lui ha dovuto combattere per anni contro l’alcolismo.

Ben Harper, 48 anni, è famoso anche per chi non segue il blues. Fin dagli inizi della sua carriera, negli anni novanta, ha avuto il merito di mescolare il blues con tanti altri generi, dal soul al pop, dal reggae all’hard rock, rendendo la musica tradizionale accessibile anche al pubblico delle radio e di Mtv, pur conservando intatta la sua integrità artistica.

Il nuovo disco di Harper e Musselwhite s’intitola No mercy in this land e uscirà il 30 marzo. È il secondo che hanno registrato insieme ed è il seguito di Get up!, pubblicato nel 2015 e vincitore di un Grammy. Come il precedente, è un disco blues, scritto e cantato con forza e sincerità. Anche stavolta i brani sono stati scritti da Ben Harper e arrangiati insieme a Musselwhite. I due musicisti presenteranno il nuovo lavoro dal vivo in Italia ad aprile con due concerti a Milano.

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“Roma è più bella di Milano, ma qui è più difficile trovare un posto dove fare skate”, dice Ben Harper mentre si siede per cominciare l’intervista. Siamo in un hotel nel centro della capitale. Harper porta un berretto di lana e una camicia verde militare aperta, da cui spunta una maglietta. Sembra più giovane della sua età. Parla lentamente, e quando lo fa ti guarda dritto negli occhi, quasi scandendo le parole per farsi capire meglio. Viene quasi da definirlo paterno.

Charlie Musselwhite, che è arrivato a passo lento accompagnato dalla moglie, ha una camicia a quadri di flanella. Sfoggia un anello enorme nella mano sinistra e parla ancora più lentamente. Tiene in mano la sua armonica, anche se non deve suonare, come fosse una coperta di Linus. Ogni tanto si tira indietro i capelli bianchi. Pesa molto le parole, sorride quasi sempre e a tratti sfodera un’ironia tagliente, come quelli che ne hanno viste tante che non si sorprendono più di niente.

Harper e Musselwhite danno risposte brevi alle mie domande, scambiandosi occhiate d’intesa, quasi volessero chiacchierare più che essere intervistati. Per questo, più che un’intervista, questo è diventato un dialogo a tre voci.

Il disco comincia con When I go, che sembra uno spiritual cantato da un fuggitivo. Il testo recita: “Quando me ne andrò da qui, non avrò nessun posto dove andare”. Perché l’avete scelto come apertura?
Ben Harper: Decidere l’ordine delle canzoni di un disco è faticoso tanto quanto registrarlo. Ci sembrava che quel brano fosse il modo migliore per dare la giusta spinta al resto del disco. Questo brano non parla di una persona in particolare, vuole essere universale. Racconta un tormento interiore e parte da una domanda semplice: dove andrò quando lascerò il posto dove vivo? Il protagonista della canzone non lo sa, ma vuole portare con sé la persona che ama. Per noi questo sentimento di frattura rappresenta l’essenza del blues.

Charlie Musselwhite: Bravo Ben, non ci avevo mai pensato. Hai ragione!

Uno dei momenti più intensi del disco arriva nel brano No mercy in this land, in particolare quando Charlie Musselwhite canta l’abbandono del padre e la morte della madre. Questo è il brano più personale dell’album, siete d’accordo?
CM: Ben scrive grandi canzoni blues e sono onorato di poterle cantare e suonare. Per me No mercy in this land è il pezzo migliore del disco, il più emozionante. Lo amo.

È vero che non avete mai parlato dei testi delle canzoni, né prima né dopo le registrazioni?
CM: Io e Ben ci conosciamo molto bene, ormai. Mi fido ciecamente di quello che scrive. Non abbiamo bisogno di parlare di certe cose, le facciamo e basta.

Che suono avete cercato di ottenere in studio?
BH: Abbiamo tenuto i microfoni il più lontano possibile dalle chitarre e dalla batteria, perché volevamo catturare l’atmosfera che c’era dentro la stanza mentre suonavamo. Era come stare in una macchina del tempo.

È stato più facile o più difficile registrare No mercy in this land rispetto a Get up!?
CM: Più facile. La musica era già in studio ad aspettarci quando siamo arrivati. Non abbiamo fatto altro che catturarla. Prima di lavorare all’album siamo stati in tour insieme per due anni e, come dicevo prima, ormai ci basta uno sguardo per capirci.

BH: Quando ho chiesto a Charlie quale studio dovevo prenotare, si è messo a ridere e mi ha detto: “Quello con le canzoni migliori!”.

La canzone The bottle wins again parla di alcolismo?
BH: È ispirata alle nostre vite, ma non va presa in modo letterale. Anche qui sono partito da una domanda interiore: come si fa a controllare una situazione prima che la situazione controlli te? Queste sono state le prime session della mia vita in cui non ho bevuto un goccio d’alcol. Non ho mai fatto un disco da ubriaco, sono sempre riuscito a controllarmi, ma stavolta non ho proprio toccato niente.

Cos’è il blues per voi?
CM: Il blues ti insegna una lezione: non importa quanto le cose possano mettersi male, hai sempre la possibilità di risolverle, l’importante è non arrendersi. Nella musica hillbilly i protagonisti delle canzoni dicono di volersi buttare giù da un ponte perché hanno perso il lavoro. Nel blues nessuno si butta giù da un ponte perché ha perso il lavoro, ma va a casa dalla sua donna o a giocare a carte piuttosto.

BH: Il blues è qualcosa che non puoi cambiare, ma ci provi lo stesso.

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Ha senso fare un disco blues nel 2018?
BH: Certo! È un genere molto vitale, che racconta il mondo di ieri tanto quanto quello di oggi.

CM: Come diceva Jimi Hendrix: “Il blues è facile da suonare ma difficile da sentire”. In questi anni lo stile del blues è cambiato, ma il sentimento è sempre lo stesso. Noi non abbiamo smesso di provarlo.

Vi siete conosciuti grazie a John Lee Hooker. Avete qualche ricordo particolare di lui?
CM: C’è una storia su John che mi capita di raccontare spesso, è molto divertente e ti fa capire che tipo era. John non sapeva dire di no. Un giorno un tizio gli chiese di cantare in un suo pezzo. Gli disse: “Vengo a casa tua e registriamo la voce”. Lui non era tanto convinto, temporeggiò un po’ ma alla fine accettò. Il tizio andò a casa sua e bussò alla porta, gli aprì una ragazza. Trovò John in salotto, che guardava la partita di baseball seduto sul divano, con gli occhiali da sole. Il tipo gli mise il microfono davanti alla bocca. Accese il registratore e lui borbottò qualcosa nel microfono. Fatto, buona la prima. Quando il tizio andò via, lui non si alzò nemmeno dal divano per salutarlo e continuò a vedere la partita.

Ben, da bambino hai lavorato nel negozio di dischi dei tuoi nonni, il Folk Music Center di Claremont. È vero che hai ascoltato lì per la prima volta i dischi di Charlie Musselwhite?
BH: Sì, è vero. Mi colpì subito il modo in cui suonava l’armonica. Sai, quando mi chiedono a chi ci siamo ispirati per registrare questo disco, quali sono state le nostre influenze, dico sempre che non avevo bisogno di farmi influenzare da nessuno, la storia del blues è qui al mio fianco.

Quanto blues c’è negli altri generi musicali contemporanei? Per esempio, nell’hip hop?
BH: Quando ascolti i Public Enemy che campionano Bob Marley, o i De La Soul, capisci che c’è parecchio spirito blues nel rap. Certo, anche il jazz ha influenzato l’hip hop. Ma da dove viene il jazz? C’è del blues nella voglia di ribellione di molti pezzi hip hop, come di molti brani reggae o rnb. Blues e rap hanno in comune la voglia di ribellarsi alla schiavitù, sia quella fisica sia quella mentale. Entrambi i generi inoltre hanno il potere di rompere le barriere. Quando senti Muddy Waters che canta: “Spell m-a child -n” (canta un pezzo del brano Mannish boy), non sai neanche bene di cosa sta parlando. Parla di schiavitù? Forse sì, forse no. Ma non importa. Non è sempre quello che si canta, ma è come lo canta. È quello che ti risveglia qualcosa dentro.

CM: In ogni posto del mondo a un angolo della strada c’è qualcuno che canta “My baby left me” (la mia donna mi ha lasciato). La storia non è cambiata poi tanto. Ho ascoltato molto rap e sento che i testi di questi musicisti sono pieni di spirito blues. Neanche loro vogliono arrendersi.

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