24 agosto 2017 13:22

La tensione tra gli Stati Uniti e la Corea del Nord sembra rientrata nei livelli di guardia dopo un crescendo di minacce reciproche di distruzione che hanno fatto temere il peggio. Nonostante gli appelli per un rinvio, data la delicatezza del momento, il 21 agosto sono cominciate le esercitazioni militari congiunte con cui due volte all’anno gli eserciti di Washington e Seoul si preparano a contrastare un eventuale attacco nordcoreano. Sono di carattere difensivo, assicurano i due alleati, “osserveremo attentamente per captare il minimo segnale di aggressione”, ha fatto sapere Pyongyang.

Una strategia statunitense di lungo termine sembra ancora lontana. Per ora il capo della difesa di Washington James Mattis e il segretario di stato Rex Tillerson hanno parlato di “priorità della diplomazia e delle misure economiche”, pur non escludendo l’opzione militare. Ma qualche indizio su come si stanno muovendo gli strateghi statunitensi dopo la guerra di parole tra il loro comandante in capo e il regime di Pyongyang forse c’è. Secondo quanto scrive l’editorialista del Washington Post David Ignatius, i funzionari dell’amministrazione Trump stanno leggendo attentamente The cleanest race (la razza più pura), il saggio del 2010 di Brian R. Myers, docente di relazioni internazionali alla Dongseo university di Busan, in Corea del Sud.

Myers è uno statunitense che ha frequentato l’università nell’ex Germania Ovest e ha un dottorato in letteratura nordcoreana. The cleanest race è il frutto di otto anni trascorsi ad analizzare il materiale propagandistico nordcoreano raccolto dal ministero dell’unificazione di Seoul in cui l’autore smonta la convinzione diffusa che la Corea del Nord sia un regime comunista di stampo stalinista. Al contrario, dice Myers, se dobbiamo collocare il regime dei Kim nello spettro delle ideologie, allora è più vicino all’ultranazionalismo di destra, arricchito dall’idea di fondo che la razza coreana è la più pura e vulnerabile di tutte, dunque va difesa. Chi lo deve fare? I Kim. Nel 2015 Myers ha pubblicato anche un libro dedicato alla juche, l’apparato ideologico su cui si fonda lo stato nordcoreano. Al di là dei temi della sua ricerca accademica, in merito alla crisi Myers è una voce fuori dal coro in un momento in cui tra gli analisti statunitensi è sempre più diffusa l’idea che accettare che Pyongyang abbia il nucleare sia inevitabile, e a Seoul è da poco in carica un presidente progressista sostenitore della “linea morbida” verso il Nord.

Come vede l’ennesima crisi che sembra riproporsi ciclicamente nella penisola coreana?
“Non penso che la situazione sia più tranquilla adesso. Dobbiamo abbandonare l’idea che stiamo assistendo a un mero ciclo che si ripete. La parola ‘ciclo’ implica che entrambe le parti finiscano per tornare nel punto da cui sono partite, invece la posizione della Corea del Nord migliora ogni anno che passa. Adesso siamo allo stadio finale di una campagna lineare pianificata da tempo per cacciare le truppe statunitensi dalla penisola coreana. Negli Stati Uniti c’è chi suggerisce che Washington accetti semplicemente Pyongyang come potenza nucleare e ci conviva. Ma la Corea del Nord non si accontenta della coesistenza. Vuole unificare la penisola. Spesso si paragona la Corea del Nord alla Germania Est, ma mentre la Germania Est aveva perso il suo interesse per l’unificazione almeno dagli anni settanta, la Corea del Nord non ha mai smesso di parlare ossessivamente dell’unificazione come della ‘vittoria finale’. E perché non dovrebbe volerlo? Perché non dovrebbe voler correggere il torto che è stato fatto al popolo coreano quando la loro patria è stata divisa in due? Anche i più ingenui sostenitori dell’appeasement negli anni trenta sapevano che Hitler avrebbe come minimo ripristinato i confini della Germania precedenti al trattato di Versailles. Quindi non capisco perché si pensi che la Corea del Nord, che già una volta ha dichiarato guerra per la riunificazione, non dovrebbe sognare di riprovarci. È una pia illusione”.

Lei ha scritto due libri sull’ideologia nordcoreana, il cui ruolo in genere è poco considerato nelle analisi del comportamento di Pyongyang. Quanto è importante per capire le sue mosse?
“Gli studiosi considerano sempre la loro area di ricerca la più importante. Ma sono sinceramente convinto che questa crisi nucleare sia il risultato del fatto che per decenni Washington ha ignorato l’ideologia della Corea del Nord. Mi spingerei fino a dire che i principali disastri americani in politica estera sono dovuti in gran parte alla sottovalutazione dell’importanza delle questioni ideologiche. Abbiamo pensato che Hitler non credesse davvero alla propaganda nazista. Abbiamo creduto che i giapponesi non prendessero il loro nazionalismo abbastanza sul serio da attaccare gli Stati Uniti. Abbiamo sottovalutato la determinazione dell’Unione Sovietica nel diffondere il comunismo. Abbiamo sottovalutato il nazionalismo vietnamita, l’intensa antipatia dei musulmani iracheni nei confronti degli Stati Uniti. Non dico che l’ideologia spieghi ogni cosa. La realpolitik gioca un ruolo importante nelle questioni di tutti i giorni. Ma è importante che la gente almeno capisca che la Corea del Nord è uno stato ultranazionalista e non comunista”.

Le crisi come quella recente sono considerate una questione tra gli Stati Uniti e la Corea del Nord, mentre Seoul di solito rimane in secondo piano. Ma lei ha scritto che potrebbe avere un ruolo centrale. La soluzione alle crisi è da cercare nelle relazioni tra le due Coree?
“Il problema centrale in questa crisi nucleare è la convinzione di Pyongyang di poter sottomettere la Corea del Sud abbastanza facilmente, magari senza alcuno spargimento di sangue, se le truppe statunitensi si ritirassero dalla penisola. Se si pensa a quanto passivamente il governo conservatore reagì al bombardamento di un’isola sudcoreana da parte della Corea del Nord nel 2010, si capisce che la fiducia del regime di Kim Jong-un è giustificata. In Corea del Sud c’è molta simpatia e anche ammirazione per la Corea del Nord, e una generale mancanza di volontà di combattere contro Pyongyang. Lo stesso presidente Moon Jae-in ha detto che ‘una pace codarda è meglio di una guerra giusta’. In occidente la parola appeasement (letteralmente: pacificazione) ha assunto toni molto negativi dopo che Hitler ha invaso la Polonia, ma qui in Corea del Sud l’appeasement è considerato molto razionale e ragionevole da chiedere. Al mondo piace quando la Corea del Sud manda a Pyongyang messaggi pacifici e addirittura remissivi.

A Paju, in Corea del Sud, dove sono appesi messaggi che chiedono la riunificazione tra le due Coree, 16 agosto 2017. (Lee Jin-man, Ap/Ansa)

La gente pensa che sia utile ad allentare le tensioni. In realtà incoraggia la Corea del Nord ad armarsi più rapidamente, e a rivolgere minacce ancora più feroci verso Washington. Se hai assunto una guardia del corpo perché ti protegga da uno stalker e poi ti sporgi dalla finestra e prometti allo stalker che non gli farai resistenza, stai contribuendo a risolvere il problema? Ovviamente no. Non sto dicendo che il presidente Moon debba parlare come Donald Trump. Ma è necessario un tipo di approccio alla Willy Brandt (il cancelliere tedesco promotore della politica di normalizzazione dei rapporti con la Germania Est e il blocco orientale dell’Europa). In altre parole, la Corea del Sud dovrebbe mostrare alla Corea del Nord non solo un desiderio di pace e dialogo ma anche una fiducia ferma nei propri valori costituzionali, e rifiutare di farsi bullizzare. Gli Stati Uniti devono chiedere un atteggiamento di questo tipo alla Corea del Sud. È assurdo che Washington sprechi tempo cercando l’aiuto dalla Cina quando il problema più grande è nella stessa alleanza tra Seoul e Washington”.

Pensa che il presidente Moon Jae-in riuscirà a svolgere quel ruolo fondamentale?
“È difficile dirlo. Da un lato, Moon è il primo ideologo davvero ben disposto nei confronti del Nord ad arrivare al potere in Corea del Sud. I suoi predecessori di area progressista erano di una generazione più vecchia e più filostatunitense. Moon ha più volte dichiarato il suo interesse a formare rapidamente una confederazione con la Corea del Nord. (Nel 1972 Seoul e Pyongyang avevano concordato che per arrivare all’unificazione avrebbero rispettato i tre princìpi di autonomia, mezzi pacifici e unità nazionale. Nel 2000 svilupparono i tre princìpi esplicitando i meccanismi che avrebbero portato all’unificazione e trovarono alcuni elementi comuni tra le due proposte: una confederazione delle repubbliche, proposta da Seoul, e una federazione più blanda, proposta da Pyongyang). Il 15 agosto ha pronunciato un discorso in cui sostanzialmente ha detto che il suo stato non opporrebbe una resistenza militare a un’eventuale aggressione di Pyongyang. Quindi, se fossi Kim Jong-un penserei: ‘Bisogna che gli yankee se ne vadano in fretta, finché questo ragazzo è al governo’. E se fossi Trump penserei: ‘Dovrei rischiare migliaia, forse milioni, di vite statunitensi per un alleato interessato più a proteggere la Corea del Nord che gli Stati Uniti? È tempo di riportare a casa le truppe’. Dall’altro lato, Moon sembra ossessionato dalla sua popolarità nei sondaggi. Quando i cittadini sudcoreani capiranno che c’è il rischio che gli Stati Uniti ritirino davvero le truppe, potrebbero prendersela con il presidente e chiedere il ritorno alle politiche dei suoi predecessori conservatori. Questo potrebbe portare a un cambiamento, ma non ci scommetterei”.

Però la presenza militare statunitense nella penisola non è legata solo all’alleanza con Seoul, è fondamentale per la posizione strategica di Washington in Asia. Pensa che gli Stati Uniti sarebbero disposti a lasciare il campo libero alla Cina?
“Il ritiro delle truppe statunitensi sarebbe di certo un duro colpo per lo status dell’America in Asia, ma nessun presidente statunitense può permettersi di esporre la sua popolazione alla minaccia costante di un attacco nucleare per conto di un alleato che si considera un intermediario o addirittura un protettore del nemico. Moon ha detto agli americani che si oppone anche al minimo uso della forza contro la Corea del Nord per paura di una ritorsione contro Seoul. Lo capisco, ovviamente, ma questo significa che l’alleanza sta facendo più per proteggere Pyongyang che per proteggere i due alleati. Se fossi Kim Jong-un vorrei che l’alleanza continuasse per un altro paio d’anni mentre perfeziono il mio arsenale. E nei panni dell’amministrazione statunitense mi renderei conto che potrei eliminare la minaccia nordcoreana più efficacemente stando fuori dell’alleanza. Non dimentichiamo il ruolo dell’opinione pubblica statunitense. Nel 2002 e nel 2008 per mesi gli americani hanno visto le immagini di folle di sudcoreani che bruciavano le bandiere statunitensi (contro la presenza militare statunitense nel 2002, contro le importazioni di carne bovina dagli Stati Uniti nel 2008 ndr). A Seoul si vedevano suore cattoliche con addosso gli adesivi ‘Fuck USA!’. Oggi l’estrema sinistra sta cercando di far montare di nuovo quel sentimento e se ci riesce il sostegno dei cittadini americani all’alleanza calerà drasticamente”.

Pyongyang vuole il ritiro delle truppe statunitensi dalla penisola. E poi? Dato che una riunificazione sotto la guida nordcoreana non sarà mai possibile, qual è uno scenario realistico?
“Non sono così certo che una riunificazione sotto il governo nordcoreano non sarebbe possibile. Se gli Stati Uniti ritirassero le truppe, il Nord e il Sud acconsentirebbero a formare una confederazione che sarebbe presieduta da un consiglio composto da un uguale numero di delegati dei due stati. Solo che quelli del Nord formerebbero un blocco monolitico, mentre quelli del Sud, eletti democraticamente, includerebbero almeno qualche radicale favorevole all’appeasement. Così il Nord sarebbe in vantaggio da subito. Se il Nord mandasse i tank oltre la zona demilitarizzata, il Sud difficilmente reagirebbe militarmente. Il resto del mondo disapproverebbe l’aggressione da parte del Nord, ma la considererebbe una questione interna. Oswald Spengler diceva che la gente teme le minacce, ma accetta il fatto compiuto molto facilmente”.

È sicuro che il Consiglio di sicurezza non approverebbe un intervento armato contro l’aggressione da parte del Nord?
“Le armi nucleari nordcoreane possono colpire anche la Russia e la Cina. Pensa che sarebbero così stupidi da schierarsi con Seoul contro Pyongyang per fare un favore agli Stati Uniti? Qualsiasi incursione nordcoreana al Sud avverrebbe nel mar Giallo, perché, come la Corea del Nord accertò nel 2010, né Seoul né Washington sono fermamente convinte della legittimità del confine marittimo tra Nord e Sud.

Durante un discorso del presidente sudcoreano Moon Jae-in a Seoul, il 15 agosto 2017, in occasione della festa nazionale per l’indipendenza. (Ahn Young-joon, Ap/Ansa)

Quando la Corea del Nord nel 2010 bombardò l’isola di Yeonpyeong (appena sotto il confine), il sindaco della vicina Incheon ci scherzò su e Jimmy Carter disse al Washington Post che il Nord voleva solo la pace. Se nascesse una confederazione, il Sud annullerebbe quella parte del confine marittimo creando una ‘zona di pace’ in cui le navi mercantili di entrambe le parti si muoverebbero liberamente. È quanto concordato nel summit intercoreano del 2007, e per Moon rimane valido. In quel caso per Pyongyang sarebbe un gioco da ragazzi imbarcare i soldati su un mercantile e occupare l’isola di Yeonpyeong. Pensa che allora la Cina approverebbe l’uso della forza militare contro una Corea del Nord nuclearizzata? Mai”.

Molti analisti hanno definito l’ultima crisi tra Stati Uniti e Corea del Nord una “crisi dei missili cubani in miniatura”. È un paragone calzante?
“Il paragone con la crisi dei missili di Cuba è particolarmente pericoloso perché ritirarsi da un conflitto è molto più facile per uno stato comunista che per un regime che mette la forza militare davanti a tutto, come quello nordcoreano, e rischierebbe di perdere tutta la legittimità agli occhi dei suoi governati. Questo dev’essere tenuto a mente. Gli Stati Uniti e la Corea del Sud dovrebbero mostrarsi a Pyongyang risoluti e uniti. Invece Seoul ha un atteggiamento remissivo e gli Stati Uniti alternano dichiarazioni pacifiche e bellicose”.

Ma è dal 2001 che gli Stati Uniti e la Corea del Sud hanno smesso di avere un atteggiamento conciliatorio. A cosa potrebbe portare una maggiore risolutezza dei due alleati?
“Invece è quello che non hanno fatto dal 2001, o anche dal 1993, quando il presidente sudcoreano Kim Young-sam disse pubblicamente che ‘nessun alleato è buono quanto un alleato della stessa razza’. L’accordo seguito al summit del 2001 era così vantaggioso per Pyongyang che il regime l’ha presentato insistentemente come un accordo antiamericano. Sotto Roh Moo-hyun (progressista ndr) e il suo successore osservatore Lee Myung-bak, la Corea del Sud ha continuato a mandare enormi quantità di denaro al Nord mentre Washington si batteva per aumentare le sanzioni. Nemmeno i due attacchi militari del 2010 hanno spinto Seoul a chiudere la zona industriale speciale di Kaesong. E la Corea del Sud ha più volte trasmesso una mancanza di orgoglio verso i suoi princìpi costituzionali democratici, l’ultima volta nel discorso di Moon del 15 agosto, in cui il presidente si è collocato in una tradizione nazionalista e non liberaldemocratica”.

Veramente negli ultimi quattro anni l’amministrazione della conservatrice Park Geun-hye, che ha preceduto quella di Moon, ha avuto un atteggiamento molto duro verso Pyongyang, e tra le altre cose ha chiuso la zona industriale di Kaesong. Eppure è negli ultimi due anni che la Corea del Nord ha accelerato lo sviluppo del suo arsenale. Quindi il risultato della linea dura è stato un fallimento.
“C’è un doppio standard quando si discute della penisola. L’atteggiamento comune è ‘non possiamo farci sconvolgere dall’aggressività dei nordcoreani perché loro sono così. Quello che è davvero pericoloso e imperdonabile è quando gli Stati Uniti o la Corea del Sud provano a mostrarsi risoluti’. Questo doppio standard ha giocato un ruolo importante nell’incoraggiare Pyongyang a comportarsi in modo sconsiderato. Ricordiamoci che la zona industriale di Kaesong non è stata chiusa dopo i due attacchi del 2010, e che Park Geun-hye è rimasta favorevole alla continuazione delle attività anche dopo la cosiddetta crisi coreana del 2013, quando il Nord, mentre minacciava di distruggere il Sud se provocato, ritirò tutti i suoi operai che lavoravano lì e bloccò l’accesso ai sudcoreani (le fabbriche nella zona industriale sono di proprietà sudcoreana ndr). Seoul accettò di riaprire Kaesong qualche mese dopo, dato che era quello che voleva anche Pyongyang. La presidente Park ha deciso di chiuderla definitivamente solo nel gennaio del 2016, quando ormai era chiaro che era più fonte di conflitto e frizioni che di riconciliazione.

Purtroppo il mondo occidentale ha accettato la definizione nordcoreana di ‘intransigente’, secondo cui un governo sudcoreano è tale se non continua ad aiutare il Nord e ad avere scambi commerciali con il Nord anche dopo test nucleari, lanci di missili e di fronte a minacce costanti di distruzione. Ma secondo qualsiasi standard internazionale, un comportamento simile sarebbe considerato ragionevole e di buon senso. E comunque non dimentichiamo che anche sotto la presidenza di Park almeno 60 milioni di dollari in aiuti umanitari sono stati mandati al Nord. Inoltre la linea morbida è proseguita per dieci, quindici anni senza il minimo effetto sull’aggressività nordcoreana, e tutti hanno detto: ‘Aspettiamo altri dieci o vent’anni, dobbiamo avere pazienza’. Ma qualche mese dopo l’insediamento di Park, tutti si sono affrettati a dichiarare fallimentare le sue presunte politiche ‘intransigenti’. Concordo certamente sul fatto che le sanzioni economiche non hanno fermato lo sviluppo militare nordcoreano, grazie soprattutto alla contrarietà della Cina, ma non per questo Seoul dovrebbe tornare a finanziare lo sviluppo delle armi con cui il regime di Kim Jong-un minaccia di ‘non lasciare vivo nessuno che possa firmare la resa’. Sarebbe un segnale di debolezza e sottomissione che farebbe solo crescere le tensioni”.

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