30 novembre 2017 18:13

Con Smetto quando voglio. Ad honorem si conclude la trilogia di Sydney Sibilia sulla famigerata “banda dei ricercatori”. E si chiude a tempo di record, visto che la seconda parte, Smetto quando voglio. Masterclass è uscito meno di un anno fa, a febbraio del 2017. Masterclass e Ad honorem sono stati in realtà girati come un’unica produzione, poi divisa in due. I complicatissimi intrecci tra primo, secondo e terzo film (ma soprattutto tra secondo e terzo, che sono al tempo stesso sequel e prequel del primo) sono uno degli aspetti più divertenti della trilogia e anche un invito a vederli e rivederli, più o meno in rapida successione.

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A che punto eravamo? Rientrando in carcere, in attesa di giudizio, il neurobiologo Pietro Zinni (Edoardo Leo) scopre che dietro una smart drug chiamata Sopox si nasconde una minaccia inquietante. Zinni non può scongiurarla da solo, ma con l’aiuto della sua banda è convinto di riuscire a fermare quello che sembra un attentato. Complimenti agli autori, perché alla fine tutto torna e s’incastra alla perfezione. E parlando di ritorni non si può non citare Neri Marcorè nella parte del Murena, la ciliegina su una torta già strabordante di ingredienti (senza voler togliere nulla agli altri, tutti meravigliosi, i ricercatori a cui mi sono affezionato di più sono l’economista Bonelli, Libero De Renzo, e il chimico Petrelli, Stefano Fresi).

Oltre alla trama complicata, una sceneggiatura generosissima di trovate divertenti, un cast molto nutrito in cui ognuno ha il suo momento, la trilogia di Sydney Sibilia ha tanti altri meriti, come per esempio riuscire a mostrare la Roma di oggi come nessun altro è riuscito a fare. Ma soprattutto Sibilia ha ridato slancio a un genere un po’ involuto (cioè la commedia in Italia) e addirittura l’ha spinto su territori ancora poco e male esplorati, in cui azione e commedia si rincorrono e si equilibrano. Riuscire a tenere insieme tutte queste cose non è un’impresa da poco, ci vogliono idee chiare e creatività, a tutti i livelli. Alla fine del film mi sono reso conto che Zinni e gli altri mi mancheranno, anche se è nella natura delle cose, e anzi speriamo di rimpiazzarli con altre storie, altri eroi, altre trilogie.

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I sami (più conosciuti come lapponi, che però per loro è un termine dispregiativo) sono una popolazione che ha davvero poco a che fare con gli svedesi. A partire dalla lingua, che fa parte del ceppo ugro-finnico, mentre invece lo svedese è indoeuropeo. Come molte altre popolazioni che parlano lingue di quel ceppo, i sami popolano un luogo piuttosto inospitale, che nel loro caso è la parte più a nord della Scandinavia, divisa tra Norvegia, Svezia e Finlandia. Anche per queste caratteristiche i sami rinunciano malvolentieri alle loro tradizioni. Una sami, la quattordicenne Elle-Marja, interpretata da Lene Cecilia Sparrok, è la protagonista di Sami blood, film di Amanda Kernell ambientato per l’appunto in Svezia negli anni trenta.

Elle-Marja e gli altri ragazzini sami sono obbligati a frequentare la scuola svedese, dove non possono parlare la loro lingua. E comunque vestono sempre i loro costumi tradizionali, i gátki. Non tutti gli scolari se la cavano bene come Elle-Marja che avrà l’onore di recitare il benvenuto a una commissione di studiosi svedesi in visita alla sua scuola. La stessa commissione poi esamina la bambina, facendola spogliare completamente e prendendole le misure degli arti, del naso. Come si farebbe con l’esemplare di qualche animale.

Ma Elle-Marja è uno spirito libero. Non le fa piacere essere trattata come una diversa, ma le stanno altrettanto stretti gli abiti tradizionali. Sappiamo praticamente da subito quali saranno le sue scelte. La cosa più interessante del film è che ci fa incontrare la complessità delle relazioni tra comunità diverse e sostanzialmente impermeabili dove non immaginavamo di trovarla. E ci ricorda che le umiliazioni nei confronti delle minoranze sono una tentazione quasi irresistibile per gli ignoranti e per chi ha interesse che gli ignoranti restino tali.

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Era un po’ (dai primi anni ottanta) che non si faceva un filmone con un grande cast internazionale tratto da un romanzo di Agatha Christie. Era tempo che una major rispolverasse un classico di una delle autrici più lette al mondo. E delle più “adattate”. Assassinio sull’Orient Express di e con Kenneth Branagh è l’ultimo di una serie di adattamenti del romanzo del 1934. Non si può non citare quello del 1974 di Sidney Lumet con Ingrid Bergman e Lauren Bacall, ma vale la pena di citare anche quello giapponese del 2015, un film tv in due puntate di Keita Kôno.

Per tornare alla produzione 20th Century Fox, il suo modello è senz’altro quella del 1974, soprattutto per il cast “all star”. Facciamo un giochino. Sfide tra gli attori dei due adattamenti: Kenneth Branagh-Albert Finney, Johnny Depp-Richard Widmark, Daisy Ridley-Vanessa Redgrave, Michelle Pfeiffer-Lauren Bacall, Judi Dench-Wendy Hiller, Josh Gad-Anthony Perkins, Sergei Polunin-Michael York, Willem Dafoe-Colin Blakely, Derek Jacobi-John Gielgud, Olivia Colman-Rachel Roberts. Poi non esattamente nei panni dello stesso personaggio, ma quasi: Penélope Cruz-Ingrid Bergman, Leslie Odom Jr.-Sean Connery, Jean-Pierre Cassel-Marwan Kenzari. Chi vince? (La mia schedina: 2 x 2 2 1 x x 1 2 1 2 2 x). Delle sei candidature all’Oscar del film di Lumet, Ingrid Bergman vinse come attrice non protagonista. Difficilmente Branagh e soci riusciranno a pareggiare.

Intanto, per non sbagliare, la grande industria ha già annunciato una nuova versione di Assassinio sul Nilo.

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Seven sisters mette ripetutamente a dura prova il concetto stesso di sospensione di giudizio. Del resto il regista, il norvegese Tommy Wirkola, è quello che ha trasformato Hansel e Gretel in due Jason Bourne fiabeschi. Da qui in poi c’è qualche spoiler, uno piuttosto pesante, quindi occhio. In un prossimo futuro, una non meglio identificata federazione decide di adottare la politica del figlio unico come antidoto alla sovrappopolazione. Viene istituito un apposito ente, l’onnipotente Child allocation bureau, che quando scopre che hai un fratello ti prende e ti surgela, in attesa di tempi migliori. Dai tempi di 2022 i sopravvissuti e della Fuga di Logan sappiamo che fine fanno gli indesiderati nelle società dei prossimi futuri dominati da non meglio identificate istituzioni. Ma andiamo avanti.

Arriva nonno Terrence (Willem Dafoe) che di fronte alle sette gemelle partorite da sua figlia, morta dandole alla luce, decide due cose. La prima è aggirare la legge dei figli unici, in barba al bureau. La seconda è di chiamarle ognuna come un giorno della settimana. Scelta banale ma comprensibile. Nomi più facili da ricordare rispetto ai sette re di Roma, i sette colli o i sette nani, per non parlare dei sette samurai.

Le sette bimbe avranno una vita difficile perché costrette a condividere un’unica identità, quella di Karen Settman. Il nonno impone regole ferree. Si esce di casa solo una per volta e solo il giorno di cui si porta il nome. Cominciamo a chiederci se il nonno non sia in realtà un po’ sadico (se la gemella brava in latino è Martedì e il compito in classe è venerdì?). Poi però, quando una delle bambine esce di nascosto nel giorno sbagliato, il dubbio sul sadismo del nonno viene definitivamente chiarito. Passano gli anni e ritroviamo le ragazze, ormai donne (interpretate da Noomi Rapace) ancora lì. Hanno un buon lavoro e, chi più chi meno, una vita sociale. Quindi le regole del nonno hanno funzionato. Poi però un brutto lunedì, Lunedì non torna a casa.

C’è qualche momento che ci ripaga per la sospensione di giudizio necessaria a procedere oltre i primi sei minuti di film. Ma alla fine sorge un altro dubbio. Non era meglio vedere un film del genere (action-thriller fanta-distopico con un budget non immenso, ma comunque al di sopra di un film tv di quelli di una volta) comodamente a casa, su Netflix (che l’ha prodotto e di cui paghiamo già l’abbonamento), anziché spenderci sopra altri soldi?

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Un film ambientato nel mondo brutto e cattivo di Michael Haneke può finire bene? Forse sì. Forse La pianista non finiva male. La coltellata che Isabelle Huppert s’infliggeva nella toilette della sala da concerto forse non era mortale… Non so. In Happy end siamo in Normandia, in seno a una facoltosa famiglia borghese costretta ad affrontare una difficile modernità. La stampa francese non ha accolto particolarmente bene il film. I serissimi Cahiers du Cinéma si prendono gioco del regista austriaco, paragonando i suoi film a quelli Marvel: “Ma Michael Haneke crede di essere un supereroe? Abbiamo il diritto di chiederlo, tanto Happy end sembra una visita nell’Haneke cinematic universe”. Nel cast Isabelle Huppert, Jean-Louis Trintignant, Mathieu Kassovitz e Toby Jones.

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In uscita anche Riccardo va all’inferno, musical di Roberta Torre che reinterpreta a modo suo il Riccardo III di Shakespeare, trasportandolo nella periferia di Roma. Riccardo è interpretato da Massimo Ranieri, mentre Sonia Bergamasco interpreta la regina Madre. Infine nel cast della commedia Amori che non sanno stare al mondo di Francesca Comencini, ci sono Lucia Mascino, Thomas Trabacchi e Carlotta Natoli.

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